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Roma, luglio 1496
Il palazzo della Cancelleria era parato a festa come nelle occasioni migliori. Anche se gli abitanti del rione Ponte erano abituati a vedere invitati di alto rango avvicinarsi alle porte del palazzo del mondano cardinale Sforza e anzi attendevano con una certa trepidazione quei momenti – l’indomani, infatti, fuori della porta della cucina si sarebbero accumulati gli avanzi delle laute libagioni e non pochi poveracci sarebbero accorsi a contendersele con cani, gatti e topi – quel giorno sembrava che l’occasione fosse particolarmente importante. Le finestre erano decorate di arazzi e ghirlande di fiori e dal grande portale architravato arrivavano le note delle canzoni con cui gli ospiti sarebbero stati accolti nello splendido cortile loggiato.
La musica eseguita da quattro cantanti accompagnati da organo portativo, tiorba, bombarda, flauti e cornetto si riverberava dolcemente tra le arcate del cortile, anch’esse decorate con ghirlande e nastri, mentre il cardinale camminava nervosamente su e giù e controllava che tutto fosse sistemato alla perfezione. Accanto a lui un giovane cugino, appena arrivato da Milano, si guardava intorno ammirato.
«Che splendido palazzo!» non poté fare a meno di esclamare. «Lo avete fatto costruire voi, Eminenza?»
«No, in realtà fu voluto dal nostro Santo Padre come sede della Cancelleria. Lui stesso vi abitava, quando era vice cancelliere. Ricordo ancora l’impressione straordinaria che mi fece dieci anni fa, quando ebbi occasione di visitarlo per la prima volta! Allora non potevo certo sapere che presto quella carica e, di conseguenza, il diritto di abitare il palazzo, sarebbero passati proprio a me!»
«Sua Santità sarà tra i vostri ospiti stasera?»
«Purtroppo importanti impegni di Stato trattengono il Santo Padre» rispose Ascanio contrariato. Aveva contato sulla possibilità di avere un incontro confidenziale con il pontefice, nella speranza di rinsaldare un’alleanza che, sebbene proficua per entrambi, aveva tuttavia pericolosamente vacillato negli ultimi anni. Sarebbero però stati presenti ben tre dei suoi figli: Lucrezia, l’arcivescovo di Valencia, Cesare, da poco tornato da Napoli, e il figlio minore Jofré con la bella moglie Sancia. Inoltre ci sarebbero stati anche sua nipote Caterina Sforza, in visita a Roma per curare i propri affari, e Raffaele Riario, oltre naturalmente a un buon numero di aristocratici e prelati delle migliori famiglie romane.
L’arrivo degli ospiti era ormai imminente e, constatato che tutto era pronto, il cardinale si ritirò nella sala delle udienze per ricevere il bacio dell’anello.
La prima a giungere, tra gli invitati di maggior riguardo, fu Caterina Sforza. Ancora una volta la signora di Forlì si comportava in modo quantomeno originale: si presentava sola, a eccezione di un servo e due dame di compagnia e non, come ci si aspettava, con il nipote Raffaele. Ma la fama di anticonformista della donna l’aveva preceduta anche a Roma e nessuno se ne stupì più di tanto. D’altra parte, la sua condizione di doppia vedovanza – dopo la morte di Giacomo infatti Caterina aveva reso pubblico il loro matrimonio – le conferiva comunque una maggiore libertà di azione. Senza contare che i rapporti con il nipote, nonostante soggiornassero in quei giorni sotto lo stesso tetto, erano ancora tesi: Caterina infatti era convinta che Raffaele avesse avuto un ruolo di rilievo nell’uccisione di Giacomo.
Caterina quella sera era di buon umore, incuriosita da quello strano invito. Quanto avrebbe apprezzato Roma e le sue continue feste, se avesse potuto condividere quei momenti con Giovanni! Il Popolano si era rivelato all’altezza delle sue aspettative: gioviale, allegro, sensuale, capace di dare ottimi consigli, era riuscito in un tempo relativamente breve a realizzare il miracolo che né le cure del governo né le pozioni miracolose di Lodovico avevano ottenuto: restituire a Caterina il gusto per la vita. Ormai la loro amicizia era più che solida e lei già provava grande nostalgia per il bel fiorentino. O forse a quella che chiamava nostalgia si poteva dare un altro nome: amore?
Caterina seguì il segretario che la accompagnava alla sala delle udienze, baciò l’anello dello zio Ascanio e si accomodò sui cuscini preparati per gli ospiti. Poco dopo arrivò anche suo nipote Raffaele. Era evidentemente irritato con lei per non essere stato atteso ma fece buon viso a cattivo gioco e, dopo aver salutato il padrone di casa, si avvicinò alla zia e la salutò calorosamente, come se non si vedessero da mesi. Al contrario dei Riario, i Borgia si presentarono tutti insieme: davanti Lucrezia, al braccio del fratello Cesare, dietro Jofré con sua moglie Sancia. Caterina aveva avuto già modo di conoscere Lucrezia all’epoca in cui viveva a Roma con Girolamo e poi ancora durante i soggiorni della ragazza alla Rocca di Gradara: allora aveva avuto l’impressione di una bambina gentile e sorridente ma un po’ spaurita, ora vedeva in lei uno sguardo più consapevole e maturo e una nuova sicurezza. Nessuna incertezza esprimevano invece gli occhi impertinenti e vivaci di Sancia, che pure aveva solo due anni più della cognata ma sembrava già donna avvezza a ogni sorpresa della vita. Ben presto lei e Jofré si staccarono e Caterina notò subito lo sguardo fisso di Sancia sul fondoschiena del bel cardinale Borgia che le stava davanti.
«Quale emozione, Vostra Eminenza, tornare in questo palazzo dove ho trascorso tante ore della mia infanzia, quando Sua Santità ricopriva la carica che oggi è la vostra!» proruppe Lucrezia, commossa mentre studiava la stanza. Cesare le accarezzò dolcemente i capelli, come a sottolineare che anche lui condivideva gli stessi ricordi.
«Potete venire a trovarmi ogni volta che vi dovesse assalire la nostalgia del passato, cara Lucrezia» rispose Ascanio.
Dopo un breve scambio di battute, Lucrezia si accomodò al fianco di Caterina, non senza averle rivolto un inchino e un sorriso radioso.
«Pensavo di avere occasione di rincontrare al vostro fianco mio cugino Giovanni. È tanto tempo che non lo si vede a Pesaro!» non perse tempo a indagare Caterina.
«Al contrario! Al momento si trova proprio nella Marca, sebbene fosse atteso con affetto da Sua Santità qui a Roma. Ma evidentemente mio marito doveva ritemprarsi dalle fatiche della guerra di Napoli…» rispose l’altra con evidente disprezzo.
«Sì, ho sentito parlare del suo impegno…»
«… nei festeggiamenti alla fine della guerra» concluse Lucrezia. Le due donne scoppiarono all’unisono in una grande risata che causò loro qualche occhiata di biasimo, con l’unica conseguenza che furono prese entrambe da una ilarità ancora più intensa per la necessità di contenerla. Nonostante la differenza di età, erano a loro agio insieme e si sentivano accomunate dall’essere state costrette in tenera età a sposare uomini che non amavano né stimavano.
«Vedo che vostra cognata si è perfettamente ambientata» commentò Caterina mentre osservava Sancia che si faceva aiutare da Jofré e Cesare a prendere posto sui cuscini e fingeva di perdere l’equilibrio cadendo tra le braccia del cardinale, ben sollecito a sostenerla.
«Fin troppo!» commentò Lucrezia.
Lasciata Sancia a chiacchierare amabilmente con una nobildonna mai vista prima, Cesare passò loro davanti, diretto verso il gruppetto di cardinali che aveva preso posto sull’altro lato della sala. I suoi occhi si fermarono un attimo più del dovuto in quelli di Caterina. La sensazione che lei provò fu strana, inaspettata. Una sorta di scossa, quasi come se si sentisse guardata dal destino stesso.
Anche Lucrezia notò quel fugace quanto intenso contatto visivo, seguito poi da un profondo inchino di Cesare, anch’esso un po’ troppo esagerato da parte di un cardinale.
«Credo che ci sia qualcun altro che vorrebbe scambiare quattro chiacchiere con voi!» ridacchiò.
«Mi sembra che vostro fratello abbia già altri pensieri per la testa» ribatté Caterina, poi subito si morse la lingua per paura di aver detto qualcosa di offensivo – in fondo Sancia e Jofré erano sposi quasi novelli – e soprattutto di sgradito a Lucrezia, che sapeva legata al fratello da un affetto che qualcuno non esitava a definire eccessivo se non addirittura perverso. E infatti Lucrezia si rabbuiò per un istante, poi scrollando i lunghi capelli come a voler allontanare un pensiero fastidioso, rispose calma: «Mio fratello ha una grande testa in cui stanno molti pensieri. Ma quelli che rimangono a lungo e si dimostrano degni della sua attenzione sono solo pochi».
La conversazione tra le due donne continuò mentre arrivavano gli ultimi ospiti e, sempre accompagnati dalle melodie del gruppo musicale che nel frattempo si era spostato nel salone, gli invitati furono accompagnati ai tavoli.
La cena, sontuosa come prevedibile, si tenne in allegria e spensieratezza, al ritmo delle frottole e dei madrigali più in voga, da quelli di Josquin Desprez, il grande musicista fiammingo che, dopo essere stato per anni al servizio degli Sforza e dello stesso Ascanio, era passato a militare nella cappella pontificia, a quelli di Domenico da Piacenza e Loyset Compère.
La conversazione, pur risultando inevitabilmente monca per l’impossibilità di spettegolare sul tema più amato dai romani, ovvero gli scandali di famiglia Borgia, si fece via via che il vino scorreva più intensa e rumorosa.
«Queste frittelline di verdura e di fiori di sambuco sono una vera delizia! Non riesco invece a identificare la spezia che dà questo sapore particolare alla minestra di pollo.»
«Credo si tratti di semi di canapa» rispose Sancia alla propria vicina. E subito colse l’occasione per raccogliere qualche informazione: «Mi avevano detto che non corresse buon sangue tra Caterina Sforza e i parenti del suo primo marito ma vedo che chiacchiera e scherza amabilmente con suo nipote, il cardinale di San Giorgio!».
«Non lasciatevi ingannare dalle apparenze» rispose la donna ridendo. «Voi siete nuova dell’ambiente romano, dovete ancora abituarvi alla nostra abilità di dissimulazione. In realtà i rapporti sono piuttosto tesi.»
«Ma non abitano nella stessa casa?»
«E cosa vuol dire?» rise di nuovo la donna. «I nemici è meglio tenerseli vicini, così si controllano più facilmente. I Riario non si fidano di Caterina. E in quanto a lei…» la donna abbassò la voce.
«Ebbene?» la pungolò incuriosita Sancia avvicinando l’orecchio alla bocca della vicina.
«È convinta che siano stati i Riario a dare l’ordine di uccidere il suo secondo marito!»
«Dio mio!» esclamò Sancia mettendosi una mano davanti alla bocca e fingendo uno sconvolgimento tutt’altro che reale. In verità situazioni del genere erano all’ordine del giorno anche a Napoli e lei vi era perfettamente abituata.
Anche gli altri commensali erano sprofondati nella conversazione. Una nobildonna di casa Carafa invano tentava di spiegare alla nipote Innocenza, appena giunta dai possedimenti di campagna, i rapporti di parentela che univano le varie persone riunite intorno al tavolo.
Le delucidazioni durarono a lungo, lasciando la povera Innocenza tanto frastornata che fu con un certo sollievo che accolse l’arrivo in tavola di una serie infinita di arrosti, prevalentemente di cacciagione, di cui alcuni laccati o dorati.
«Ma… non faranno male allo stomaco queste dorature?» chiese preoccupata.
«Ma quando mai! Anzi, sono un vero toccasana!»
La ragazza, non molto convinta, si limitò a sbocconcellare qualche petto di quaglia, mentre gli altri commensali si avventavano sul cibo come se non mangiassero da mesi. Apprezzò invece decisamente il più consueto riso e latte di mandorle che pensava concludesse la cena, salvo scoprire con incredulità che rappresentava solo un intermezzo, dopo il quale furono portati in tavola un capretto in crosta e vari piatti di pesce.
A quel punto anche gli altri invitati cominciavano a dare segni di cedimento e accolsero con gioia l’arrivo delle ultime prelibatezze, zabaglione e biancomangiare accompagnati da ottima Malvasia.
Tutti ormai attendevano con ansia il momento della “sorpresa” artistica preannunciata dal cardinale e furono ben contenti quando Ascanio li invitò ad alzarsi e a seguirlo.
L’ora era ormai avanzata e la notte incalzava. Lasciata la sala fastosamente illuminata, s’inoltrarono per alcuni bui corridoi; fu perciò ancora più intensa la sensazione di luce improvvisa quando entrarono in una saletta rischiarata da numerose lampade, al cui centro era collocata una scultura, piccola ma quasi dotata di una luce propria: il Cupido di Michelangelo.
Il cardinale Ascanio, che teneva d’occhio Raffaele Riario, gioì malignamente nel vederlo impallidire e farsi livido di rabbia. Tutti gli altri, invece, avevano già raggiunto la statua ed esprimevano ad alta voce la propria ammirazione: «Che meraviglia!».
«Davvero stupendo!»
«Da dove proviene quest’opera sublime?»
«Risale senza dubbio all’epoca adrianea!»
«Che splendore! Che marmo eccezionale!»
Prima di mo...