II. Il contesto sociale
Se l’elemento peculiare del cristianesimo è appunto Gesù Cristo, se lo stesso Gesù Cristo rappresenta in pari tempo il programma del cristianesimo, si pone il problema: chi è questo Gesù Cristo? Che cosa voleva? Variando la risposta a queste due domande, varia anche la fisionomia del cristianesimo. Già nel contesto sociale, culturale e religioso di allora si affrontò quella che avrebbe finito col diventare una questione di vita o di morte: Gesù – che cosa vuole, chi è: un uomo dell’establishment o un rivoluzionario? Un tutore della legge e dell’ordine o un combattente per una trasformazione radicale? Un assertore della pura interiorità o un fautore della libera secolarità?
C’è un altro aspetto che non si sarebbe mai dovuto dimenticare o tacere: Gesù era ebreo. Agì tra ebrei, a vantaggio di ebrei. Sua madre Maria, suo padre Giuseppe, la sua famiglia, il suo entourage erano ebrei. Il suo nome era ebreo (ebraico «Jeshua», da «Jehoshua», che significa «Jahvè è aiuto»). La sua Bibbia, la sua liturgia, le sue preghiere erano ebraiche. Ma quello che ci si deve chiedere oggi è: a quale giudaismo apparteneva?
1. Establishment?
Gesù apparve spesso il rappresentante, capace di tutto giustificare, del sistema politico-religioso, dei suoi dogmi, del culto, del diritto canonico: il capo invisibile di un ben visibile apparato ecclesiastico, il garante dell’ordine costituito in materia di fede, morale e disciplina. Che cosa non ha dovuto legittimare e sanzionare, in duemila anni di cristianità, nella Chiesa e nella società! A lui si sono richiamati dinasti cristiani e principi della Chiesa, partiti cristiani, classi e razze. Quante strane idee, leggi, tradizioni, usanze, disposizioni non ha dovuto avallare! Contro ogni tentativo di addomesticamento bisogna mettere in chiaro che Gesù non fu un uomo dell’establishment ecclesiastico e sociale.
Il sistema politico-religioso
Una problematica anacronistica? Per nulla. Al tempo di Gesù esisteva un massiccio establishment religioso-politico-sociale, una specie di stato teocratico contro il quale Gesù avrebbe urtato senza successo.
L’intera struttura di potere e di dominio era legittimata da Dio quale Signore supremo. Religione, giustizia, amministrazione, politica formavano un in-treccio indissolubile. E al vertice gli stessi uomini: una gerarchia sacerdotale con un clero superiore e inferiore (sacerdoti e leviti), che veniva investita del proprio ministero per via ereditaria, non godeva della simpatia popolare, ma esercitava il potere insieme con pochi altri gruppi in una società ebraica nient’affatto omogenea, dovendo in ogni caso sottostare al controllo della forza d’occupazione romana, che si era riservata le decisioni politiche, la salvaguardia della quiete e dell’ordine e, a quanto sembra, la facoltà di emettere condanne a morte.
Nel collegio centrale con poteri governativi, amministrativi e giudiziari, nel consiglio supremo di Gerusalemme, competente per tutti i problemi religiosi e di diritto civile – alla greca, «sinedrio» (= assemblea; donde l’aramaico «sanhedrin») –, erano rappresentati i ceti dominanti: 70 membri sotto la presidenza del sommo sacerdote. Quest’ultimo, benché insediato dai romani, era pur sempre il massimo rappresentante del popolo ebraico.
E Gesù? Gesù non aveva niente a che fare con nessuno dei tre gruppi. Niente a che fare con i «sommi sacerdoti» o sacerdoti superiori (il sommo sacerdote in carica e, riuniti apparentemente in una specie di concistoro, i suoi predecessori, con alcuni altri titolari di alte cariche sacerdotali). Niente a che fare con gli «anziani» (i capi delle influenti famiglie aristocratiche non sacerdotali della capitale). Niente a che fare, infine, con gli «scribi», che da alcuni decenni sedevano anch’essi nel sinedrio (teologi-giuristi, per lo più – anche se non solo – d’orientamento farisaico). Gesù avrebbe presto conosciuto l’ostilità di tutti questi gruppi. Che egli non fosse uno dei loro, apparve chiaro fin dall’inizio.
Né sacerdote né teologo
Il Gesù della storia non era un sacerdote: l’interpretazione posteriore, postpasquale di Gesù come «eterno sommo sacerdote», avanzata nella lettera agli Ebrei, non deve trarre in inganno. Egli fu un comune «laico», guida – subito sospetta agli occhi della classe sacerdotale – di un movimento laico dal quale i sacerdoti si tennero alla larga. I suoi seguaci erano gente semplice. Per quanto numerose siano le figure che si avvicendano nelle parabole di Gesù, così vicine alla mentalità popolare, quella del sacerdote compare una volta sola, non già come modello, ma come esempio deterrente, poiché, a differenza del samaritano eretico, non degna neppure d’attenzione la vittima dei predoni. Non a caso Gesù prese spunto piuttosto dalla vita quotidiana che non dalla sfera del sacro.
Il Gesù della storia – avranno motivo di rammaricarsene certi professori di teologia – non era neppure un teologo. Ne è una prova indiretta la tarda leggenda del fanciullo dodicenne nel Tempio, quale ci viene tramandata da Luca nell’ambito dei racconti dell’infanzia. Gesù era un paesano, per giunta «illetterato», come gli rinfacciavano i suoi avversari. Non poteva vantare nessuna cultura teologica, non aveva studiato per anni, secondo la consuetudine, sotto la guida di un rabbi, non era stato a sua volta ordinato rabbi mediante imposizione delle mani né era stato autorizzato a svolgerne le mansioni, anche se «rabbi» (qualcosa come «dottore») fu chiamato rispettosamente da molti. Non diede a intendere di essere un esperto di ogni possibile questione dottrinale, morale, giuridica, legale, non si presentò primariamente in veste di custode e interprete delle tradizioni sacre. Pur conformando la sua vita all’Antico Testamento, non ne fornì un’esegesi scolasticamente pedante come i contemporanei teologi-scribi, e in pratica non fece mai ricorso all’autorità dei padri, proponendo piuttosto, con stupefacente libertà di metodo e di contenuti, con immediatezza e naturalezza, un messaggio tutto suo.
Egli fu, se si vuole, un narratore pubblico, uno di quei personaggi che si incontrano ancor oggi sulla piazza principale di Kabul o in India, davanti a un uditorio di centinaia di persone. Ovviamente Gesù non raccontava favole, saghe o storie fantastiche. Attingeva alle esperienze proprie e altrui, trasformandole in esperienze di coloro che lo ascoltavano, mosso in tutto questo da un interesse innanzitutto pratico e dalla volontà di consigliare, di aiutare gli uomini.
Il suo modo di insegnare è profano, popolare, diretto: se occorre, un argomentare tagliente, spesso consapevolmente grottesco e ironico, sempre pregnante, concreto e plastico. In ogni affermazione una nitida sicurezza, una singolare sintesi di scrupolosa obiettività, di poetica icasticità e di pathos retorico. Gesù non dipende da formule e dogmi. Non sviluppa una profonda speculazione o una dotta casistica intorno alla Legge. Parla per sentenze, similitudini e brevi racconti, comprensibili e accessibili a tutti, desunti da una vita quotidiana disadorna, di cui ognuno ha esperienza. Molte delle sue caratteristiche espressioni sono divenute proverbi dei popoli. Anche le sue asserzioni sul regno di Dio non sono rivelazioni segrete sulla natura del regno dei cieli, non sono concettose allegorie a più incognite, come quelle ingegnosamente elaborate dopo di lui nella cristianità. Sono parabole e similitudini di penetrante sottigliezza, che situano la tanto diversa realtà del regno di Dio in una realtà umana osservata con sobrio realismo. L’estrema risolutezza delle sue concezioni e delle sue sollecitazioni non presuppone eccezionali requisiti di carattere intellettuale, morale o ideologico. L’uomo deve ascoltare, capire e trarre le conseguenze. Non viene interrogato sulla fede vera, sulla professione di fede ortodossa. Non gli viene richiesta una riflessione teoretica, ma un’imperiosa decisione di ordine pratico.
Non con la classe dirigente
Il Gesù della storia non era un militante o un simpatizzante del partito di governo liberal-conservatore. Non apparteneva al gruppo dei sadducei. Dai ranghi di questo partito della classe socialmente privilegiata – il cui nome derivava o dal sommo sacerdote Saddoc (contemporaneo di Salomone) o dall’attributo «zaduk» (= osservante del diritto) – usciva regolarmente il sommo sacerdote. Come partito clericale-aristocratico, accoppiava a una linea di condotta liberale verso l’esterno un atteggiamento conservatore all’interno: mentre si svolgeva una realistica «politica estera» di adeguamento e di distensione, nel più assoluto rispetto della sovranità di Roma, all’interno si mirava al mantenimento della propria posizione di preminenza, tentando di salvare il salvabile dello stato ecclesiastico-clericale.
Gesù, però, non era evidentemente disposto ad adottare, con un’esteriore apertura secolare, le moderne forme di vita ellenistiche, a impegnarsi per la conservazione dell’ordinamento vigente e a subordinare la grande idea dell’avvento del regno di Dio. Egli rifiutava questo tipo di liberalismo. Ma anche questo tipo di conservatorismo.
Gesù non aveva nessuna simpatia per la concezione giuridica conservatrice dei circoli dirigenti: questi consideravano vincolante la sola Legge scritta di Mosè, rigettando le deduzioni che ne avevano tratto, spesso nell’intento di mitigarne la crudezza, i farisei. Volendo soprattutto perpetuare la tradizione del Tempio, battevano su un incondizionato rispetto del sabato e sull’irrogazione di severe pene in conformità con la Legge. Nella prassi, tuttavia, dovevano frequentemente uniformarsi alla concezione più popolare dei farisei.
Gesù non aveva simpatia neppure per la teologia conservatrice dell’aristocrazia sacerdotale sadducea, ancorata alla parola biblica scritta, custode della dogmatica connessa con l’antica fede giudaica, secondo cui Dio abbandona in larga misura il mondo e l’uomo al loro destino, e la fede nella risurrezione costituisce un’innovazione.
Trasformazione radicale
Gesù non si preoccupava dello status quo politico-religioso. Il pensiero rivolto unicamente a un futuro migliore per il mondo e per l’uomo, egli attendeva un’imminente trasformazione radicale della situazione. Per questo criticò con la parola e con l’azione l’ordinamento vigente e mise radicalmente in discussione l’establishment religioso. La liturgia del Tempio e l’osservanza religiosa della Legge – i due fondamentali pilastri della religione e della comunità ebraiche dopo il ritorno di Israele dall’esilio babilonico nel V secolo e la riforma di Esdra – non rappresentavano per lui una norma suprema. Viveva in un’altra dimensione rispetto ai gerarchi e ai politici, affascinati dalle proporzioni universali della potenza romana e della cultura ellenistica. Non condivideva con i liturgisti del Tempio una fede che contemplava solo una permanente signoria di Dio su Israele, una sua perpetua sovranità sul mondo, costituita fin dalla creazione del mondo stesso. Credeva, con molti uomini religiosi del suo tempo, in un dominio universale di Dio che, instaurandosi in un futuro non lontano, avrebbe comportato il finale e definitivo compimento del mondo. «Venga il tuo regno»: sono parole che alludono agli «eschata», alle «cose ultime», a quella che nel gergo teologico si suole definire la sovranità «escatologica» di Dio: il futuro regno di Dio nel tempo finale.
Gesù era quindi sorretto da un’intensa attesa della fine: questo sistema non è definitivo, questa storia va incontro alla fine. È cioè ora. È giunto il momento. Questa stessa generazione assisterà al succedersi degli eoni e alla rivelazione finale (greco: «apokalypsis») di Dio. Gesù viene così indiscutibilmente attratto nell’orbita del movimento «apocalittico», che a partire dal II secolo a.C. ha contagiato vasti strati del giudaismo, sotto l’influsso di scritti apocalittici anonimi, attribuiti a Enoch, Abramo, Giacobbe, Mosè, Baruc, Daniele, Esdra. Ma a Gesù non interessa appagare la curiosità umana con speculazioni mitiche o profezie astrologiche. Non segue gli apocalittici nel datare e nel localizzare esattamente il regno di Dio, nello svelare eventi e misteri apocalittici. Ne condivide tuttavia la fede: presto, addirittura durante la sua vita, Dio porrà fine al corso del mondo come si è venuto svolgendo finora. L’antidivino, il satanico verrà annientato. Scomparse la miseria, la sofferenza e la morte, sopraggiungeranno la salvezza e la pace, secondo l’annuncio dei profeti: una svolta nella vicenda del mondo e un giudizio del mondo, la risurrezione dei morti, il nuovo cielo e la nuova terra, il mondo di Dio in sostituzione di questo mondo sempre peggiore. In sostanza: viene il regno di Dio.
L’attesa, alimentata da singoli messaggi profetici e dagli scritti apocalittici, si era col tempo acuita. L’impazienza era progressivamente cresciuta. Intorno a Giovanni, che sarebbe stato poi chiamato il precursore di Gesù, questa tensione raggiunse il culmine. Egli annunciò l’approssimarsi del regno di Dio come giudizio. Non, però, secondo la mentalità degli apocalittici, un giudizio nei confronti degli altri, dei pagani, con il conseguente annientamento dei nemici di Dio e la vittoria finale di Israele. Bensì, nella scia della grande tradizione profetica, un giudizio proprio nei confronti di Israele: l’essere figli di Abramo non è una garanzia di salvezza. La figura profetica di Giovanni si erge a protesta vivente contro la società benestante delle città e dei villaggi, contro la cultura ellenistica dei centri residenziali. In forma autocritica egli mette a confronto Israele col suo Dio ed esige, in vista del regno di Dio, una «penitenza» diversa dalle semplici pratiche ascetiche e cultuali. Invita alla conversione e alla consacrazione totale della propria vita. Perciò battezza. Caratteristico della sua azione è questo battesimo di penitenza, amministrato una volta sola e offerto a tutto il popolo, non a una ristretta cerchia di eletti: non lo si può ricondurre né alle rituali e reiterate immersioni espiatorie della comunità di Qumran presso il Giordano, né al battesimo ebraico dei proseliti (un rito di valore giuridico per l’ammissione alla comunità), le cui testimonianze rimandano a un periodo posteriore. L’immersione nel Giordano diventa il segno escatologico della purificazione ed elezione in vista del prossimo giudizio. Questo tipo di battesimo sembra essere stato una creazione originale di Giovanni. Non per nulla l’atto del battezzare diviene una componente del suo nome: Giovanni il Battista.
Secondo tutti i resoconti evangelici, l’inizio dell’attività pubblica di Gesù cade in questo movimento giovanneo di protesta e di risveglio. Col Battista, che anche più tardi, in epoca neotestamentaria, alcune cerchie sentirono come concorrente di Gesù, Marco fa coincidere l’«inizio del Vangelo»; e questo appare anche in seguito un punto fermo, solo che si prescinda dalla premessa costituita dal nucleo di racconti relativi all’infanzia in Matteo e Luca e dal prologo di Giovanni. Il fatto è dogmaticamente scomodo e per questo motivo è in genere accettato come storico: anche Gesù si sottopone al battesimo di penitenza del Battista (di cui tuttavia non vi è cenno nel Vangelo di Giovanni). Gesù ne avalla quindi l’azione profetica e a lui nella propria predicazione – dopo l’imprigionamento del Battista o già prima – si riallaccia. Raccoglie il suo appello escatologico e lo porta a conseguenze radicali. Non è escluso, anche se la scena è strutturata cristologicamente (voce dal cielo) e impreziosita da tratti leggendari (lo Spirito «come una colomba»), che nel contesto del battesimo Gesù abbia preso coscienza della propria vocazione. Tutti i resoconti concordano sul fatto che da quel momento egli si sentì pervaso dallo Spirito e investito della sua missione da Dio. Il movimento battesimale e soprattutto l’arresto del Battista furono per Gesù un segno che il tempo si era compiuto.
Gesù comincia così ad annunciare qua e là per il paese la «buona novella» e a raccogliere intorno a sé i propri discepoli (tra cui forse c’erano anche alcune donne), i primi provenienti forse dalla cerchia del Battista: il regno di Dio è imminente – convertitevi e credete al buon messaggio. Un messaggio che, a differenza della cupa minaccia del giudizio prospettata dall’asceta Giovanni, è fin dal principio un messaggio benigno, consolante, centrato sulla bontà del Dio vicino e su un regno di giustizia, di gioia e di pace. Il regno di Dio non tanto come giudizio, ma come grazia per tutti, come eliminazione non solo della malattia, della sofferenza e della morte, ma anche della povertà e dell’oppressione. Un messaggio di liberazione per i poveri, i tribolati e coloro su cui grava una colpa; un messaggio di perdono, di giustizia, di libertà, di fraternità, di amore.
Ma proprio questo messaggio rasserenante per il popolo non mira evidentemente a garantire l’ordine costituito, basato sul culto del Tempio e sull’osservanza della Legge. Gesù non solo espresse – a quanto pare – precise riserve sul culto sacrificale; previde anche, in coincidenza con l’imminente tempo finale, la distruzione del Tempio, e con la Legge entrò ben presto in conflitto, in modo tale che l’establishment ebraico sentì pericolosamente minacciato il proprio potere. Non è questo – dovettero domandarsi la gerarchia e i suoi teologi di corte – un predicare di fatto la rivoluzione?
2. Rivoluzione?
Il messaggio di Gesù era senza alcun dubbio rivoluzionario, se per rivoluzione si intende la trasformazione radicale di una data condizione o situazione di fatto. In questo senso – e non solo a fini pubblicitari – si parla molto in generale di rivoluzione (una rivoluzione della medicina, della gestione aziendale, della pedagogia, della moda femminile, eccetera). Ma queste locuzioni semplicistiche, generiche non ci sono qui di alcun aiuto. La questione va messa a fuoco: Gesù volle un violento e repentino sovvertimento (re-volvere = sovvertire) dell’ordine sociale, dei suoi valori e dei suoi rappresentanti? Venga da sinistra o da destra, questa è rivoluzione in senso stretto (la rivoluzione francese, la rivoluzione d’ottobre, eccetera).
Il movimento rivoluzionario
Anche questo problema non costituisce un anacronismo. La «teologia della rivoluzione» non è un’invenzione del nostro tempo. I movimenti militanti apocalittici nell’antichità, le sette radicali nel medioevo (soprattutto il messianismo politico di un Cola di Rienzo) e l’ala sinistra della Riforma (in particolare Thomas Münzer) incarnano questo tipo nella storia della cristianità. Da parte del primo ideatore dell’analisi storico-critica dei Vangeli, S. Reimarus (morto nel 1768), del leader socialista austriaco K. Kautsky, di Robert Eisler, largamente ripreso ai nostri giorni da J. Carmichael, e di S.G.F. Brandon si è sostenuta saltuariamente la tesi secondo cui Gesù sarebbe stato un rivoluzionario politico-sociale.
Non c’è dubbio che la terra natale di Gesù, la Galilea, si prestava in modo tutto particolare ad appelli rivoluzionari, essendo nota come la patria del movimento rivoluzionario zelota («zeloti»= «zelatori», con un sottofondo di fanatismo). Inoltre, almeno uno dei suoi seguaci – Simone lo «Zelota» e secondo congetture basate sul nome anche Giuda Iscariota, nonché i due «figli del tuono» Giovanni e Giacomo – fu un rivoluzionario. Infine, e soprattutto, nel processo davanti a Ponzio Pilato la qualifica di «re dei Giudei» giocò una parte decisiva: Gesù venne giustiziato dai romani per motivi politici e patì un genere di morte solitamente riservato agli schiavi e ai ribelli. Per questa accusa fornivano un buon appiglio fatti come l’ingresso in Gerusalemme e la cacciata dei mercanti dal Tempio, almeno così come vengono descritti.
Nessun popolo ha opposto alla dominazione romana una resistenza spirituale e politica così ostinata come il popolo ebraico. Per i detentori del potere la minaccia di una rivolta era quanto mai reale. Da tempo i romani si trovavano, in Palestina, di fronte a un’acuta crisi rivoluzionaria. Si era accresciuto l’influsso del movimento sovversivo che, in contrasto con l’establishment di Gerusalemme, respingeva ogni forma di collaborazione con l’invasore, rifiutava addirittura di versare i tributi e si giovava di varie connivenze, in particolare di quella del partito farisaico. Soprattutt...