Il dio impossibile
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Il dio impossibile

Scuola di nudo_Un dolore normale_Troppi paradisi

  1. 1,056 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il dio impossibile

Scuola di nudo_Un dolore normale_Troppi paradisi

Informazioni su questo libro

Il percorso di coincidenze a ostacoli che ha portato alla luce questa trilogia non programmatica è scritto sul sentiero ancora frastagliato della letteratura italiana degli ultimi vent'anni. Il dio impossibile non esisteva nella mente del Walter Siti che quasi cinquantenne dava alle stampe con raziocinio kamikaze il suo primo e, nelle sue intenzioni, ultimo romanzo con protagonista un altro Walter Siti, quello che stava vivendo un'esistenza parallela facendo della verità menzogna e delle bugie il suo segreto profondissimo e pubblico. "Ordigno inesploso" che tutto aveva in ventre ma che per compiersi ha avuto bisogno della carne e dell'evoluzione dei romanzi successivi. E se Un dolore normale affermava la presa di coscienza di un sopravvissuto capace di raffinatissime bassezze, Troppi paradisi con il suo "Mi chiamo Walter Siti, come tutti" è stato un autentico detonatore di poetica. Se tutto è vero, allora anche il falso è vero, bisogna crederci e credere, disseminare le giuste tracce, depistare, incantare con una prosa perfetta e capace di ogni abiezione e disinvolto piacere. In questo libro mastodontico e prezioso il Walter Siti scrittore ha seguito le tracce del Walter Siti personaggio e il suo destino che non prevedeva felicità. Lo ha guardato in faccia forse per la prima volta, ma sicuramente per la prima volta lo ha inchiodato alle proprie responsabilità riaffrontandone le nevrosi, le fughe, i plagi. Il dio impossibile è un libro-monumento indispensabile per capire cosa sia successo in Italia mentre si teorizzava il tramonto delle ideologie e l'appeal dell'inorganico ma guardavamo altrove. Al lettore sembrerà di leggere la cronaca della nostra intimità, del nostro male, della fine del Paese. E leggere nelle radici riannodate della nostra storia recente l'orrido selfie della nostra anima può essere un esercizio crudele che vivamente consigliamo. Parrebbe semplicistico chiudere con un "Walter Siti c'est moi" ma senza dubbio non spaventa dire che "Walter Siti c'est en moi", in una spericolata arrampicata sul nulla. O sul suo contrario.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
Print ISBN
9788817074865
eBook ISBN
9788858672013

Scuola di nudo

Capitolo primo

1

No, nessun attentato: il treno era fermo sul ponte per un semaforo ballerino e lo scarrucolìo delle ruote, smettendo, m’aveva svegliato di colpo. Giù lungo l’argine a sinistra, nel pulviscolo rosso l’allarme di un’auto taceva e riprendeva, negli intervalli abbaiava un cane. La notte ancora trattenuta sulle rive, il giorno appena accennato da un’oppressione scarlatta: l’acqua del fiume pareva lamiera ondulata. Sangue bruno sulla terra smossa, due merli ai rami di un diospero e una lanterna che brillava come un rubino notati prima che il treno ripartisse.
Altre volte è il vento a cacciarmi fuori di casa, con quattro tipi di fischio di cui l’ultimo assomiglia al deglutire d’un gigante: tiene le travi nel palmo e le scuote, penetra per il camino ingolfando la stufa a kerosene e ho paura che scoppi. Preferisco fare mattina nella sala d’aspetto della stazione. (A quell’ora la gente che si incontra chiacchiera con meno pudore: «io ir mi’ marito lo briscolo, ’un mi vergogno a dillo, ciò i miei figlioli che mi frega di lui, mi pianta dei casini perché adopero lo stick per labbra ar posto dir rossetto, ma dopo l’epatite ’un cià forza, ni do un frontino e lo butto a ruzzolare sur sofà.») Gli infissi della stazione sono color crema, sopra la chiesa della Spina un girotondo di balenotteri arancione.
D’estate invece alle sei il sole è già alto, i binari verso Firenze sono lucidi di sudore, con meli azzurri sul greto e uomini-sirena in mezzo al fiume. Quando incrocio un treno che va nella direzione opposta posso non interrompere la visione del paesaggio: basta imprimere sulla retina il vuoto anziché il pieno, così che l’altro convoglio appaia tagliato all’altezza dei finestrini; vedo attraverso tonnellate di materia interposta, due operai che riparano la linea, con due minuscoli slip, uno rosso l’altro giallo. (Sceso a Montelupo, risalita la strada fino a una ceramica di cui avevo segnato il nome – poi col cuore in gola e di buon passo rifatti gli ultimi sette-ottocento metri, ne valeva la pena.)
Come se dovessi presentare le credenziali, il tòpos dell’alba. Al compimento del trentacinquesimo anno (una settimana fa, 20 maggio 1985) guardo il sentiero universitario che mi sta alle spalle e sento l’esigenza di fare un bilancio. Quando citano i due libretti einaudiani che ho scritto è come se mi costringessero a incontrarmi con dei révenants, eppure sono passati solo tre anni dall’uscita dell’ultimo: rileggerli sarebbe superiore alle mie forze. Se mi chiedono un saggio o una recensione, appena l’ho consegnata non voglio più che nessuno me ne parli, non voglio né bozze né estratti né niente; nemmeno sapere dove esce, voglio solo essere lasciato in pace. Scrivo due pagine esatte al giorno e quando ho finito è come se avessi finito i compiti: insensibilmente un disegno prende forma e non importa se quel che dico è vero. Ogni volta che mi viene un’idea, per impedire che possa affondare o diramarsi senza limiti mi alzo e accendo la televisione: due idee brillanti di seguito minaccerebbero di congiungersi e portarmi dove non voglio – su un terreno nel quale non sarei più padrone di me; mi rifiuto e la pigrizia assecondata si fa arrogante, non concede allo sforzo che attimi brevi. Mangiare salame ungherese, sottaceti e baccalà fritto è il sistema più svelto per appesantire lo stomaco e alleggerire il cervello. Con i visitors che mi abitano devo giocare d’astuzia. Soprattutto non voglio essere identificato con quello che scrivo, essere obbligato a difenderlo o, peggio, a crederci. Consegno il saggio al capo, lui mi dice «è eccellente» e io già posso essere un altro, questo solo importa.
Ho fatto la mia carriera come un cane ammaestrato, vibrando di curiosità all’inseguimento di odori fragranti e proibiti ma pronto subito a porgere la zampa della buona educazione critica, la competenza metrica e stilistica, la rigorosa riflessione metodologica, la simmetria strutturale: così dunque funziona la letteratura. Corredando ogni mia escogitazione formale con un lieto fine storicista, qualche frase sul «radicamento politico-sociale»; il capo faceva a questo proposito (lo fa ancora) un gesto con le dita a cavaturacciolo, avvitandole verso il basso come per piantare qualcosa. La carota della buona considerazione di sé. Ogni mio studio aveva nascoste intenzioni autobiografiche, parlavo a nuora perché suocera intendesse, ma il mio centro vuoto (il phallus, il Nom-du-Père) si confondeva con la centralità operaia e non potevo fare a meno di rassicurare i detentori di quel nucleo duro che io stavo comunque dalla loro parte.
Il cambiamento è avvenuto senza che me ne accorgessi e mi ha colto di sorpresa. Il saggio che mi avevano commissionato, sul complesso di Edipo nella letteratura contemporanea, era ancora di quelli che si possono controllare; poi hanno sepolto mia madre («a labbra strette, ostinata | tre mesi dopo ch’è morta | alla fermata dello stesso autobus») e mentre mi stupivo di non dover elaborare alcun lutto il saggio rotolava lungo il pendio: sempre più intestardito a chiedersi se la Sfinge fosse il doppio speculare di Giocasta, sempre meno si lasciava intimorire dai limiti della specializzazione. Questa volta l’«eccellente» gli è rimasto in gola, era molto imbarazzato, ha brontolato qualcosa sulle mie indubbie capacità e che «le cose non si fanno così». Conversando con altri è stato assai più esplicito, a una cena ha tenuto banco ironizzando su chi vive al di sopra delle proprie possibilità intellettuali e su come sia facile alzare il tiro quando si spara a salve, e che lui è contrario alle droghe pesanti; poiché qualcuno sosteneva che ho un’intelligenza che «si allarga a macchia d’olio», pare abbia risposto «sì, di vaselina».
Volevo che approvasse il mio bisogno di essere disapprovato da lui; la sua ostilità non mi lascia altra scelta che esagerare. Il mio saggio è timido benché afflitto da delirio di onnipotenza – non l’ho dato alla rivista dal nome shakespeariano che me l’aveva chiesto, ma nemmeno l’ho strappato: lo tengo lì non cicatrizzato, moncherino orrendo che esige «ancora» e «ancora». Non devo parlare di letteratura, devo parlare di me; se fallimento dev’essere, allora che lo sia intero, anche agli occhi di mia madre lassù. (O laggiù.) Beckett ha confessato una volta che la sua più grande paura era di morire prima d’esser nato; devo tornare al centro di me stesso, scrivere di ciò che mi appassiona: «filosofia è quando l’anima e la sapienza sono fatte amiche». Resterò seduto quando la frase si chiude: non ho da perdere che le mie catene, ho un’individualità da guadagnare. Trentacinque anni sono forse troppi per uscire di minorità: ma si sa che l’omosessualità e l’accademia fermano gli orologi.
Verso che cosa la mia vista e la mia curiosità inclinano spontaneamente, che cosa godono naturalmente di conoscere, senza stancarsi mai e senza sentirsi forzate? Intorno a che cosa le mie facoltà percettive e intellettive si radunano per intere giornate, come a una festa, dispiegando tesori di acutezza? Non c’è dubbio, la risposta è una sola: intorno a un bell’uomo nudo. Dunque non ho alternativa, il mio primo saggio “da vivo” non può essere che sul nudo maschile.
Giù a capofitto nel cattivo gusto e nell’ovvietà, nel baratro del comico involontario. A guardare troppo fisso ciò che ci abbaglia non si vede niente, gettarsi con gli occhi bendati è un coraggio che confina con l’ipocondria. La critica letteraria era l’unica forma che mi consentiva un’esibizione autobiografica entro i limiti della decenza: dalla cintola in giù siamo tutti uguali e tutti ugualmente ridicoli. «Un culo è un culo», come dice il mio capo («un culo è un culo è un culo», più letterariamente ripete un nemico mortale di cui preferisco tacere). Hanno ragione, ma di colpo mi pare di non aver mai fatto qualcosa di proibito o di veramente irragionevole, e ho bisogno di farlo ora che le probabilità a mio favore sembrano così scarse. Chiedo scusa più che ad altri al suddetto capo, che certo non si aspetta questo da me e reagirà malissimo. Se all’età giusta mi fossi ribellato a mio padre, non sarei indotto a ribellarmi adesso a lui che dentro di me ho sempre chiamato “il Padre”, perché è un uomo con qualità e perché il suo migliore autoritratto lo ha scritto centocinquanta anni fa Monaldo Leopardi: “Il fatto sta che la natura o l’abitudine di sovrastare mi è sempre rimasta, e mi adatto malissimo anzi non mi adatto in modo veruno alle seconde parti. Voglio piegarmi, voglio esser docile, rimettermi e tacere; ma in sostanza tutto quello che mi ha avvicinato, ha fatto sempre a mio modo, e quello che non si è fatto a modo mio mi è sembrato mal fatto. Non vorrei adularmi, e non ho interesse alcuno per farlo, ma in verità mi pare che il desiderio di vedere seguita la mia opinione non sia tutto orgoglio, bensì amore del giusto e del vero. Ho cercato sempre con buona fede quelli che vedessero meglio di me ed ho trovato persone sagge, persone dotte, persone sperimentate; ma di ingegni quadri da tutte le parti e liberi da qualunque scabrosità ne ho trovati pochissimi, e ordinariamente in qualche punto la mia ragione, o forse il mio amor proprio mi hanno detto, tu pensi e vedi meglio di quelli”.
Un giorno l’ho spiato mentre faceva il bagno: eravamo in cinque in una cascina a sette chilometri da Modena, stanchi per un lavoro insolitamente manuale, in un tramonto emiliano commestibile; la glassa rosa e azzurra si impigliava ai rami grigi di un albero liscio di fronte alla stalla.
«Come dice la Condition ouvrière? Toutes les raisons extérieures (je les avais crues intérieures, auparavant) sur lesquelles s’appuyait le sentiment de ma dignité… Non aveva torto, l’ebreuccia, in realtà bastano poche ore.»
«È chiaro che gli operai sono esseri inferiori, se no come farebbero a sopportare questo?»
«Suppongo che una doccia calda eleverebbe ipso facto il nostro tasso di progressismo.»
«Bello i’ mi’ Breznev, come dicono a Pisa. Che gioventù ragazzi, altro che doccia calda, vi ci vorrebbe ma un po’ di Siberia.»
«L’acqua calda ci sarebbe, peccato che manchi la doccia; in compenso c’è una tinozza nella stalla.»
(Vediamo se ci casca.)
«No, grazie, altro comfort fa per noi ora…»
«Io un bagnetto me lo faccio, chi è rozzo mi segua.»
«Al tempo, non permetto che un pivellino mi dia lezioni di rozzezza; io ero rozzo che voi non eravate neanche nati.»
(C’è cascato.)
«… ha preso l’elenco del Matavič e calcolato le percentuali… non è che ha pensato quali erano le fonti del Matavič per caso… no, non solo inattendibile, eroico, lui stava in Jugoslavia, si faceva mandare le notizie per lettera, un lavoro pionieristico… e adesso sui suoi libroni ci fanno le storie della letteratura italiana… hi hi hi… stando a Roma, ovviamente, coi dati che transitano attraverso la Jugoslavia di ottant’anni fa… senti, di tutto si può accusare Enzo ma non di stare a Roma: passa la vita sui treni, è stato uno dei primi in Italia a usare gli auricolari, ascolta musica e scrive, completamente intronato… hu hu… un Intronato che scrive sulle accademie… si è accorto l’ultima sera che le percentuali non tornavano, ha impiegato la notte ad abbassare questa alzare quell’altra… e lui si preoccupa delle fonti del Matavič…»
(Ridacchiando sono entrati in casa. Noi due, uno di fronte all’altro.)
«Chi lo fa prima, io o te?»
«Prima tu, seguiamo le gerarchie.»
Finalmente potevo vederlo nudo, sotto la camicia avevo sempre indovinato pettorali robusti, avanzo di una sua antica attività di pugile, e cosce forti sotto i calzoni. Nervosamente passeggio intorno alla stalla, rimpiattandomi nelle infinite sfumature comprese tra il viola scuro e il nero, in attesa dello scroscio dell’acqua. I quadrati di luce dell’inferriata. Appendendomi alle sbarre un piede mi sfugge e il rumore laggiù lo fa voltare; ma dovete sapere che in quei momenti io non mi muovo su questa terra (non lo dico per scherzo) – con un piccolo scatto di reni arretro di quindici anni così che di fatto sono invisibile, nemmeno il luccichìo degli occhiali. Si rimette di spalle rosolandosi da ogni lato, l’ombra che getta sul muro è molto grande, il fisico invece muscoloso e bassino: non mi sbagliavo, la pancetta ben calibrata ai pettorali, i peli sulla schiena proporzionati ai grossi baffi, quarantacinque anni portati benissimo. Esce dalla tinozza e scompare dietro un pilastro; è irritante, proprio adesso che l’ombra lascia immaginare un armeggìo. Costringo la testa nell’angolo tra le ragnatele ma non si vede niente lo stesso, trovo una scala per arrampicarmi fino al lunotto della porta (lui non può aprirla dall’interno essendo nudo, ma se qualcuno uscisse dalla cucina che giustificazioni offrire in questa posizione?). Ben fornito, secondo la famosa legge dei piccoletti, il premio della mia audacia misura almeno sedici centimetri; non ho visto quando gli si è rizzato, ma dev’essere stato d’improvviso e senza fatica – si masturba aiutandosi col sapone e sputandosi sulle mani come si faceva da ragazzi; senza dilettazioni morose o perverse, dritto verso una foto della moglie poggiata all’abbeveratoio.
Se il Padre leggerà, come è sicuro, queste pagine, voglio che sappia che quel gesto sano e gentile che gli ho visto fare allora è l’unica superiorità reale, e quindi l’unica autorità legittima, che gli riconosco su di me.
Poesie d’amore per un catalogo
Quante cose succedono in casale:
anche un nodoso bastone
(il padre in saliva, in erezione)
in salita o per le scale
insegnarti l’educazione.
–––––
Una faccia banale
che dappertutto trovo chi gli assomiglia:
campi fulvi dell’Emilia
vecchia tana sul canale.
A pancia in basso, sogno
lo stollo del pagliaio:
è pomeriggio, fuori il cane
addenta il palombaro.
–––––
Riconosci la striscia
più chiara all’ombra della tettoia
la cinghia di cuoio
la luna sotto i calzoni.
Ricorda
il latte sparso nella stalla
gli occhi legati, il gong.
Quindici anni fa scrivevo versi e collezionavo contadini emiliani: l’intera campagna era un’immensa sfera brillante su cui mi muovevo in bicicletta senza mai veramente spostarmi. Poi venne il primo catalogo Colt (“male sexually oriented ad”), più di ottanta uomini ciascuno col suo numero d’ordine piovuti dalla favolosa America: il loro corpo era il luogo in cui undici cavalli bianchi macinano il grano della Scrittura – il luogo che contiene tutti i luoghi, l’aleph.
Già da piccino avevo scalzato un mattone che divideva la mia cantina dalla lavanderia, dove gli uomini del cortile andavano a fare la doccia (un bidone appeso a una carrucola e una “cipolla” bucherellata); con una scusa abbandonavo la cena, penetravo in cantina e spostavo il mattone. Tenevo un quaderno dove segnavo con una crocetta le volte che avevo visto uno nudo, e con un cerchio le volte che si masturbava. Il mio favorito era sempre in testa, sia per le croci che per i cerchi (sua moglie soffriva di cuore); risalito in cucina, mio zio lasciava cadere da una fessura del soffitto (sopra c’era la sua camera) delle monetine da dieci che raccoglievo col cappello. Ma sto divagando.
Il primo significato costante del bel nudo maschile è la sua natura di corpo infinito: se guardo una foto di glutei e ne seguo la curva, capisco che infinite altre curve infinitamente vicine a questa potrebbero disegnare glutei attraenti, e molte altre fotografie potrebbero stare al posto di quella che ho scelt...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. SCUOLA DI NUDO
  6. UN DOLORE NORMALE
  7. TROPPI PARADISI
  8. Postfazione