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Hai mai ammazzato qualcuno?
Ma tu se sai una cosa, sei obbligato a scriverla?
No, non necessariamente.
Però devi riferirla alla polizia o ai magistrati.
No, no. Un giornalista non è obbligato a scrivere. E nemmeno a riferire quello che sa. Esiste il segreto professionale. A meno che non si venga a sapere che qualcuno sta per commettere un attentato, una strage o un omicidio. A quel punto è dovere di ogni cittadino denunciare quello che sa.
E tu, da giornalista, hai mai ammazzato qualcuno?
Come? Perché me lo chiedi?
Non lo so, con il tuo lavoro non si sa mai.
Sono un uomo fortunato, non ho mai ammazzato nessuno.
Ho bisogno di parlarti. Ma non devi raccontare a nessuno quello che ti dirò. Nemmeno scriverlo.
Dimmi pure.
No, non qui. Mio padre ha troppi amici qui dentro.
Va bene, come vuoi tu. Vediamoci da qualche parte, dimmi tu dove.
Se mi paghi una pizza, stasera in pizzeria.
Se preferisci così, stasera in pizzeria.
Lia è una ragazzina. Magra. Le mani sottili. Dita lunghe. Le unghie smaltate di rosa. Capelli neri raccolti in una treccia. La pelle abbronzata del Sud. Ma gli occhi chiarissimi, luminosi. Verdi come l’acquamarina. Così chiari, così belli hanno una sola origine. La Calabria. Lo so da quando un giovane capobanda della ’ndrangheta mi ha mandato a dire che mi avrebbe spezzato le gambe. Comandava una piazza vicino al Fortino della droga a Milano. Lo chiamavano il Calabria, appunto. Aveva gli stessi occhi. Tenendo all’integrità delle mie gambe, imparai a riconoscerli da lontano. Un giorno suonai a una porta. Cercavo un balcone da dove poter osservare dall’alto un gruppo di spacciatori di eroina. Aprì una ragazza. Anche lei aveva gli stessi occhi. Solo a quel punto guardai il cognome sul campanello. Era lo stesso del capobanda. Era sua sorella. Era il loro appartamento. Il Calabria era in casa. Sentii la sua voce chiedere malamente alla sorella: cu è? Dissi con molto garbo che avevo sbagliato indirizzo. E tornai in strada con le gambe integre.
Lia fa la cameriera in un albergo vicino a Sanremo, in Liguria. È la capitale dei fiori. La città del casinò. Lo scenario del festival della musica italiana. È qui che Lia è nata e cresciuta.
L’appuntamento è vicino alla scogliera deserta. Il mare la sera d’inverno è come se non esistesse. Nessuno lo frequenta, così nero che nemmeno si vede. È già buio. D’inverno fa buio presto. Le onde entrano nel golfo in file di cinque. Poi si calmano. Poi riprendono. Lo schianto contro la costa è un’esplosione di schiuma e salsedine. Ogni tanto qualche piccolo pesce viene sorpreso dalla fine brusca dell’acqua. Si ritrovano nudi sul rosso della roccia ferrosa. Brillano d’argento sotto la luce dei lampioni. E a fatica devono riprendersi la salvezza. Sbattono la coda. Saltellano fessura dopo fessura. Cresta dopo cresta. Fin dove lo scoglio si reimmerge nell’acqua.
Senza grembiule azzurro, senza la sua divisa di lavoro, Lia è ancora più ragazzina. Un viso da teenager. Un leggero tocco di lucidalabbra e mascara. Su un corpo di giovane donna.
Scusami Lia, non te l’ho ancora chiesto. Quanti anni hai?
Quasi diciannove, sussurra, diciannove non li ho ancora compiuti. E sorride.
Possiamo fare una passeggiata prima di andare a cena.
No, andiamo subito, dice lei. Qui dietro c’è una pizzeria, l’unica aperta in questa stagione. È meglio che non mi vedano in giro con te.
Ma chi non ti deve vedere?
Gli amici di mio padre.
Cammina veloce Lia. Evita di dover rispondere ad altre domande. Si infila in un viottolo pedonale dietro l’albergo dove lavora. E si ritrova davanti un uomo vestito tutto di bianco. Si scrutano senza nemmeno salutarsi. Lui resta sulla porta della cucina a guardarci. È ancora lì quando Lia gira a sinistra sulla statale. In piedi come un palo, una sentinella. Il suo camice risalta nella mancanza di luce.
Scimunito, mormora Lia.
Chi?
Quello, il capocuoco.
È il capocuoco del tuo albergo?
Capocuoco e scimunito. Non ci doveva vedere. Ma guarda ’sto scimunito, ripete senza voltarsi, adesso sa che ci siamo incontrati.
Lia continua a camminare. I suoi occhi sembrano concentrati sull’asfalto liscio del marciapiede. La pizzeria è a poche centinaia di metri. Due vetrine piene di luce lungo la statale. La porta pesante, in legno e ferro battuto. Dall’occhio fresco del pesce esposto, sembra anche un buon ristorante. Lia si siede con le spalle al muro. Nemmeno apre il menù. Vuole mangiare pizza. Ordina una prosciutto e funghi. La sua preferita, rivela. E una birra piccola. Parla di tutto. Chiede cosa sta succedendo da trattenere in albergo un giornalista per così lungo tempo. Proprio nell’hotel dove lei lavora. Fuori stagione, racconta, ci sono soltanto pensionati e noia. Ascolta la risposta. Sorride. Poi resta in silenzio. Fino all’ultimo taglio di pizza. Fino all’ultimo sorso di birra. È il momento adesso di affrontare la ragione di questo incontro.
Perché mi hai chiesto se ho mai ammazzato qualcuno?
Curiosità, risponde e mi fissa negli occhi.
Non è una cosa normale ammazzare qualcuno. Insomma, non capita tutti i giorni, a tutte le persone. Per fortuna.
A mio padre sì.
Lia continua a puntare i suoi occhi splendidi. Ora non sembra più una ragazzina. Ha perso quelle due curve di sorriso accanto alla bocca piccola. Il suo sguardo adesso è addirittura feroce.
Mio padre è uno che ha fatto ammazzare un po’ di persone. E ne farà ammazzare altre.
Tuo padre è un…
Uno che conta.
In che senso, uno che conta?
Conosci la parola ’ndrangheta?
Purtroppo sì.
Ecco, lui è uno della ’ndrangheta.
Con che grado?
Alto, ma non importa il grado. Se sanno che sono a cena con te, passo un guaio.
Quel tale ci ha visti insieme.
Chi, il capocuoco? Quello è solo uno scimunito.
Allora dimmi cosa mi volevi dire.
Ma davvero tu non sei obbligato a scrivere quello che ti racconto, o a denunciarmi agli sbirri?
Non sono obbligato, tutto quello che mi racconti resta tra noi due. A meno che tu non abbia intenzione di ammazzarmi. Oppure se hai cambiato idea…
Non ho cambiato idea. Il problema è proprio mio padre. Lui è venuto in Liguria dalla Calabria con il compito di curare gli affari qui, puoi capire. E da quando avevo dodici, tredici anni mi ha promessa in sposa al figlio di un boss di giù.
Della Calabria?
Sì di giù, della Calabria. Adesso che sono maggiorenne lo devo sposare. Fosse stato per mio padre lo avrei dovuto sposare a diciassette anni.
E tu che intenzioni hai, Lia?
Ovviamente non lo voglio sposare. Non me ne frega niente. Io voglio fare la mia vita, voglio essere una ragazza onesta, voglio essere libera. Non voglio avere a che fare con queste cose di mio padre.
E ne hai parlato con tuo padre?
Tu credi che mio padre sia uno con cui si possa parlare?
Magari provaci.
Tu allora non conosci come funziona da noi in Calabria.
E come funziona da voi? Se uno è calabrese non significa che faccia parte della ’ndrangheta. La maggior parte dei calabresi vive in ostaggio della ’ndrangheta.
Mio padre non è un ostaggio. Lui sta dalla parte della ’ndrangheta. Sono regole antiche. Si perdono nei secoli dei secoli, non le può cambiare una ragazza come me.
Qualcuno deve pur cominciare.
Sì, così mi mettono sottoterra, dice Lia e per un istante le torna il sorriso.
Allora cosa intendi fare?
È quello che voglio chiedere a te. Tu ne avrai viste di storie come la mia.
Per la verità no. Una figlia data in pasto a un clan della ’ndrangheta no, non mi era ancora capitata.
Che possibilità ho di salvarmi?
Solo a questo punto la determinazione nello sguardo di Lia sembra vacillare. La sua voce, quando pronuncia il verbo salvarmi, non è più limpida. Per un attimo si incrina come se le si fermasse in gola.
Ne hai mai parlato con qualcuno? Fuori dal giro di tuo padre, con i tuoi amici, intendo.
Sono obbligata a frequentare il giro degli amici di mio padre, dei loro figli. Praticamente ho sempre addosso gli sgherri di mio padre. Fuori dal suo giro, non ho altri amici.
Hai già detto loro come la pensi?
No, mai, il solo fatto di prendere tempo con il matrimonio per i miei è già una scelta fuori del normale. Mi tengono sotto pressione. Io non so più cosa inventarmi per rinviare.
Quindi io sono la prima persona con cui parli di questo.
Sì.
E tua mamma non ti può aiutare?
No. Lia pronuncia un nò accentato, secco. Mia madre, aggiunge, è completamente succube di mio padre. È una donna sottomessa. I miei sono all’antica. Riferirebbe tutto a mio padre. Mia madre non ha coraggio.
Restiamo a lungo in silenzio. Ci guardiamo.
Mi sembra tu abbia di fronte tre sole possibilità. La prima: accetti il matrimonio.
Questo è da escludere. Piuttosto mi ammazzo. Ma mi piace troppo vivere, ammette Lia. Quali sono le altre possibilità?
La seconda è scappare il più lontano possibile.
Non conosci mio padre. Mi farebbe cercare dai suoi. No, non saprei proprio dove andare.
All’estero. Ti trovi un lavoro e cominci un’altra vita lontano da qui. Posso aiutarti a cercare una rete di assistenza…
Gli uomini di mio padre sono ovunque, anche all’estero. No, vivrei sempre nel terrore.
L’ultima possibilità è rivolgerti alla polizia o ai carabinieri.
E cosa succede?
Ti danno un programma di protezione, un’identità di copertura.
In che senso?
Un nome nuovo. Prima però ti chiederanno di raccontare tutto quello che sai su tuo padre e il suo clan.
Dovrò farli arrestare?
Dovrai farli arrestare.
Non c’è modo di chiedere aiuto alla polizia e non dire nulla?
Non credo proprio, Lia. È un contratto. Lo Stato ti aiuta nel proteggerti, ma tu devi dare qualcosa in cambio.
Come faccio a farlo arrestare? Mio padre è sempre mio padre.
Hai ragione. Ma non vedo altre possibilità. Se vuoi provo a contattare qualche bravo prete antimafia. Hanno modo di ospitare…
No, lascia perdere. Ho capito.
Non è una decisione che devi prendere stanotte. Ma se non vuoi far arrestare i tuoi e non vuoi sposare quello di giù, c’è solo quest’altra possibilità.
Lia si intristisce di nuovo. Scuote la testa.
No, lascia stare, dice, ho capito, ho capito. Devi pagare tu, a me non lasciano soldi in tasca. Andiamo, per favore.
La porta in legno e ferro battuto si apre sul sottofondo del mare in burrasca. Nel buio là in basso sulla scogliera, onde invisibili continuano a...