Il patriarca
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Il patriarca

  1. 320 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il patriarca

Informazioni su questo libro

La faida di San Luca, la strage di Duisburg del 2007, il traffico di stupefacenti, i sequestri di persona in tutta Italia. E poi le denunce, la difesa affidata allo studio legale del futuro presidente della Repubblica Giovanni Leone, l'omicidio, la galera, la grazia di Sandro Pertini. Tutte queste vicende sono legate tra loro, in modo sconcertante, attorno a un solo nome: Antonio Pelle, detto 'Ntoni Gambazza. Ma chi era quest'uomo, sconosciuto ai più e ben noto agli inquirenti? L'eminenza grigia che ha fondato un nuovo clan e per tre decenni ha ricoperto un ruolo centrale nel direttivo della 'ndrangheta, come sostengono gli investigatori, o l'onesto figlio di pastori di cui parla la sua famiglia, scelto dalla magistratura come capro espiatorio? Andrea Galli ha dedicato anni all'attento studio delle poche carte disponibili e alle estenuanti ricerche del troppo materiale andato disperso o fatto sparire; ha viaggiato da Nord a Sud e parlato con semplici paesani e alti funzionari delle forze dell'ordine; ha visitato i luoghi in cui s'é svolta la vicenda di Gambazza, ha incontrato la sua gente e si è immerso in quel mondo per descrivercelo senza retorica o preconcetti. Il risultato è assieme il racconto avvincente della vita di un uomo misterioso, che dall'ombra ha guidato la più potente organizzazione criminale del nostro Paese, e il ritratto lucido di una realtà sociale troppo spesso relegata ai luoghi comuni.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817067713
eBook ISBN
9788858672303
I primi passi

Il fantasma

Nullatenente. Nullafacente. Assunto dallo Stato a cinquant’anni, con un contratto a tempo indeterminato. Trafficante in fuga tra casolari, bunker e cunicoli dell’Aspromonte. Latitante curato da cliniche private e ospedali pubblici. Imputato difeso dallo studio legale del presidente della Repubblica Giovanni Leone. Parente di poliziotti, amico di direttori di carcere e agenti dei servizi segreti; protetto da politici, medici, magistrati, professori universitari, commercialisti, preti e massoni. Miliardario ai tempi delle lire, milionario ai tempi dell’euro, eppure beneficiario di contributi economici da parte della Regione Calabria. Condannato a ventiquattro anni di galera per omicidio. Detenuto, poi graziato e rimesso in libertà dal successore di Leone: Sandro Pertini. Condannato nei tre gradi di giudizio per traffico di stupefacenti e di nuovo detenuto.
Nella sua lunga vita Antonio Pelle ha avuto due soprannomi. Uno è stato ’Ntoni gambazza. L’altro è stato u Prefetto, il prefetto della ’ndrangheta. ’Ntoni gambazza fece da paciere durante la seconda guerra tra le cosche calabresi, i sei anni di scontri sanguinari tra il 1985 e il 1991: una scia di vendette interne ai clan che ha causato settecento cadaveri, decine di pentiti e troppe indagini della magistratura. Tutti ostacoli enormi agli affari criminali. Così i boss della ’ndrangheta dovettero inventare al volo una soluzione-tampone, una via d’uscita per non disintegrarsi e perdere meno soldi possibile.
A Pelle si attribuiscono meriti determinanti anche come «arbitro» nella faida di San Luca, quella dei sei morti ammazzati rimasti sull’asfalto di Duisburg, in Germania, nel Ferragosto del 2007. La mattanza finisce in mondovisione; i tedeschi, infastiditi, devono ammettere per qualche giorno le infiltrazioni nel loro Paese dei clan calabresi. Troupe televisive invadono San Luca.
Antonio Pelle fu uomo di mediazione mafiosa, abile nel galleggiare in secondo piano, nel raggiungere il cuore dell’organizzazione criminale e poi sparire con una meticolosità quasi maniacale. Per le banche dati di polizia e carabinieri, ’Ntoni gambazza è stato un fantasma. Nel suo fascicolo riservato – compilato con metodo, anno dopo anno, dai carabinieri – si legge:
Soggiorni in albergo: negativo.
Controlli in frontiera: negativo.
Autoveicoli: negativo.
Armi denunciate: negativo.
Utenze telefoniche: negativo.
Come se Antonio Pelle non fosse mai esistito. Come se fosse vissuto sempre rintanato in una grotta. Come se non si fosse mai spostato d’un metro dal suo paese di quattromila abitanti.
L’hanno accusato di omicidio volontario, associazione per delinquere di tipo mafioso, riciclaggio di denaro, traffico di droga.
’Ntoni gambazza si prese la prima denuncia nel 1951, a diciannove anni compiuti da un mese, per furto aggravato di bestiame. Un ricco possidente della zona, un certo Filippone, lo accusò di essersi impadronito di alcuni buoi. Mandrie, animali, reati di abigeato: era una ’ndrangheta ancora «contadina», calata in una dimensione di agricoltura e di pastorizia.
Iniziò rubando, Antonio Pelle, per sgarri o regolamenti di conti fra pastori, su in montagna. Era un ladro come ce n’erano tanti a San Luca, né più né meno. Ma quel periodo durò pochissimo. Lui non era venuto al mondo per fare il semplice banditello d’occasione: è diventato un patriarca, uno dei capi venerabili della ’ndrangheta.
San Luca è un paese a 250 metri d’altezza, sul mar Jonio, in provincia di Reggio Calabria. Dista un centinaio di chilometri dal capoluogo. Poche case raccolte e un territorio vastissimo: trentasette abitanti per chilometro quadrato. Montagne, valli, località dai nomi bellissimi e innocenti: Tre Arie, Rugiada, Bambù, Acqua di Rose, Bruca.
Quando ’Ntoni gambazza nacque, nel 1932, per lui già violarono le leggi.
Lo si sarebbe potuto benissimo definire un predestinato, non fosse che a San Luca quella era la norma. A quel tempo, più modestamente, Pelle era soltanto uno fra tanti. Ebbe però l’abilità di emergere, approfittando della situazione e cogliendo al volo ogni occasione. Apparteneva al cuore geografico, storico e liturgico della ’ndrangheta. Al ventre dell’oscuro e meraviglioso Aspromonte. Soprattutto, apparteneva ai decenni dell’isolamento e della violenza.

San Luca

Gli anni Trenta furono un’interminabile stagione di fatica per il brigadiere Giuseppe Guglielmi, a capo della stazione dei carabinieri di San Luca.
Quasi pareva che il paese intero si fosse messo d’accordo per tirarlo pazzo.
E non solo gli uomini: al brigadiere davano pensieri anche le donne. Bisticciavano per noia o per invidia, sugli usci confinanti delle case. Urlavano e insultavano, bestemmiavano. «Puttana, disonesta, Mannaia Cr…»
A San Luca – paese così chiamato perché fondato il 18 ottobre, giorno di san Luca Evangelista – erano tempi di crimini e di anarchia, come si legge nelle numerose sentenze dei pretori e nei puntuali rapporti del prefetto custoditi dall’Archivio di Stato di Reggio Calabria. Le campagne erano percorse da proiettili vaganti: pistoleri improvvisati sparavano per tenere lontani gli uccelli, che volteggiavano sopra le viti e avrebbero danneggiato le coltivazioni. Più spesso, erano solo colpi esplosi a casaccio. Si faceva fuoco per divertimento, per allenare la mira. Poi magari qualche ignaro passante finiva con un proiettile in corpo, di cui nessuno si assumeva la paternità. Specie se le ferite erano letali. Aumentavano i casi irrisolti di omicidio.
Guglielmi correva e annotava. Ma, ancora prima di cominciare, già sapeva che molte inchieste si sarebbero spente per mancanza di «migliori prove di responsabilità»; in altre, il luogo del delitto era addirittura impossibile da raggiungere, collocato «in un punto remoto e accidentato». Zone impervie dell’Aspromonte sconosciute agli stessi sanlucoti.
Il brigadiere – anima pia, gambe scattanti, viso severo nei lineamenti e nelle pose – non si sbilanciava mai in giudizi, nemmeno al riparo dei corridoi nella stazione dei carabinieri; non tagliava corto nel formulare un’ipotesi anziché un’altra. Era il primo a sapere che la prudenza, a San Luca, è più utile d’una rivoltella e gli scrupoli più importanti delle manette.
Lui investigava, con cocciuta e silenziosa insistenza, senza affidarsi alla bocca velenosa di un informatore e men che meno alle verità doppiogiochiste dei collaboratori di giustizia. Primo comandamento: tacere. E in paese tutti stavano zitti. L’apparenza innanzitutto. La finzione. Certe volte, più semplicemente, la crosta. E poi a San Luca interessava altro.
Le direttive prefettizie ordinavano il rispetto assoluto, a ogni costo, delle ordinanze comunali. E queste ultime prevedevano multe di venti lire per l’abbandono di immondizia sulla pubblica via e sanzioni per le monte di tori privi di regolare permesso all’accoppiamento, rilasciato da un’apposita commissione esaminatrice.
A San Luca ce n’era per tutti. Altre multe erano promesse agli osti che servivano vino oltre l’orario massimo consentito (le nove e mezza di sera, d’inverno come d’estate) e ai conducenti dei carri che non avevano corrisposto al centesimo il bollo di circolazione.
Burocrazia, divieti, minacce… Lo spettro di stangate e di sanzioni. Distese di carta in una terra di nessuno.
A dar retta ai regolamenti, era proibito perfino tenere lumi accesi in casa: lo richiedevano inderogabili ragioni di sicurezza. Era vietato giocare alle tre carte senza la licenza per l’azzardo. Veniva sanzionata l’attività delle levatrici sprovviste della relativa patente. E così le madri dovevano arrangiarsi a partorire da sole, poiché a San Luca non esistevano donne che si fossero procurate quella patente impegnativa, costosa e considerata del tutto inutile; molte non sapevano nemmeno cosa fosse. Al massimo le partorienti si trovavano al fianco le sorelle, la mamma, una zia. Oppure una vicina di casa, a patto che andassero d’accordo. Il che, in paese, era raro. Per banali litigi si poteva morire ammazzati.
La mattina del 1° marzo del 1932 una sanlucota, Maria Giorgi, dava alla luce il terzo e penultimo figlio, dopo Giuseppe e Domenica, che avevano nove e tre anni. Lo chiamarono Antonio.
Donna Maria, trentatré anni, era sposata con un compaesano, Salvatore Pelle, di sette anni più grande. Come lei, era di umili origini e limitate risorse economiche; come lei, era un perfetto sconosciuto per il brigadiere Guglielmi. Nessun reato e nessuna nomea. Un’eccezione, in paese.
I ruderi della casa natale di Pelle, al numero 28 di via Fiore, sono nella San Luca vecchia, la parte poi progressivamente abbandonata dagli abitanti a seguito delle alluvioni degli anni Cinquanta e Settanta.
Era una casa di tre vani: due, al primo piano, adibiti a cucina-soggiorno e a stanza da letto per genitori e figli; il terzo, al piano terra, destinato a ospitare le provviste e gli attrezzi da lavoro di Salvatore. L’abitazione aveva due finestre con balcone e una senza al primo piano, al quale si accedeva dopo aver percorso cinque gradini. Le finestre erano rivolte verso i vicoli e la vicina caserma dei carabinieri.
Assomigliava a tutte le altre case della zona: umili, basse, con i soffitti e i tetti in legno, i muri assemblati con calce e malta.
L’originario indirizzo dell’infanzia di Gambazza è stato individuato da un meticoloso carabiniere, appassionato alle storie di San Luca e alle grandi dinastie criminali. Nel tempo libero il militare ha chiesto aiuto alla memoria degli abitanti più anziani; questi, una volta accertate le pacifiche intenzioni, l’hanno favorito nella ricerca.
Erbe selvatiche avvolgono come serpenti le inferriate della finestra al piano terra, e si frappongono tra le sbarre e il vetro. Non dev’essere facile strappare quegli arbusti, molto resistenti, nodosi. La facciata ha crepe lunghe e profonde nelle quali è sedimentata la polvere.
Rumori insistenti arrivano dai rovi alti anche un metro, cresciuti davanti alla casa; come se qualcuno vi frugasse in mezzo. Forse sono gatti, forse topi.
Una piccola vite si allunga, fino ad agganciarsi alla ringhiera del ballatoio antistante l’ingresso principale della casa, al primo piano.
I rami di un fico, sorto dinanzi alla casa ristrutturata del vicino e tenace nel farsi largo in spazi ristretti, lambiscono la dimora. L’intero vecchio paese è popolato di piante che non si distanziano mai, se non per pochi metri, dagli edifici. Meglio che siano a portata di sguardo. Era così ovunque. Vincenzo Padula, che nell’Ottocento studiò a lungo la Calabria, fotografò un’abitudine forzata:
Il fico, la vite, l’olivo, il castagno son coltivati ad un tiro di pietra dal paese; e ciò dimostra che gli avi nostri vissero, a par di noi, in mezzo a ladri e briganti, e vollero avere sott’occhio quei frutti che facilmente e subito poteano essere involati, e quelle colture che richiedevano almeno una visita al giorno.1
D’un tratto si sentono dei passi, sbuca da un vicolo un uomo con le guance rosse, fresche di rasatura, e un bimbo in braccio. È lo zio di Maria Strangio, ammazzata nel 2006 nella faida di San Luca.
L’uomo dice che è un peccato, un vero peccato che si lasci andare in malora un gioiello come il borgo storico; in qualsiasi altro posto d’Italia, ne è convinto, avrebbero ristrutturato e investito, ci avrebbero messo le idee, avrebbero creato un progetto, sarebbero arrivati turisti e a cascata altri investimenti, altri guadagni, mentre in paese invece c’è una specie di condanna. Poi, chiedendo permesso, si allontana.
Nessuno, dei boss nati quassù – Pelle, Romeo, Nirta – è mai tornato a viverci o ha brigato per rallentare il corso dell’inevitabile degrado. Ci sono state soltanto brevi, sporadiche incursioni.
Oggi San Luca vecchia è percorsa dal rumore delle antiche fontanelle d’acqua, dal tintinnare delle campanelle al collo delle capre e dal brusio dei pollai ricreati negli orti d’un tempo. Solo pochi edifici sono stati ristrutturati e ospitano abitanti. Il resto, la stragrande maggioranza, versa in condizioni precarie. Alcune case sono decorate da invettive, disegni contro i carabinieri e inni al codice di comportamento della malavita: CERCO ONURI E SANGU, LA LEGGE È DIMENTICATA, DOBBIAMO CAPIRE CHE SIAMO CONTRARI ALLA UMANITÀ.
La casa di Pelle ha un ingresso alto non più di un metro e ottanta; il soffitto di travi minaccia di crollare. Entrare è impossibile: la porta di legno è integra ma chiusa. Su un fianco della casa c’è un antico lavatoio.
Via Fiore si trova nella parte superiore del paese, nella zona più a est, a 280 metri sul livello del mare. Sopra passano via Montagna e via Croce, con le quali finiva il paese, a 310 metri d’altezza.
La mappa esatta dell’originale abitato di San Luca dovrebbe trovarsi nell’Archivio di Stato competente per giurisdizione, quello di Locri. L’ufficio si presenta male, ed è messo anche peggio; sta al primo piano di un palazzo anonimo, e vi si arriva salendo una scala tra muri macchiati da infiltrazioni e scritte, imbiancati a metà. Pare l’ennesima costruzione postbellica. Nella sezione delle cartine, manca quella che riporta vie e vicoli del paesino. Dov’è finita, l’impiegato non sa dirlo. Né azzarda ipotesi. Magari se la sono fregata? «Forse sì, forse no.»
Per fortuna i carabinieri hanno recuperato un vecchissimo stradario e ricostruito la toponomastica vicolo per vicolo. Il lavoro non è nato per un impulso archeologico ma è stato un atto obbligato: una geografia puntuale aiuta le indagini.
C’è vico Estremo, il punto più a occidente dell’abitato, prima dei boschi; c’è vico Astruso, che chissà perché porta quel nome: è corto, lineare, non confonde di certo; poi ci sono vico Leprotti, vico Tassi, via Ventre. La caserma dei carabinieri occupava un edificio intero, spazioso, a due piani. È rimasto il portone, con il buco tondo che serviva a vedere la faccia di chi bussava.
Le case erano attaccate, a volte addirittura costruite una sull’altra. Tutto si sentiva, tra le abitazioni, dai momenti intimi alle conversazioni a tavola; tutto si vedeva: chi arrivava e a che ora. Era un po’ come vivere in simbiosi. La comunità si raccoglieva, si stringeva in se stessa.
Il paese vecchio è un labirinto in verticale. Un labirinto pieno di sorprese. I carabinieri stanno sequestrando parecchie armi, rubate nelle abitazioni del...

Indice dei contenuti

  1. Il patriarca
  2. Copyright
  3. Dedizione
  4. Introduzione
  5. I primi passi
  6. Percorsi di ’ndrangheta
  7. L’inseguimento
  8. Sentieri nell’ombra
  9. Ringraziamenti
  10. Indice