Capitolo 1
Sottotenente paracadutista Ermanno Zazzi
«Sottotenente paracadutista Ermanno Zazzi, SS Obersturmführer Hrubesch!»
Sono le ore undici del primo giorno del mese di aprile dell’anno Mille e Novecento e Quarantacinque, domenica di Pasqua, e in un batter di tacchi accompagnato dal braccio teso nel saluto romano, eccolo lì, lo Zazzi: sorride gagliardo al suo amico e camerata germanico nel trafficato cortile del Militärkommandantur al numero 33 di corso Oporto, difeso da un Pz.Kpfw. IV e decine di cavalli di Frisia, tra portaordini in attesa di partire in sella alle loro BMW e autisti intenti a fumarsi una Juno appoggiati alle rispettive Schwimmwagen e Kübelwagen color senape o Feldgrau oppure dotate di livrea mimetica tipo imboscata.
«Bruno! Ach so! Che piacere!» esclama lo Hrubesch, che subito dopo lo Hitlergruss abbraccia claudicante l’italiano. «Sehr schön, che bello vederti di nuovo in forma!»
Nella sua mimetica da parà, in effetti, lo Zazzi ha tutto un altro aspetto. Un anno fa, quando lui e lo Hrubesch s’imbatterono l’uno nell’altro, il Nostro aveva la gamba sinistra ingessata a causa della scheggia di shrapnel che gli aveva spezzato in due la rotula nei combattimenti sul fronte di Anzio, e si aggirava in pigiama e stampelle per il reparto ortopedia dell’ospedale militare di Marina di Massa, quello di fianco alla Colonia XXVIII Ottobre ancora zeppa di Figli e Figlie della Lupa e Balilla e Avanguardisti e Giovani Italiane, felici di fare quattro chiacchiere con i militari convalescenti quando uscivano in passeggiata sul lungomare.
Il tedesco, invece, che nel corso di un bombardamento americano dalle parti di Nettuno ci aveva rimesso il piede destro malgrado si trovasse lì non per combattere, ma in licenza dal fronte russo per far visita al fratello sedicenne partito volontario mesi prima con la Reichsführer-SS, e ucciso dalla stessa bomba, girava in sedia a rotelle nell’uniforme con la fascia da polso nera e argento della Leibstandarte SS Adolf Hitler, l’unità con cui era arrivato in Italia per la prima volta all’indomani del venticinque luglio del Quarantatré. Dal giorno dell’amputazione, e anche dopo l’innesto di una protesi, i dolori lancinanti che prova al piede che non c’è più lo costringono a fare uso di morfina.
«Che ci fai qui?» chiede lo Zazzi, reduce dall’aver consegnato al comandante della piazza di Torino un dispaccio del capitano Bussoli del III Battaglione Azzurro della Folgore e felice d’imbattersi nello Hrubesch, con cui ha stretto amicizia durante la convalescenza in Toscana e che nel frattempo, l’italiano se ne accorge solo ora, ha anche perso un altro pezzo. «E che ti è successo al braccio sinistro?»
«Mi hanno mandato a recuperare dei dossier lasciati qui dall’SS Oberführer Kraas quando siamo ripartiti in fretta e furia per l’Ucraina, dove poi un T-34 mi ha maciullato il braccio mentre applicavo ai cingoli una carica cava. Bei tempi, tutto sommato. Cantavamo ancora SS marschiert in Feindesland, Und singt ein Teufelslied, Ein Schütze steht am Volgastrand… Oggi invece abbiamo sostituito la riva del Volga con quella dell’Oder. I bolscevichi sono già in Prussia. Ci stanno presentando il conto: contaminano il nostro sangue con lo stupro di massa.»
«Animali.»
«Nein, Menschen. Molto peggio.»
«Voi dove siete, ora?»
«Io a Berlino con il Kampfgruppe Mohnke, ma la maggior parte della divisione è a Vienna con l’SS Brigadeführer Kumm. Il mese scorso abbiamo tentato un’ultima offensiva in Ungheria per riprenderci i pozzi di petrolio. Sepp Dietrich ha messo assieme il meglio, cioè quel che rimaneva dopo le Ardenne, tenendo conto che in Normandia abbiamo perso Wittmann e che Panzermeyer e Wunsche sono stati catturati nella sacca di Falaise. Niente da fare. Fino a quando combattevamo uno contro uno, o anche contro due o tre, abbiamo vinto sempre. Ma quando il rapporto di forza è uno contro dieci o dodici… L’altro ieri è caduta Danzica. E giovedì gli americani hanno preso Francoforte e Mannheim. Chiuderanno lo Heeresgruppe B di Model in una sacca nella Ruhr, questo è certo. Questione di ore.»
Lo Zazzi sputa per terra, soffocando una bestemmia.
«È la fine?»
L’SS Obersturmführer Franz Hrubesch si guarda attorno. I conducenti di due Sd.Kfz 251 hanno appena acceso i motori nel cortile del Militärkommandantur. A parte l’italiano, nessuno può sentire le sue parole.
«Margarethe e i miei due bambini Horst e Harald, che avevano lasciato Amburgo dopo i bombardamenti terroristici degli inglesi del Quarantatré, sono morti sotto le bombe degli americani nella casa dei miei suoceri a Dresda, il tredici febbraio scorso. Di loro non è rimasto niente. Liquefatti dal fosforo.»
«Oh, no…»
«In più ho perduto tre fratelli: il primo è morto congelato a Stalingrado, il secondo bruciato vivo in un panzer a Kharkov e il terzo ad Anzio» continua il tedesco. «Che mi resta? Der Krieg. La guerra. È l’unica cosa che so fare. So bene che sta per finire, ma da parte mia farò tutto il possibile perché duri un altro po’. In ogni caso sai come la pensiamo noi usciti da Bad Tölz: wir kapitulieren niemals. Non capitoleremo mai. La cosa migliore è tagliare le proprie vie di ritirata, perché allora si combatte più facilmente e decisamente. Se la lotta risolutiva ci impone la scelta tra essere e non essere, vogliamo soltanto una cosa: il cielo sopra di noi, la terra sotto di noi, e davanti a noi il nemico. Il Nazionalsocialismo ci ha dato tutto. Noi daremo tutto per il Nazionalsocialismo.»
“Come cazzo è che stiamo così nella merda con ’sti alleati coi controcoglioni che abbiamo non lo so, dioken” pensa lo Zazzi, mentre due squadre di granatieri in tenuta mimetica e armati fino ai denti montano sugli Sd.kfz. 251.
Ma non lo dice.
Invece s’informa: «I documenti li hai recuperati?».
«Sì.»
«E quando riparti?»
«Domani.»
«Per Vienna o per Berlino?»
«Berlin. La capitale è sguarnita. Ci siamo noi della guardia del corpo del Führer, i resti della Nordland, un battaglione della Charlemagne, poche migliaia di Panzergrenadieren della Wehrmacht, un paio di unità di Fallschirmjäger. Poi i vecchi del Volkssturm con i loro fucili della Grande Guerra e i ragazzini della Hitlerjugend, a cui hanno insegnato a usare il Panzerfaust. Dall’altra parte, invece, gli Ivan stanno ammassando milioni di uomini. Quando arrivano, voglio esserci.»
I due si guardano negli occhi. Tacciono.
Il portone del Militärkommandantur si apre. I semicingolati escono con il loro carico di granatieri.
«Io credo che finirò col Duce nella ridotta che stiamo approntando in Valtellina» dice lo Zazzi quando il portone viene richiuso dalle SS di sentinella, che come in prima linea portano i fucili col colpo in canna e le bombe a mano dal lungo manico in legno infilate nel cinturone e negli stivali. «Ma al momento sto di guarnigione a Lanzo.»
«È qui vicino?»
«Sulle montagne, verso la Francia.»
«Banditi?»
«Da ultimo, tanti» scuote la testa lo Zazzi, allentando il nodo al fazzoletto nero che porta intorno al collo. «All’inizio non ci davano molti problemi. Certi rapinavano le cascine isolate, poi litigavano per spartirsi il bottino e si ammazzavano tra loro per poi dare la colpa a noi. Ma ormai stiamo sempre sul chi va là. Nelle valli sabotaggi e imboscate sono sempre più frequenti. E quei vigliacchi lo sanno bene che poi ci va di mezzo gente innocente, con le rappresaglie. La maggior parte delle volte ci attaccano solo per provocarne una, così da farci odiare un po’ di più dalla popolazione. Glielo hanno insegnato i gappisti nel Quarantatré, che facevano attentati solo nelle città dove c’erano già antifascisti in prigione, a cominciare da via Rasella. Sono stati loro a volere la guerra civile. Aldo Resega, il Federale di Milano, l’hanno ammazzato apposta perché lui le rappresaglie le aveva sempre impedite.»
Lo Hrubesch fa una smorfia. Stamattina gli fa male anche il braccio sinistro, malgrado sia rimasto in Russia.
«Noi i primi li abbiamo incontrati in Ucraina, nel Quarantuno. Quando prendevano vivo qualcuno dei nostri, lo inchiodavano a un albero o a una porta e prima di ammazzarlo gli tagliavano mani, naso, orecchie, ge...