Il bordo vertiginoso delle cose
eBook - ePub

Il bordo vertiginoso delle cose

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il bordo vertiginoso delle cose

Informazioni su questo libro

Enrico Vallesi è un uomo intrappolato in un destino paradossale. Un giorno decide di salire su un treno e tornare nella città dove è cresciuto. Comincia così un viaggio di riscoperta attraverso i ricordi di un'adolescenza inquieta, in bilico fra rabbia e tenerezza. Con una scritttura lieve e tagliente l'autore ci guida fra le storie e la psicologia dei personaggi, in un romanzo di formazione alla vita e alla violenza che è anche un racconto sulla passione per le idee e per le parole, un'implacabile riflessione sulla natura sfuggente del successo e del fallimento, una inattesa storia d'amore.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
Print ISBN
9788817076005
eBook ISBN
9788858672846

Sette

Oggi è una giornata bellissima. Sole, vento fresco, il cielo di un colore che avevi dimenticato. Quando sei in strada pensi che devono essere passati non meno di vent’anni dall’ultima passeggiata in una mattina di primavera come questa, quaggiù.
Quando sei su via Sparano ti fermi davanti alla libreria Laterza, dai un’occhiata alle vetrine e resisti alla tentazione di fare un giro all’interno. Lo sai bene che dopo un poco ti metteresti alla ricerca del tuo romanzo e non vuoi rischiare l’umiliazione di scoprire che magari non ne hanno più nemmeno una copia. Non hai proprio voglia di guastarti il buonumore di questa mattina. Così lasci perdere la libreria, raggiungi corso Vittorio Emanuele e giri verso il teatro Margherita, così bello e così abbandonato. Pare che vogliano farci un museo di arte moderna. Pare, ma per il momento è una specie di guscio vuoto e fa tristezza. Tu però non hai voglia di tristezza, oggi, così lo superi di buon passo e ti dirigi verso il molo Sant’Antonio. Da una macchina ferma e con i finestrini abbassati vien fuori un vecchissimo pezzo di Bennato: È stata tua la colpa. Chissà se significa qualcosa, questa colonna sonora, ti chiedi prima di passare ad altro.
Sono le dieci e mezza, l’aria si sta riscaldando. Fra poco dovrai togliere la giacca e arrotolare le maniche. Sul molo, nella fascia interna, quella dalla quale si vedono, una accanto all’altra, le silhouette della città vecchia e della città nuova, immobili, silenziose e surreali, ci sono quattro pescatori. Tre sono in piedi, uno, più organizzato degli altri, ha una sedia di stoffa, tipo quelle dei registi.
Per quello che ricordi, lì si pescano spigole e soprattutto cefali. Diciamo che il posto è famoso per la pesca al cefalo. Da bambino, quando avevi otto, nove anni ti aveva preso la passione per la pesca. Anzi, meglio: la passione per l’idea della pesca. Sin da bambino sei sempre stato incline a passioni letterarie e in genere astratte. Avevi convinto i tuoi genitori a regalarti l’attrezzatura – canna, mulinello, lenza, ami, piombini, galleggianti – e tuo padre per due volte ti aveva portato appunto al molo Sant’Antonio a tentare la pesca del cefalo. Non avevi preso niente né la prima né la seconda volta mentre tutt’intorno gli altri pescatori – quelli veri – tiravano su pesci di ogni dimensione. Dopo il secondo tentativo infruttuoso la passione per la pesca era cessata ed eri passato ad altro.
Però non sei venuto qui per rievocare le tue poco emozionanti avventure di pesca. Ci sei venuto perché è un posto che ti ricorda una delle tue paure di bambino. Tutte e due le volte che eri andato in quel posto avevi trovato, oltre ai pescatori veri, un gruppo di ragazzini che facevano il bagno. Si tuffavano dal molo con grandi salti, grida, allegre bestemmie.
L’acqua davanti al molo era – ed è ancora – scura e profonda. Che fosse scura e, diciamocelo, lurida si vedeva; che fosse profonda si intuiva dal tempo che quei ragazzini ci mettevano a tornare in superficie dopo ogni tuffo.
Tu non sapevi nuotare, allora. Guardavi quei diavoli oscillare sul margine del molo e poi lasciarsi cadere e sparire fra schizzi e urla nell’acqua torbida e minacciosa e pensavi che non saresti mai stato capace di fare qualcosa del genere.
«Qualcuno di questi si prenderà la salmonellosi» disse a un certo punto tuo padre. La frase ti diede una punta di maligna e inconfessabile contentezza, quella dei vigliacchi quando pensano alle possibili conseguenze delle azioni audaci. Eppure nel profondo, dentro di te sapevi che avresti accettato volentieri il rischio di prendere quella malattia dal nome strano in cambio dell’incoscienza di quei ragazzini. In cambio del coraggio di stare in bilico su quel bordo vertiginoso e poi di sprofondare in quell’acqua nera come un pozzo.
Chissà cosa ne è stato di quei ragazzini. Non li conoscevi, nemmeno ti ricordi le loro facce e in ogni caso si tratta di una domanda destinata a rimanere senza risposta. Una domanda speculativa, tanto per cambiare. Speculativa e nemmeno originale.
Ti passa per la testa che uno dei quattro pescatori di stamattina potrebbe essere uno dei ragazzini di tanti anni fa. No, non è possibile. Uno è troppo giovane e gli altri sembrano decisamente troppo vecchi.
Comunque questo è di sicuro un buon posto per quell’inventario sulle paure cui hai pensato ieri notte. La paura dell’acqua profonda durò a lungo, anche dopo avere imparato a nuotare. Allo stesso modo intense erano la paura del vuoto – balconi, terrazze, ogni altro tipo di luogo alto – e la paura del buio in tutte le sue variazioni. Ti ricordi il corridoio di casa della bisnonna, con i suoi odori di naftalina, di vecchi abiti, di gatto. L’interruttore era proprio a metà strada fra il soggiorno e il bagno. Per andare a fare la pipì bisognava dunque percorrere un bel pezzo di quell’oscurità minacciosa. Era pieno di nascondigli, quel corridoio – armadi, rientranze nel muro, scaffali polverosi, semipieni – e ogni volta che con il cuore in gola dovevi raggiungere l’interruttore nel buio, immaginavi demoni, streghe e mani adunche pronte a ghermirti.
Poi c’era il buio della tua cameretta, il luogo più familiare di tutti dove a volte però ti capitava di svegliarti nel cuore della notte in preda agli incubi. In quei casi dovevi accendere la luce e leggere, fino a quando non filtravano le prime luci dell’alba e potevi riaddormentarti, anche se solo per poco.
Una volta ti capitò un’esperienza particolarmente paurosa. Ti sembrava di essere sveglio, anche se avrebbe dovuto insospettirti il fatto che tenevi gli occhi aperti al buio. Cioè una cosa che non avresti mai avuto il coraggio di fare. O tenevi gli occhi chiusi, coperto fin sopra la testa, o accendevi la luce. Quella notte invece avevi gli occhi aperti, o così ti sembrava, e fissavi la porta della tua camera. A un certo punto tua madre entrò e rimase lì, nell’oscurità. Ti ci volle qualche istante per renderti conto che non aveva aperto la porta, ci era passata attraverso; e lì, ferma nel buio, stava in piedi ma leggermente sollevata dal pavimento.
Ti svegliasti gridando disperatamente, in preda a un ragionamento essenziale: quello che avevi visto era un fantasma – sono i fantasmi che passano attraverso le porte e rimangono sollevati da terra –; tua madre era un fantasma; dunque tua madre era morta. Solo molti anni dopo uno psichiatra ti avrebbe spiegato cos’era accaduto. Avevi avuto un’illusione ipnagogica – una specie di allucinazione che si verifica con una certa frequenza nella prima fase del sonno – cioè un fenomeno a volte spaventoso ma del tutto naturale. Anche dopo queste informazioni però, quando ti capita di ricordare quell’episodio, senti un brivido dietro la nuca e devi costringerti a distogliere il pensiero.
Tutte queste paure, e le altre – la folla, i grossi insetti volanti, i cani –, erano scomparse senza che te ne accorgessi. Alla fine del liceo non c’erano quasi più e adesso che ci pensi non sapresti dire quando e perché si erano dissolte. A diciannove anni, quando andando via da Bari avevi fatto una sorta di catalogo della coscienza, ti rimaneva solo una lieve inquietudine se ti capitava di guardare giù da posti molto alti e una scarsa propensione a nuotare da solo lontano dalla riva. Basta.
Non ti sei mai posto il problema di approfondire la questione, non ti ha mai incuriosito, ti è sempre parso il risultato di un’evoluzione naturale. Da piccolo hai paura di tutto, diventi grande e smetti di avere paura. Così.
Adesso però la curiosità ti è venuta, e cercando di mettere a fuoco quegli anni ti rendi conto che le paure c’erano ancora in quinta ginnasio. Dopo, invece, non ne hai più alcun ricordo.
«Non vuole mica buttarsi in acqua?»
La voce è piuttosto profonda, un po’ rauca, impercettibilmente ironica e ti risveglia dalla leggera trance in cui eri caduto. Ti accorgi di essere molto vicino al bordo del molo.
«No, no. Mi sono fatto trasportare dai pensieri» dici facendo un passo indietro e girandoti verso il titolare della voce. Avrà forse sessantacinque anni, capelli bianchi corti e folti, occhi azzurri, barba cortissima, anch’essa bianca. Sembra un Hemingway più piccolo e magro.
«E cosa pensava, di così ipnotico, se è lecito?» ti chiede voltando la testa verso di te mentre la canna resta puntata verso il mare.
Ti stai chiedendo cosa rispondergli quando, proprio in quel momento, la lenza si tende e subito dopo la canna si flette.
«Scusi» dice, «sono da lei fra un po’. Sembra che ci sia qualcuno dall’altra parte.» Poi comincia a lavorare con il mulinello e a ondeggiare leggermente avanti e indietro. Dopo forse un minuto il pesce affiora ma non ha l’aria di volersi rassegnare alla cattura. Guizza da una parte all’altra, a zig zag, per cercare di liberarsi. Il pescatore cede un poco e poi tira di nuovo, dando ogni volta un paio di giri di mulinello, cosicché il pesce è sempre più vicino. Alla fine il cefalo guizza fuori dall’acqua agganciato. Per un istante uomo, canna, lenza e animale sembrano un tutt’uno armonioso.
L’uomo tira fuori il pesce – è piuttosto piccolo –, lo raccoglie con un retino, lo prende in mano, gli apre la bocca e con delicatezza lo libera dall’amo. Poi lo tiene davanti al viso, come se volesse dirgli qualcosa, e infine lo ributta in acqua.
«Perché lo ha fatto?»
«Troppo piccolo. Sotto i venti centimetri non è nemmeno permesso pescarli. Provo a riprenderlo un’altra volta, quando è cresciuto.»
Si piega con un movimento fluido, da uomo giovane, e poggia la canna per terra.
«E allora, che pensieri l’hanno portata sull’orlo del molo, a rischio di finire nell’acqua fra i cefali?»
«Stavo ricordando una volta che ero venuto anch’io a pescare qui, tanti anni fa, da bambino.»
«Lei è di Bari? Ha un accento che non sembra barese, anche se non saprei identificarlo.»
«Sono cresciuto a Bari ma dopo il liceo sono andato fuori a studiare. Vivo a Firenze da allora.»
«E da bambino veniva qui a prendere i cefali.»
«Mai preso un pesce in vita mia. Sono venuto qui due volte, non ho pescato niente e ho rinunciato. Non sono mai stato bravo a gestire le frustrazioni.»
«Forse non usava l’esca giusta. È un errore comune. Non solo nella pesca.»
«È probabile. Qual è l’esca giusta?» e stai per aggiungere: non solo nella pesca.
«Mollica di pane aromatizzata con pasta di acciughe. Volendo si può pasturare con pane e formaggio. Il divertimento di questa pesca è soprattutto nel combattimento. Come ha visto, il cefalo non si rassegna a farsi prendere, anche quando è molto piccolo.»
«E come si mangia?» Mentre gli fai questa domanda tutta la conversazione ti sembra confortevolmente surreale.
«Io lo preparo al forno con i limoni o, meglio, al vapore con un filo di olio. A molti piace arrostito ma a me la puzza del pesce arrosto non piace proprio. Ma non lo ha mai assaggiato?»
«Credo di no.»
Il pescatore scuote la testa in segno di bonaria disapprovazione.
«Lei è di Bari e non ha mai mangiato il cefalo. È un pesce con una reputazione bistrattata ma, come per molte altre cose, è solo una questione di nomi.»
«Che vuol dire?»
«Sa cos’è la bottarga di muggine?»
«Certo.»
«E l’ha mai assaggiata?»
«Sì, mi piace molto.»
«Le sembra un cibo raffinato?»
«Molto.»
«E il cefalo le sembra un cibo raffinato?»
«Onestamente, no. Non l’ho mai assaggiato ma non lo associo a un’idea di raffinatezza.»
«E lo sa che pesce è il muggine, quello dalle cui uova si fa la bottarga?»
«No…»
«Il muggine è il cefalo.»
«Ah. Non lo sapevo, avrei detto che il muggine era una specie di storione o roba del genere. Ma quanto sono grossi quelli che prende di solito?»
«Una volta ne ho preso uno di quasi quattro chili. Ci sono voluti più di venti minuti per tirarlo su. Combatteva come una furia.»
«Quattro chili?» Sembrano davvero troppi, anche a uno che non se ne intende come te, quattro chili per un cefalo.
«Sta pensando che è la tipica panzana da pescatori. In effetti i cefali che si prendono qui di regola pesano due, trecento grammi. Mezzo chilo, qualche volta. Pescare un cefalo da quattro chili è un evento eccezionale, ma se legge un qualsiasi libro di zoologia scoprirà che i cefali possono raggiungere gli otto chili di peso, anche se non ne...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Preludio
  5. Uno
  6. Due
  7. Enrico
  8. Enrico
  9. Tre
  10. Quattro
  11. Enrico
  12. Enrico
  13. Cinque
  14. Sei
  15. Enrico
  16. Enrico
  17. Sette
  18. Enrico
  19. Otto
  20. Nove
  21. Enrico
  22. Enrico
  23. Dieci
  24. Undici
  25. Enrico
  26. Enrico
  27. Dodici
  28. Enrico
  29. Tredici
  30. Enrico
  31. Enrico
  32. Quattordici
  33. Enrico
  34. Quindici
  35. Le citazioni all’interno sono tratte da