Nostalgia
Le rondini
Trieste, 1954 e dintorni
Trieste, fine estate, soglia dell’autunno. Un giorno qualsiasi, al tramonto. L’Adriatico ha la luce d’argento consueta, mentre si accendono le luci della sera. Le rondini, ancora una volta, si preparano al viaggio.
Quest’anno la partenza delle rondini
mi stringerà per un pensiero il cuore.
Poi stornelli faranno alto clamore
sugli alberi al ritrovo del viale
XX settembre. Poi al lungo male
dell’inverno compagni avrò qui solo
quel pensiero, e sui tetti il bruno passero.
Alla mia solitudine le rondini
mancheranno, e ai miei dì tardi l’amore.
Era Umberto Poli, noto ai giorni del mondo come Umberto Saba. Poeta, grande, triestino innamorato della sua città , della vita e dei ricordi. Invecchiato, pensa alla solitudine. Ci sembra di sentire le sue parole, recitate con quella cadenza friulana a toni dolcemente striduli. E ci sembra di vederlo osservare i colori del mare, mentre le rondini consapevolmente preparano il loro viaggio e inconsapevolmente caricano di nostalgia chi le vede volare.
Le giornate si sono accorciate a preludio dell’autunno e bisognerà aspettare un’altra primavera per riascoltare la loro voce.
Trieste sa di ricordi, di rimandi alla nostalgia. Città di caffè e di Europa, incrocio delle idee di Joyce e di Svevo, aperta sul mare e arroccata in collina. Un po’ futuro e un po’ passato: con il molo del porto saldamente ancorato allo ieri della terraferma e al tempo stesso proteso in avanti a scoprire il mare di domani.
Parola di Constantin Golescu, noto ai giorni del mondo come Dinicu Golescu, rumeno, viaggiatore, a Trieste tra 1821 e 1826:
Fin dove l’occhio giunge, il mare è punteggiato da imbarcazioni grandi e piccole. Ma l’ora più bella è la sera: quando in tutte le strade si accendono i grandi fanali e l’intero mare si illumina di fiamme. Una vita più piacevole e una società meglio ordinata non si trova facilmente altrove.
Trieste, come ricordi e nostalgia.
Ma anche ricordi e nostalgia come poesia. Perché, quando si accendono le luci del tramonto, inevitabilmente viene voglia di cristallizzare quelle sensazioni malinconicamente felici legate alla memoria del tempo trascorso.
Ecco Maria Luisa Spaziani:
Papà , radice e luce, portami ancora per mano
nell’ottobre dorato del primo giorno di scuola.
Le rondini partivano, strillavano:
fra cinquant’anni ci ricorderai.
Un capolavoro.
Ancora una volta il partire delle rondini riempie il cielo di ricordi e nostalgia. Nel loro garrire, l’infanzia, la scuola, la luce di un giorno d’ottobre tanto indefinito, quanto indimenticabile.
Quasi una fotografia della nostra anima: con quel partire delle rondini, in quelle giornate di ottobre ancora lontane dall’inverno freddo e con un sapore di estate appena abbandonata, appena riposta nei bauli assieme alle magliette a righe piccole bianche e blu.
Blu anche loro, ai piedi erano rimasti i sandalini con l’occhio: come una nota a piè di pagina per richiamare le passeggiate al centro del paese della vacanza al mare, con i pantaloni corti e proprio quella maglietta a righe piccole bianche e blu. I sandalini accompagnati dalle calze bianche, così eleganti.
Era finito tutto. La città aveva ripreso il suo ritmo, scandito da un sole sempre più basso all’orizzonte nel cielo del pomeriggio, striato dalle rondini pronte a partire per scappare via verso il caldo.
Le vedevi dalla finestra, nei pomeriggi immediatamente precedenti il primo giorno di scuola. Le vedevi impazzite rincorrere l’ultimo raggio del sole al tramonto e, volando, strillare insieme, zigzagando l’aria ancora tiepida, ma non più calda.
Poi, all’improvviso, da decine che erano, diventavano sempre meno. E, quando la scuola iniziava, erano restate in poche a segnare l’eredità del sole scintillante di una ventina di giorni prima. Erano restate loro e quei sandalini con l’occhio con i quali entravi in classe, rendendoti conto di come stonassero sulla pedana del banco, più abituata a farsi calpestare dalle suole delle scarpe invernali.
Si sarebbero affacciate per qualche giorno ancora. Poi, via, in volo verso il caldo: anche la coda dello stormo se ne sarebbe andata, lasciando la certezza della fine della stagione assieme alla sensazione triste e felice insieme del concluso. Sì, perché, in definitiva, dava l’impressione del fuori posto quello zigzagar l’aria dell’inizio di ottobre. Tutto si andava a stemperare in ritmi autunnali e allora era meglio sbrigarsi e alla svelta. Per iniziare ad aspettare il giorno di San Benedetto quando – proverbialmente — la rondine sarebbe dovuta tornare ancora una volta sotto il tetto, pronta a strillare la primavera.
Maria Luisa Spaziani, ricordando atmosfere di cinquant’anni prima, ha dato ai suoi versi la forza di creare immagini nei nostri pensieri, in grado di far riascoltare i profumi e vedere i suoni. Perché i profumi si possono riascoltare, e i suoni si possono vedere: grazie a una nostalgia come emozione forte, vissuta e lasciata cadere su un foglio di carta, riletta e rivissuta da noi.
E così, ci si ritrova adolescenti, di pomeriggio, con il diario aperto, senza voglia di fare i compiti, persi con gli occhi a osservare le ultime rondini volar via strillando verso il tramonto. Senza volerlo, hanno portato con sé i nostri anni, trasformati in ricordi al loro ritorno, in primavera.
Lucio Dalla, 1990, in Cambio. Ci si ricorda del long playng soprattutto per Attenti al lupo. Ma anche qui volano rondini nel cielo della nostalgia:
Vorrei entrare dentro i fili di una radio: volare sopra
[i tetti delle cittÃ
Incontrare le espressioni dialettali
Mescolarmi con l’odore del caffè
Fermarmi sul naso dei vecchi mentre Leggono
[i giornali
E con la polvere dei sogni volare e volare
Al fresco delle stelle, anche più in là .
Vive la sua nostalgia immaginando. Immaginando di vedere dall’alto i tetti delle città , immaginando fragranze e consuetudini quotidiane e, prima di tutto, immaginando di entrare in una radio, strumento principe di nostalgia, ricordi e fantasia. Parola di Lucio alla radio e sulla radio:
Io mi ricordo, per esempio, momenti di grandissima tensione positiva, creativa, come grandi nevicate nere, quando con mia madre da bambino ascoltavamo i gialli in cucina. La casa si ingrandiva e si rimpiccioliva come una fisarmonica perché veramente le voci senza il visivo, la parola, il suono avevano una forza, una immediatezza, e rimandava a sogni non certo a visioni con cui fare i conti subito. Per cui questo meccanismo è stato devastante dentro di me. Io credo che probabilmente oggi sono io, sono Lucio Dalla che suona, che scrive, solamente perché fin dall’inizio c’è stato questo meccanismo della radio che mi ha portato in casa il mondo. Oggi è difficile da spiegare a una società , una società televisiva come la nostra. È inimmaginabile poter raccontare che cos’era la parola quando entrava in casa il segno, il segnale, il racconto, il notiziario e le canzoni: era veramente una valanga di vita che ti entrava dentro alle orecchie e non usciva più e fermentava e faceva crescere tutto quanto.
Al funerale di Lucio, Marco Alemanno ricorderà Le rondini.
Inevitabilmente, quindi, il loro garrire ascoltato dalle finestre aperte nelle stagiosni di mezzo è a sua volta finestra aperta sulla nostalgia. E quella nostalgia trascina con sé il desiderio di fissarne i contenuti in qualcosa di scritto.
Come segnalibro esistenziale del vissuto, da recuperare per non dimenticare.
Pieni di memoria
La scrittura è l’ancora della memoria.
Ma non quella insegnata a scuola, né quella formale, burocratica, asettica.
Parliamo dello scrivere per la voglia di lasciare cadere su un foglio le sensazioni più profonde della nostra anima. Per esempio, lo scrivere a partire dagli scarabocchi, intrecciati con la carta, per svuotare la nostra testa da un pensiero di color scuro-problema: sgorbi esistenziali, specchio cupo delle nostre riflessioni. Anch’esso un modo di scrivere.
Preferisco questo tipo di scrittura, figlia legittima e diretta dell’anima.
È la scrittura – specchio della nostra esistenza, pensante e pesante di contenuti, anche se formalmente poco corretta, anche se brutta come uno scarabocchio. Lontana anni luce dal romanzo raffinato, dal virtuosismo letterario, dall’aggettivazione corretta. Non importa: segue il divenire. E il divenire non ha bisogno né della carta patinata, né della consecutio temporum.
Non so se lo sgorbio esistenziale appartenga a molti, non so in quanti sentano l’esigenza di scrivere, in certi momenti del nostro tempo. Mi riconosco in chi desidera lasciare tracce delle emozioni personali.
Non chiamiamole poesie, non pensiamo ai romanzi: ma quelle riflessioni personali vorrebbero essere le nostre orme sui sentieri difficili della vita quotidiana. Una vita tendenzialmente monotona, stancamente ripetitiva, sostanzialmente anonima, inevitabilmente oppressiva e spersonalizzante: per cui è quasi necessario delimitare ed evidenziare momenti particolari del proprio cammino.
E, allora, di notte, con le luci basse, c’è un piacere sottile a lasciar cadere parole.
Parole come riassunto della giornata. Parole come una fotografia di un’emozione vissuta al bar di una cittadina di mare, al mattino presto, quando i pescatori sono rientrati e sanno di salsedine e chiedono l’ennesimo caffè corretto (tu sei al primo cappuccino e quasi non ti rendi conto di essere sveglio). E lo chiedono con quella faccia cotta dall’acqua salata e dal sole. Una faccia con cui parlano, anche senza aprire bocca: con un gesto impercettibile, con una smorfia sottolineata dalla curva di una ruga, con un segno della mano.
Dà una sensazione differente. Una sensazione forte. Con una voglia trascinante. Perché vuoi fissare un ricordo, perché devi circoscrivere una emozione, perché è indispensabile calare sulla carta quel frammento di tempo. E allora scrivi.
Scrivi senza necessità di veder pubblicate quelle parole. Scrivi trasportato, senza fare caso alle regole, agli errori, alla consecutio temporum. Scrivi, perché quasi non ne puoi fare a meno e la penna rovescia frasi quasi incontrollate. Può sembrare un’esagerazione. Ma per certe persone scrivere è una necessità fisiologica. Forte. Come respirare, bere, mangiare, fare l’amore.
Calare i pensieri sulla carta, all’improvviso. Poi tornare sulle parole, cercarne altre, scoprirne di nuove, innamorarsi e invidiare chi ne ha scritte di migliori. Invidiare, con la forma più pulita dell’invidia: l’invidia creativa.
E poi leggere, leggere ancora, prima di scrivere. Riconoscere sensazioni, luoghi, profumi.
Sì, perché le parole hanno anche un profumo. Proust, con le parole, ci ha fatto rivivere il profumo dei biscotti inzuppati nel tè.
Il paesino di Combray: là Proust va in vacanza da ragazzino con la nonna, le zie e la madre, gli amici e conoscenti della sua famiglia. Da grande, incappa nella madeleine, il dolcetto inzuppato nel tè. Sulle prime non capisce. Poi Marcel ha come una folgorazione. Ha l’impressione di aver vissuto già quel momento. O, comunque, di rivivere un qualcosa di antico, indefinito e indefinibile sulle prime: poi, chiarissimo. Dietro quel sapore, nascosto da quella fragranza riassaporata, c’è il mondo di Marcel Proust bambino. Con il desiderio impossibile di rifare una passeggiata in quegli anni. Allora, è nostalgia da scrivere e descrivere:
…un giorno d’inverno, come rientrai in casa, mia madre, accorgendosi che avevo freddo, mi propose di farmi...