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Avevo sentito dire da alcuni che l’amore è gioia, entusiasmo, allegria, ma quella sera, seduta sulla spiaggia, avrei voluto avere davanti quegli imbroglioni per fargli provare con il filo della mia spada la gioia, l’entusiasmo e l’allegria del mal d’amore. Era peggio di una malattia, mi ripetevo angosciata, peggio di una piaga infetta. Era come bere veleno, ingoiare aghi. E tutto per colpa di quella canaglia dai capelli più luminosi del sole! Mi rasserenai e rimasi immobile, ma avrei voluto lanciare un’occhiata ad Alonso che stava lì disteso, all’aitante e vigoroso Alonso che dormiva di gusto, accanto al falò, assieme a Rodrigo, a Tumonka e agli altri indios. Quella pena d’amore era terribile, una tortura: non appena giravo un po’ la testa, soltanto un po’… Chiusi l’unico occhio ancora sano – quello vuoto, sotto la benda, era sempre chiuso – e smisi di contemplare l’oscurità della notte e il cielo. Era la stagione delle piogge e le nuvole nascondevano completamente la luna e le numerose e splendenti stelle dei Caraibi. Durante le tre o quattro settimane di lavoro in quella brulla isola di Serrana, per recuperare dal fondo del mare le migliaia di libbre d’argento che la flotta del re di Spagna aveva sparato contro le nostre canoe incendiarie, mi ero abituata ad avere Alonso sempre al mio fianco e a guardarlo con la coda dell’occhio tutte le volte che il cuore me lo chiedeva. Dapprima mi avevano attratto e conquistato le seducenti fossette che gli si formavano agli angoli della bocca quando discuteva; poi, mi ero appassionata alle linee del suo collo e, infine, al dolce cipiglio, alle luci e alle ombre che talvolta le preoccupazioni per il padre e i fratelli gli disegnavano sul volto. Non riuscivo a dominarmi e così finivo per tenerlo segretamente sotto controllo, mentre Tumonka e gli altri indios guaiquerí entravano e uscivano dall’acqua. Trascinavano reti piene di palle di cinquanta libbre d’argento, la mercanzia illecita dei maledetti fratelli Curvo, quattro dei quali avevo già mandato al Creatore. Mi restava da uccidere solo l’infame Arias, ma non mancava molto ormai e avrei tenuto fede al giuramento che il mio signor padre mi aveva costretto a fare sul letto di morte a Siviglia.
Aprii l’occhio. La legna del falò crepitò e qualcuno nel sonno si mosse sulla sabbia. Ma perché non riuscivo a dormire in una notte tanto serena? Il Santa Trinidad era stato puntualmente caricato fino alla cima del pennone e a breve sarebbe arrivato dalla Giamaica il signor Juan con la Sospechosa per stivare le ultime libbre; l’operazione, infatti, si era conclusa felicemente quel pomeriggio con il recupero dell’ultimo carico. Per festeggiare l’evento Rodrigo preparò dei saporiti granchi alla brace; ne mangiammo a sazietà, accompagnandoli con un buon vino di Alicante e poi cantammo e ballammo fino a notte inoltrata. Presto avremmo fatto ritorno a Cartagena de Indias dove ci aspettava Madre che, con Damiana, viveva in casa del signor Juan nell’attesa che io facessi ricostruire il bordello di Santa Marta. Dopo aver preso tutti i provvedimenti necessari, mi sarei avventata su Arias Curvo, lo avrei ucciso e poi avrei pensato a dove andare a nascondermi per sfuggire agli ufficiali e agli sgherri; con il nome di Martín Nevares ero ricercato in tutto l’impero per contrabbando illecito con il nemico in tempo di guerra, e come Catalina Solís per gli infami omicidi dei virtuosi e stimati Fernando, Juana, Isabel e Diego Curvo. Mi rimaneva soltanto il mare o, meglio, avrei solo potuto vivere confinata su una nave, che non era proprio quello che desideravo.
«Ti dispiace se ti faccio compagnia?»
Fortunatamente su quell’isola non c’erano molti alberi da cocco perché, se ne avessi avuto uno sopra, l’avrei colpito con la testa per il balzo che feci sentendo la voce di Alonso alle mie spalle.
«Che diavolo vuoi?» esclamai di cattivo umore, ma solo perché il sangue non mi circolava più nelle vene e stavo per morire proprio lì, in quell’istante.
«Santo cielo!» rispose, sedendosi accanto a me sulla sabbia. «Guardandoti, si direbbe che non rimane più niente della raffinata dama di Siviglia che frequentava nobili e cortigiani.»
«Faresti meglio a dormire» borbottai.
«Stavo dormendo» affermò, e mi sembrò triste. «Un brutto sogno mi ha svegliato e, vedendoti seduta qui, mi sono ricordato che devo darti una cosa da una settimana. Lo avevo commissionato al signor Juan che me lo ha portato da Santiago di Cuba.»
«Qualcosa per me?» ripetei, trattenendo il respiro per l’imbarazzo. No, no, no… Non potevo permettere che mi scoprisse. Alonso aveva un regalo per me o si trattava forse di una questione di lavoro, e in tal caso mi sarei sentita la più stupida delle donne? A volte mi dimenticavo di essere guercia dall’occhio sinistro e di dover usare sempre una benda per coprire la cavità, e che quindi fosse impossibile che un uomo tanto piacente come Alonso, con i suoi begli occhi azzurri, si interessasse a me, una grottesca ciclope che indossava vestiti da uomo e comandava navi.
«Zitta!» mi ordinò portandosi l’indice alle labbra e guardandosi intorno come se ci minacciasse un pericolo. «Non hai sentito?»
Non mi ero accorta di nulla perché ero completamente rapita dalla forma perfetta di quelle labbra. L’amore e la passione ottenebrano facilmente la mente.
«Non so, era come un rumore di onde che si frangono contro uno scafo.»
«Devo ricordarti il Santa Trinidad?» sorrisi, fissandomi con insistenza la punta degli stivali. «È ancorato a sudest di quest’isola deserta.»
«E lo raggiungeremo presto» disse contento. «Non vorrei, però, che qualcuno dei compari si svegliasse prima di poterti dare… questo.»
Tirò fuori un piccolo involto da sotto la camicia.
«Che cos’è?» chiesi.
«Oh, non è niente!» rispose a disagio. A disagio? Ma per quale arcano motivo Alonso era a disagio? Che cosa c’era in quell’involto da inquietarlo tanto? «Spero che tu non prenda a male che mi sia permesso di farti un regalo così bizzarro.»
Ma che cosa dovevo prendere a male? La mia mano toccò qualcosa di duro all’interno della stoffa, duro e piccolo, una sfera piuttosto schiacciata o, forse, un proiettile dal calibro strano. Piena di timore e apprensione aprii il pacchetto e m’imbattei nel freddo sguardo di un occhio d’argento.
«Ma cosa…?»
«Non offenderti e non buttarlo in mare!» mi pregò umilmente. «L’ho fatto fare con la mia parte di argento, con il primo pezzo che ho recuperato. Per favore, se non vorrai usarlo, conservalo almeno come ricordo di quest’isola e di questa storia.»
«Usarlo?» mormorai. «Cosa vuol dire usarlo?»
Lo vidi tendere di nuovo l’orecchio, come se temesse un evento spiacevole.
«Di nuovo il Santa Trinidad?»
«Questa volta mi sono sembrati più scafi, non uno solo.»
«Non so di che cosa ti stupisci» lo ripresi passando l’occhio d’argento da una mano all’altra, come quando si scalda un dado prima di lanciarlo. «Sono molte le navi che solcano questi mari e proprio qui s’incrociano le rotte per le principali città dei Caraibi. Perfino le flotte reali passano qui vicino!» affermai scoppiando in una sonora risata. «Allora, dimmi, si può usare questo meraviglioso occhio come se fosse vero?»
Lui sorrise e si tranquillizzò.
«Si può e si deve. È stato creato apposta per te.» La voce gli tremava leggermente e mi guardava con timidezza. «Il signor Juan è convinto che ti sentirai meglio dopo che l’avrai messo.»
Sapevo che diceva la verità: il mio carattere era peggiorato da quando avevo perso l’occhio nel duello con Fernando Curvo. Non mi piaceva vedermi né con la benda né senza, nessuna soluzione mi accontentava e qualche volta, quand’ero sola, mi strappavo quel pezzo di stoffa per immaginare, almeno per un istante, di tornare quella di prima. Come se si fosse accorto della mia sofferenza, il dolce Alonso mi aveva fatto fare un prezioso occhio d’argento. Il cuore mi batteva forte nel petto.
«Mi si adatterà?»
«Secondo me sì» esclamò con gioia. «Non vuoi provarlo?»
Arrossii.
«Non voglio che tu mi veda senza la benda» gli confessai.
«Nemmeno io volevo che mi vedessi nel letto di Juana Curvo, nudo come mia madre mi mise al mondo, ma non sono riuscito a evitarlo, per cui adesso è il momento di risarcirmi di quella vergogna.»
Cento, mille volte mi ero maledetta per quella dannata idea di mettere tra le braccia della mia nemica l’uomo che tanto desideravo.
Ma perché tormentarsi ancora? Acqua passata non macina più. Allora non mi importava niente di Alonso. Era meglio dimenticare e fingere che non fosse successo nulla.
Lentamente, chinando il capo per nascondermi, sollevai la benda fino a metà fronte e, tenendo la palpebra tra due dita, riuscii dopo alcuni tentativi a sistemare l’argento nella cavità. Maledizione! Quell’occhio era freddo come la morte. Per la forma, si poteva posizionare solo se la parte sbalzata dell’iride e la pupilla si trovavano esattamente nel punto giusto.
«Perfino senza luna posso vedere la bellezza del tuo sguardo» balbettò Alonso turbato, mentre io, imbarazzata, sollevai il viso.
Sarebbe stato meraviglioso rimanere così come eravamo. Sorridevamo entrambi. In silenzio, felici, forse provando le stesse emozioni, estranei a tutto tranne che a noi. E all’improvviso quel magico istante volò via come un fulmine nel cielo, svanendo per sempre.
Tuonò uno spaventoso colpo di cannone, seguito dalle grida selvagge di uomini che correvano verso il falò da un luogo imprecisato dell’isola, e si sentì una voce carica di odio che, levandosi sulle altre, mi chiamava con il mio secondo nome: «Martín Nevares! Dove sei, codardo?».
A quel punto, Rodrigo era già in piedi con la spada sguainata, lanciava improperi e si batteva con due o tre individui sbucati dal nulla. Anche i nostri indios impugnavano lunghi coltelli e combattevano con altrettanti nemici che brandivano le proprie armi con ferocia. La palla di cannone era caduta vicino al falò sollevando un ammasso di sabbia e distruggendo viveri e beni.
«Martín Nevares! So che mi senti. Se sei un uomo, fatti vedere!»
Alonso, cambiando espressione e guardando nella direzione della voce, riconobbe immediatamente quello sbruffone arrogante vicino al fuoco; con una spinta mi gettò a terra per nascondermi nel buio e si scagliò contro Lope de Coa, che era lì in carne e ossa. Mi impressionò molto rivedere quella figura ossuta, tipica dei Curvo, la stessa della madre, Juana, e degli zii Fernando e Diego: corporatura alta e snella, viso scavato e denti talmente bianchi e ben allineati da distinguersi alla luce del falò.
Rimbombò un’altra cannonata, poi un’altra e un’altra ancora, ma le palle non cadevano su di noi, per cui dedussi che stavano affondando il Santa Trinidad, cui avevano appiccato il fuoco; poco dopo infatti vedemmo risplendere alte fiamme nel punto in cui era attraccato.
Gli uomini di Lope erano una ventina e noi solo nove, o meglio, otto: io non mi ero ancora buttata nella mischia perché ero stesa sulla sabbia, dove mi aveva spinto Alonso. Con agilità mi alzai in piedi, accorgendomi subito di non avere la spada, come non l’aveva Alonso che, anche così, correva impazzito verso il maledetto Curvo. Il folle Lope lo avrebbe ucciso! Per fortuna, il braccio sinistro di Rodrigo bloccò con la sua daga il colpo mortale assestato dallo spregevole figlio di Juana, permettendo ad Alonso di scagliarsi su di lui e di gettarlo a terra. Era il momento di recuperare la mia spada e di infilzare da parte a parte quel figlio di puttana, prima che uccidesse Alonso o me.
«Fuggi, Martín, fuggi!» gridò Rodrigo a pieni polmoni, mentre trafiggeva contemporaneamente due di quegli individui, uno con la spada, l’altro con la daga.
No. Non avevo intenzione di fuggire. Inciampando nella sabbia per la fretta, cominciai a correre per andare a combattere ma, all’improvviso, una mano mi afferrò per una gamba facendomi cadere di nuovo. Mi rivoltai come una biscia, scalciando in maniera forsennata finché non riconobbi nella penombra il volto ossuto di Tumonka, il quale, senza alcun riguardo e facendomi segno di non aprire bocca, mi trascinava verso l’acqua come fossi un fardello. Forse Tumonka, il fedele Tumonka, lavorava in segreto per i Curvo e stava tentando di affogarmi?
Il folle Lope, a quanto sembrava, era riuscito a liberarsi di Alonso e si era rivolto nuovamente a me gridando: «Martín Nevares! Non scappare, tanto ti trovo! Qui non puoi nasconderti».
«Fuggi, Martín!» ripeté Rodrigo, ormai quasi senza fiato.
Tumonka, nell’udirlo, mi tirò con più foga; ma, avvertendo la mia ostinata resistenza, o perché l’avevo colpito con una delle rabbiose pedate assestate dal mio stivale, si fermò, si portò un dito alle labbra per chiedermi di fare silenzio, indicò il mare e agitò le braccia come se nuotasse.
«Sai chi mi ha supplicato di risparmiarti la vita prima di morire?» incalzò il folle con voce vibrante d’orgoglio. Mi bloccai e alzai una mano bruscamente per fermare Tumonka. «María Chacón, la vecchia prostituta! Colei che chiami Madre è morta per mano mia nello stesso modo in cui tu hai ucciso la mia a Siviglia.»
«Menti, mascalzone!» gridò Alonso, tappandomi la bocca già pronta a insultare il Curvo. Tumonka mi tenne per le braccia perché non corressi e mi scagliassi contro quel malnato. Mi tornarono in mente, non so perché, le parole di sua zia, Isabel Curvo: «Mio nipote Lope è il ritratto del padre. In tutto! Non ho mai visto un ragazzo più taciturno, garbato e pio. Sembra un angelo!». Sì, sì, un angelo. Il pio Lope, lo stesso che fin da bambino aveva desiderato con fervore diventare frate domenicano, si era rivelato un demonio.
«Non mento, maledetto zoticone!» tuonò la voce dell’angelo. «Anche per te ho qualcosa di speciale, per le corna che hai messo al mio signor padre, l’esimio priore del Consulado de Mercaderes di Siviglia.»
Si sentì urlare Rodrigo, poi altri uomini, e il clangore delle spade risuonò più violento.
«Non mi credi, Martín Nevares?» Tumonka strinse con più forza le mani attorno alle mie braccia. «Lo stesso pugnale che trafisse il petto di mia madre ha attraversato quello di quell’immonda madre da bordello. Le uscì tanto sangue dalla bocca che sento ancora il gorgoglio della sua gola mentre lottava per respirare.»
Una delle braccia ferree dell’indio guaiquerí mi cinse la vita, poi con l’altra mano mi chiuse la bocca perché il grido di rabbia, dolore e odio che mi saliva dal profondo non uscisse e non ci facesse scoprire. Tuttavia quell’urlo si lev...