Via dei ladri
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Via dei ladri

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Via dei ladri

Informazioni su questo libro

Lakhdar è un giovane marocchino di vent'anni, è stato ripudiato dalla famiglia e cacciato di casa. Ha imparato un po' di spagnolo a scuola e il francese sui gialli della Série Noire che gli passa un libraio. È ossessionato dal sesso, legge i poeti arabi con una turista spagnola, fa l'amanuense digitale copiando le memorie di Casanova e i nomi dei caduti francesi della Prima guerra mondiale, resiste ai tentativi di uno sceicco fondamentalista che vorrebbe reclutarlo per la sua personale jihad, e quando finalmente riesce a fuggire a Barcellona si trova catapultato tra la vita da clandestino e le rivolte degli indignados. Nella sua avventura tra un Mediterraneo in fiamme e un'Europa in crisi, Énard racconta le speranze e i fallimenti di una generazione che vuole prendere finalmente in mano la propria storia.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
Print ISBN
9788817072151
eBook ISBN
9788858664643

I

STRETTI

Gli uomini sono cani, si strusciano fra loro nella miseria, si rotolano nella sporcizia e non sanno come uscirne, passano le giornate stesi nella polvere a leccarsi il pelo e il sesso, pronti a tutto per il pezzo di carne o l’osso marcio che qualcuno vorrà gettargli, e io sono come loro un essere umano quindi un rifiuto immondo schiavo degli istinti, un cane, un cane che morde quando ha paura e cerca le carezze. Rivedo la mia infanzia e la mia vita di cucciolo a Tangeri; i miei vagabondaggi di bastardino e i miei guaiti di cane bastonato; capisco la mia agitazione in presenza delle femmine, che scambiavo per amore, e capisco soprattutto la mancanza di un padrone, che ci spinge tutti a vagare nel buio alla sua ricerca, annusandoci fra noi, smarriti, senza meta. A Tangeri facevo cinque chilometri a piedi due volte al giorno per andare a guardare il mare, il porto e lo Stretto, anche adesso cammino tanto, e leggo, sempre di più, un buon modo per ingannare la noia, la morte, per ingannare anche la mente distraendola, allontanandola dall’unica verità, che è questa: siamo animali in gabbia che vivono per godere, nel buio. Non sono mai più tornato a Tangeri, però ho incontrato tizi che sognavano di andarci da turisti, affittare una bella villa sul mare, bere il tè al Café Hafa, fumare hashish e scoparsi qualche indigeno, perlopiù maschio ma non necessariamente, alcuni sperano di farsi chissà quali principesse da Mille e una notte, ve lo assicuro, in tanti mi hanno chiesto se potevo organizzargli un piccolo soggiorno a Tangeri, con hashish e autoctoni, per riposarsi, e se avessero saputo che l’unico culo che ho visto prima dei diciotto anni era quello di mia cugina Meryem ci sarebbero rimasti secchi o non mi avrebbero creduto, poiché loro associano Tangeri a una sensualità, un trionfo del desiderio, una permissività che per noi non ha mai avuto, ma che nella nostra miseria offriamo al turista in cambio di monete sonanti. Nel nostro quartiere di turisti non ne venivano. Il palazzo dove sono cresciuto non era né ricco né povero, e così la mia famiglia, mio padre era un uomo pio, quel che si dice un uomo dabbene, un uomo retto che non maltrattava né la moglie, né i figli – a parte qualche calcio nel sedere ogni tanto, che non ha mai fatto male a nessuno. Uomo di un solo libro, ma quello giusto, il Corano: non gli serviva altro per sapere cosa doveva fare in questa vita e cosa lo aspettava nell’altra, pregare cinque volte al giorno, rispettare il digiuno, fare l’elemosina, il suo sogno era andare in pellegrinaggio alla Mecca, essere chiamato Haji,1 Haji Mohsen, era la sua unica ambizione, non gli interessava lavorare duro per trasformare la bottega di alimentari in un supermercato, non gli interessava guadagnare milioni di dirham, aveva il Libro la preghiera il pellegrinaggio e fine; mia madre lo venerava e univa un’obbedienza quasi filiale a una condizione di schiavitù domestica: sono cresciuto così, con le sure del Corano, la morale, le storie del Profeta e dell’epoca gloriosa degli Arabi, sono andato in una scuola qualsiasi dove ho imparato un po’ di francese e un po’ di spagnolo e ogni giorno scendevo con il mio amico Bassam verso il porto, nella parte bassa della Medina e al Grande Socco a lumare le turiste, appena ci son spuntati i peli sulle palle questa è diventata l’attività principale di me e Bassam, puntare le straniere, soprattutto d’estate quando portano gli shorts e le gonne corte. D’altronde d’estate non c’era praticamente un cazzo da fare, se non seguire le ragazze, andare in spiaggia e farsi delle canne se qualcuno ci mollava un tocco di hashish. Leggevo decine di vecchi gialli francesi che compravo usati per pochi spiccioli da un bouquiniste, dei gialli perché quasi sempre c’era un po’ di sesso, c’erano donne bionde, macchine, whisky e grana, tutte cose che a noi mancavano, che nemmeno ci potevamo sognare, intrappolati com’eravamo tra le preghiere, il Corano e Dio, che era un po’ come un secondo padre ma senza i calci nel sedere. Ci piazzavamo in cima alla scogliera davanti allo Stretto, circondati dalle tombe fenicie, che poi erano solo dei buchi nella roccia, pieni di pacchetti di patatine e lattine di Coca più che di cadaveri antichi, tutti e due con le cuffiette nelle orecchie, e ce ne stavamo lì per ore a guardare il viavai dei traghetti fra Tangeri e Tarifa. Ci rompevamo da morire. Bassam sognava di andarsene, di tentare la fortuna sull’altra sponda, come diceva lui; il padre faceva il cameriere in un ristorante per ricconi sul lungomare. Io non ci pensavo granché, all’altra sponda, alla Spagna, all’Europa, mi piacevano le cose che leggevo nei gialli, ma tutto finiva lì. Grazie a quei romanzi imparavo una lingua, conoscevo dei Paesi; ero fiero di scoprirli, di averli tutti per me, non volevo che quella bestia di Bassam me li sciupasse con le sue ambizioni. All’epoca a tentarmi era soprattutto mia cugina Meryem, la figlia di mio zio Ahmed; viveva sola con la madre, sul nostro stesso pianerottolo, il padre e i fratelli facevano i braccianti agricoli ad Almería. Non era molto carina, ma aveva un gran seno e due belle chiappe tonde; in casa portava jeans attillati o abiti mezzo trasparenti, Dio mio, Dio mio, mi eccitava da matti, mi chiedevo se lo faceva apposta, e nelle mie fantasie erotiche prima di addormentarmi mi immaginavo di spogliarla, di accarezzarla, di affondare la faccia tra le sue tette enormi, ma non sarei mai riuscito a fare il primo passo. Era mia cugina, avrei potuto sposarla, ma non palpeggiarla, non stava bene. Mi limitavo a sognare, a parlarne con Bassam durante i nostri pomeriggi passati a contemplare la scia delle navi. Oggi mi ha sorriso, oggi portava questo o quello, credo che avesse un reggiseno rosso ecc. Bassam annuiva dicendomi ti vuole, è sicuro, la attizzi, altrimenti non ti farebbe un numero del genere, ma quale numero, rispondevo, è normale che si metta un reggiseno, no? Sì, ma rosso, bello mio, ti rendi conto? Il rosso è apposta per eccitare, e avanti così per ore. Bassam aveva una bella facciotta da povero, tonda con gli occhi piccoli, andava tutti i giorni alla moschea, con il suo vecchio. Passava il tempo a escogitare piani assurdi per emigrare clandestinamente, travestito da doganiere, da poliziotto; sognava di rubare i documenti a un turista e, ben vestito, con una bella valigia, prendere tranquillamente il traghetto come se niente fosse – gli chiedevo ma che cazzo faresti in Spagna senza un soldo? Lavorerei un po’ per mettere qualcosa da parte e poi andrei in Francia, rispondeva, in Francia e poi in Germania e da lì in America. Non so perché, si era messo in testa che fosse più facile andare negli Stati Uniti partendo dalla Germania. Fa molto freddo in Germania, dicevo. E poi lì gli arabi non li amano. Non è vero, diceva Bassam, i marocchini gli sono simpatici, mio cugino fa il meccanico a Düsseldorf ed è contentissimo. Basta che impari il tedesco, e loro ti rispettano alla grande, pare. E il permesso di soggiorno te lo danno con molta più facilità dei francesi.
Confrontavamo i nostri castelli in Spagna, da un lato le tette di Meryem, dall’altro l’emigrazione; meditavamo così per ore di fronte allo Stretto e poi, a piedi, ce ne tornavamo a casa, lui per andare alla preghiera serale, io per cercare di intravvedere ancora una volta mia cugina. Avevamo diciassette anni, ma la testa era quella di due dodicenni. Non eravamo molto svegli.
Qualche mese dopo prendevo la mia prima manica di botte, una valanga di ceffoni mai vista, che mi ha lasciato mezzo tramortito e in lacrime, tanto per il male quanto per l’umiliazione, anche mio padre piangeva, per la vergogna, e recitava suppliche, che Dio ci protegga dalla sventura, che Dio ci aiuti, non esiste alcun Dio all’infuori di Dio e tutto l’ambaradan, aggiungendo sberle e cinghiate, mentre mia madre gemeva in un angolo, piangeva anche lei e mi guardava come se fossi il demonio, e quando alla fine mio padre è rimasto senza forze, e non poteva più suonarmele, c’è stato un gran silenzio, un silenzio enorme, e tutti e due mi fissavano. Ero un estraneo, ho sentito come se quegli sguardi mi cacciassero via, ero umiliato e terrorizzato, mio padre aveva gli occhi pieni di odio e me ne sono andato via di corsa. Mi sono sbattuto la porta alle spalle, sul pianerottolo ho sentito Meryem che in casa piangeva e gridava, si udivano le botte, gli insulti, cagna, puttana, mi sono fiondato giù per le scale, una volta fuori mi sono accorto che mi sanguinava il naso, che ero in camicia, che avevo solo dieci dirham in tasca e nessun posto dove andare. Per fortuna era l’inizio dell’estate, la serata era tiepida, l’aria sapeva di mare. Mi sono seduto per terra contro il tronco di un eucalipto, mi sono preso la testa fra le mani e ho pianto come un bambino, finché non è venuto buio e non si è sentito il richiamo alla preghiera. Mi sono alzato, avevo paura; sapevo che non sarei tornato a casa, che non sarei mai più tornato, non era possibile. Che cosa avrei fatto? Sono andato alla moschea del quartiere per vedere se trovavo Bassam all’uscita. Mi ha visto, ha sgranato gli occhi, gli ho fatto segno di mollare il padre e di seguirmi. Ma che cazzo hai fatto alla faccia? Cosa ti è successo? Il mio vecchio ci ha beccati nudi, me e Meryem, ho detto, e solo il ricordo di quel momento mi faceva stringere i denti, mi riempiva gli occhi di lacrime di rabbia. La vergogna, la terribile vergogna di essere stati scoperti nudi, i corpi esposti alla vista, la vergogna bruciante che mi paralizza ancora oggi – Bassam ha sibilato cazzo, quante ne devi aver prese, infatti, ho detto, infatti, senza entrare nei particolari. E adesso cos’hai intenzione di fare? Non lo so. Ma a casa non ci posso tornare. E dove vai a dormire, mi ha chiesto Bassam. Non ne ho idea. Soldi ne hai? Venti dirham e un libro, è tutto quel che ho. Mi ha dato qualche moneta che aveva in tasca. Devo andare. Ci vediamo domani? Come al solito? Ho detto va bene, e lui se n’è andato. Ho fatto un giro per la città, un po’ smarrito. Ho percorso avenue Pasteur, poi sono sceso al mare passando dai vicoli; c’erano luci rosse nei locali delle entraîneuse e tipi loschi seduti davanti all’ingresso. Sul lungomare c’erano coppiette che passeggiavano tranquille a braccetto, ho ripensato a Meryem. Sono tornato verso il porto, e sono risalito fino alle Tombe; mi sono seduto di fronte allo Stretto, erano belle le luci della Spagna; immaginavo la gente che ballava in spiaggia, la libertà, le donne, le auto; che cazzo potevo fare io, senza un tetto, senza soldi? Chiedere l’elemosina? Lavorare? Dovevo tornare a casa. Era una prospettiva che mi annientava. Impossibile. Mi sono steso, ho guardato le stelle, a lungo. Ho sonnecchiato finché il freddo dell’alba non mi ha costretto ad alzarmi e a camminare per scaldarmi. Avevo male dappertutto, per le botte, ma anche per le ossa peste dopo la notte passata sulla roccia. Se avessi saputo, sarei tornato da bravo a casa, avrei implorato il perdono di mio padre. Se non fossi stato tanto orgoglioso è quel che avrei dovuto fare, mi sarei risparmiato tante umiliazioni e tante ferite, magari sarei diventato anch’io bottegaio, magari avrei sposato Meryem e adesso sarei a Tangeri a cenare in un bel ristorante sul lungomare o a suonarle ai bambini, una nidiata di cuccioli urlanti e affamati.
1 Haji è, in arabo, l’appellativo con cui ci si rivolge a chi ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. (N.d.T.)

Ho sofferto la fame, ho mangiato la frutta marcia che i fruttivendoli lasciavano ai mendicanti, ho dovuto fare a botte per qualche mela ammaccata, per un’arancia ammuffita mi sono preso a pugni con una marea di rovinati, uomini con una gamba sola, mongoloidi, orde di morti di fame che bazzicavano come me nei paraggi del mercato; ho avuto freddo e in autunno ho passato notti bagnato fradicio quando sulla città si abbattevano i temporali che cacciavano gli accattoni sotto i portici, negli anfratti della Medina, negli edifici in costruzione dove bisognava corrompere il guardiano perché ti lasciasse stare all’asciutto; d’inverno sono andato verso sud, ma ho trovato soltanto poliziotti che alla fine, in un commissariato fatiscente di Casablanca, mi hanno riempito di botte per convincermi a tornare dai miei; ho scovato un camion per Tangeri, un brav’uomo che mi ha mollato metà del suo pranzo e un ceffone perché mi rifiutavo di servirgli da ragazza, e quando sono passato a trovare Bassam, quando ho avuto il coraggio di rimettere piede nel quartiere, avevo perso Dio sa quanti chili, i vestiti erano a brandelli, non leggevo più un libro da mesi e avevo compiuto diciotto anni. Poche probabilità che mi riconoscessero. Ero sfinito. Tremavo. Ero abbastanza pulito, mi lavavo nei cortili delle moschee, sotto lo sguardo di riprovazione dei custodi e degli Imam, poi fingevo di pregare per scaldarmi un po’ su qualche comodo tappeto, prendevo un Corano in un angolo e dormivo da seduto, con il volume sulle ginocchia, l’espressione ispirata, finché un vero credente non si innervosiva di vedermi russare sul Sacro Testo e mi sbatteva fuori con un calcio nel culo e a volte dieci dirham perché me ne andassi in malora da un’altra parte. Volevo vedere Bassam per convincerlo ad andare a trovare i miei, perché gli dicesse che mi dispiaceva, che avevo sofferto molto e volevo tornare a casa. Ricordo che pensavo spesso a mia madre. E anche a Meryem. Nei momenti più duri, nei momenti orribili in cui dovevo umiliarmi davanti al custode di un parcheggio o a un poliziotto, quando l’odore atroce della mia vergogna trasudava dalle pieghe dei loro vestiti, chiudevo gli occhi e pensavo al profumo della pelle di Meryem, a quelle ore con lei. Ero sconvolto dalla velocità con cui un mondo poteva cambiare.
Diventi l’equivalente umano del piccione o del gabbiano. Le persone ti vedono senza vederti, ogni tanto ti danno un calcio per farti sparire e pochi, pochissimi, immaginano su quale parapetto, su quale balcone dormi la notte. Mi domando cosa avessi in mente, all’epoca. Come abbia retto. Per quale motivo non sono semplicemente tornato dopo due giorni a casa di mio padre per buttarmi sul divano del soggiorno; per quale motivo non sono andato a chiedere aiuto in comune o Dio sa dove, forse perché nella giovinezza c’è una forza infinita, una facoltà per cui tutto scivola via, e nulla davvero ci scalfisce. Almeno nei primi tempi. Ma a quel punto, dopo dieci mesi di fuga, trecento giorni di vergogna, non ne potevo più. Forse avevo pagato. E non ne avevo tratto poesie, né considerazioni filosofiche sull’esistenza, non un pentimento sincero, solo un odio sordo e una crescente diffidenza verso tutto ciò che è umano.
Prima di andare da Bassam, mi ricordo, ho fatto il bagno in mare. Era una bella mattina di primavera, avevo dormito in un anfratto ai piedi della falesia, verso capo Spartel, a qualche chilometro dal centro di Tangeri, dopo aver mandato giù una scatoletta di tonno e un pezzo di pane che avevo affumicato grazie a un falò di pezzi di cassette della frutta e giornali. Mi ero avvolto nel lungo cappotto di lana fregato in un mercato che mi aveva accompagnato per tutto l’inverno, e mi ero assopito, cullato dalla risacca. Al mattino il Mediterraneo era calmo, calmo e di un azzurro intenso, il sole che sorgeva sfiorava delicatamente le chiazze di sabbia fra gli scogli. Pazienza, mi sarei congelato ma avevo troppa voglia di quella bellezza, di quel riposo liquido. L’acqua era freddissima. Mi sono scaldato un po’ nuotando veloce verso nord, forse un centinaio di metri, la corrente era forte, ho dovuto lottare per raggiungere la costa. Mi sono lasciato cadere su un angolo di sabbia, al sole; non c’era vento, solo la carezza tiepida della silice, mi sono riaddormentato, esausto e quasi felice. Quando mi sono svegliato, due o tre ore dopo, il sole d’aprile picchiava duro ed ero affamato. Ho mangiato il pane avanzato dal giorno prima, ho bevuto molta acqua; ho ripiegato il cappotto nella borsa, mi sono dato una sistemata ai vestiti – la camicia era strappata sotto l’ascella e aveva macchie di unto sulla schiena; i pantaloni avevano l’orlo tutto liso; non si distinguevano più le righe sulla giacca grigia che mi avevano dato in un centro di solidarietà islamica per persone bisognose. Mi sentivo in forma, nonostante tutto. Bassam mi avrebbe prestato una camicia pulita e un paio di braghe. Non lo vedevo dalla fine di dicembre, da quando ero partito per Casablanca; mi aveva aiutato per quel che poteva, mi aveva dato un po’ di soldi, qualcosa da mangiare, e persino, una volta, notizie di Meryem: la madre l’aveva mandata a vivere dalla sorella nella campagna sperduta del Rif. Come dire in prigione. Bassam continuava a fare castelli in aria per andare in Spagna e l’ultima volta che ci eravamo visti, sempre nello stesso posto, davanti allo Stretto, davanti a Tarifa l’irraggiungibile, mi aveva detto non ti preoccupare. Tu vai a Casablanca e quando torni avrò trovato il modo per farci passare sull’altra sponda! Continuavo a non capire che cazzo avremmo potuto fare in Spagna senza permesso di soggiorno e senza soldi, a parte vagabondare e poi finire arrestati ed espulsi, ma vabbè, era un bel sogno.
Sono passato da casa sua verso mezzogiorno; sapevo che il padre sarebbe stato al lavoro. Ritrovare le vie del quartiere mi ha dato una stretta al cuore. Ho camminato molto in fretta, ho evitato accuratamente di passare davanti al negozio di mio padre, sono arrivato fino a dove abita Bassam, ho fatto le scale di corsa e ho bussato come un pazzo alla porta, neanche fossi inseguito. Era in casa. Mi ha riconosciuto subito, e questo mi ha tranquillizzato sul mio aspetto. Mi ha fatto entrare. Mi ha annusato e mi ha detto che non puzzavo neanche tanto, per essere un vagabondo. Mi ha fatto ridere. Può essere, in effetti, ma non mi dispiacerebbe comunque fare una doccia e mangiare un boccone, ho detto. Avevo l’impressione di essere finalmente arrivato da qualche parte. Mi ha dato dei vestiti puliti, sono rimasto forse un’ora in ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. I - Stretti
  5. II - Barzakh
  6. III - La via dei Ladri