PARTE SECONDA
MARCO
diventa
PANTANI
di Francesco Ceniti
Uno sconosciuto all’improvviso
«Scatto di Pantani, scatto secco di Pantani.» La spiaggia di sabbia fine è l’ultimo posto dove il campione avrebbe pensato di far partire la sua bici. Certo, con un po’ di fantasia, le file colorate di ombrelloni potrebbero ricordare la pancia del gruppo arroccato e compatto ai piedi di una salita. E il mare azzurro che s’impasta con il cielo, uno dei tanti torrenti alpini che affiancano i ciclisti nel loro cammino. I bagnanti diventano allora tifosi eccitati dall’arrivo del plotone.
Fa caldo e si suda. Siamo a luglio, normale che accada. Mattia ha quattro anni appena compiuti, non ama troppo il calcio. Preferisce tutto quello che è velocità: corsa, auto, moto e da qualche mese bici. Sulla sua ha ancora le rotelle, ma per lui non fa differenza. Si alza sui pedali perché lo ha visto fare in tv e perché anche il papà e il nonno si divertono «in piedi» quando escono per un giro. Come tutti i bimbi, cerca punti di riferimento. E così a casa, poco prima di partire per il mare, mi ha chiesto a bruciapelo: «Papà, ma c’è qualcuno che ti supera? Chi è il più forte?». L’istinto ha prevalso sulla ragione. «Pantani, Marco Pantani era il più forte.»
Senza volerlo, quel giorno, mi sono ficcato in una strada senza uscita. Perché avranno pure quattro anni, ma sanno benissimo come metterti in difficoltà. «Perché era? Non fa più le gare Bantani?» chiede Mattia con lo sguardo quasi severo, a sottolineare qualcosa che non va. «Pantani, il nome giusto è Pantani. Con la P come pane.» Cerco di prendere tempo. Che cosa gli racconto, adesso? Invento una storia come faccio la sera quando devo addormentarlo oppure introduco un concetto particolare quale è la morte? La mancanza fisica di una persona è ancora difficile da capire. Per lui la morte è quasi un gioco, spesso quando facciamo le «combattute» e mi lascio cadere chiede: «Sei moruto?». Insomma, gli ho appena detto che Pantani era il più forte. Vuole sapere perché ho usato l’imperfetto anche se ancora non va a scuola e non ha studiato i verbi. Il senso, però, lo capisce bene. «Papà, papà…» Stop, il tempo a disposizione è finito. Decido di tornare al presente, perché è il modo migliore per fargli conoscere il Pirata. «È il più forte, Mattia. Ho sbagliato, volevo dire che Pantani non lo batte nessuno.» La frase illumina i suoi occhi. L’osmosi è chiara: se Pantani è il campione preferito di papà, lo è anche per me.
Accadeva più o meno a maggio. Da qualche settimana Mattia aveva preso a furoreggiare nella pista ciclabile che si snoda tra i prati a pochi metri da casa. La bici in quei giorni superava la passione per le macchine. Meglio: Ferrari e Formula 1. I miti in questo caso ben scolpiti: dal Francesco Bernoulli di Cars (cartone animato che avrò visto duecento volte, tanto da sapere a memoria le battute) al più reale Fernando Alonso. Diciamo che mio figlio non se li sceglie banali: l’idolo delle moto è Valentino Rossi e non importa se fatica a raggiungere il podio. Gli è bastato vederlo una sola volta impennare dopo la vittoria in rimonta per eleggerlo a vita suo beniamino. In fondo la passione è questa: t’innamori di un personaggio, magari per un particolare, e lo segui nella sua parabola. Se cambi cavallo appena inizia a perdere o alle prime difficoltà, allora non era amore vero. Al massimo una storia fugace, come le avventure estive. E comunque Mattia era alla ricerca di un ciclista da venerare. Il papà o il nonno, che lo avevano instradato a pedalare, non potevano bastare. «E quando posso vedere una gara di Pantani? Me lo fai guardare, ti prego.» Ahi, il gioco diventa sempre più difficile. Ho scelto una strada davvero in salita… Lo sbandamento questa volta dura pochi secondi. Per fortuna la tecnologia viene in soccorso dei papà in crisi. Tra dvd, Internet, iPad e perché no, i cari e vecchi giornali, Pantani è sempre con noi. «Andiamo a casa, Mattia. Andiamo a guardare Pantani…» Non ho detto una bugia. Mi sono ricordato della raccolta di video usciti con «La Gazzetta». Sono conservati in mansarda insieme a tante altre cose sul romagnolo. Compresi gli articoli del mio direttore Candido Cannavò e di Gianni Mura di «Repubblica» scritti il giorno della sua morte. I dvd li avrò visti quasi le stesse volte di Cars, ma oggi avranno un sapore diverso: li guarderò con mio figlio.
Scelgo un classico per iniziare: il trionfo sull’Alpe d’Huez del 1997. La scalata record (37’35”, anche se ci sono dati discordanti), ancora imbattuta. «Pantani è quello lì, cappello giallo, occhiali neri e maglia blu. Vedrai tra un po’ cosa combina: li supera tutti…» Mattia ascolta in silenzio, poi si concentra sulla televisione. La voce di De Zan inizia a farsi calda dall’emozione, Mattia è fermo nell’attesa di qualcosa che ancora non ha chiaro. Però è lì, aspetta. Più o meno come aspettavo io quindici anni prima, in diretta, appiccicato al televisore, pregustando i ventuno tornanti della salita più famosa al mondo. Avevo deciso che un giorno avrei portato la mia macchina ai piedi del gigante, scartato la bici dal portabagagli e poi provato l’emozione e la fatica di pedalare su quell’asfalto impregnato di sudore, lacrime, speranze, sangue e molto altro. Non l’ho fatto, e oggi che sono sul divano a rivedere con occhi lucidi qualcuno che mi ha fatto battere il cuore, ma non può più inforcare la bici e sfidare il mondo, mi viene voglia di mollare tutto all’istante e andare adesso fino in Francia e farla, questa pazzia. Una sorta di carpe diem. Ma c’è Mattia… E forse non è un caso. «Papà, allora quando scatta Pantani?» Quando nella vita s’inizia a gustare il momento che precede la felicità? O quello che pensiamo sia la felicità? Forse da ragazzi oppure da adulti. Di sicuro un bimbo non comprende questa strana «gioia». Per lui l’attesa è solo snervante, tempo perso. «Speriamo passi in fretta questa notte, papà» mi aveva detto la vigilia di Natale. E poi aveva faticato a prendere sonno, il pensiero dei regali in arrivo lo teneva sveglio. Andrea, due anni più piccolo, è ancora indietro. La felicità è nell’attimo in cui fa la cosa che gli piace. Prima e dopo sono altro. Comunque, la dolce attesa è un concetto che forse è entrato dentro di me verso i dieci anni. Prima il giorno più bello della settimana era la domenica: niente scuola, partita di pallone nel cortile. Al pomeriggio allo stadio a vedere il Catanzaro in A. Ma qualcosa non andava perché a un certo punto mi svegliavo un po’ infastidito. C’era un malessere che mi prendeva nonostante la giornata perfetta. E alla fine ho capito: ogni minuto trascorso mi avvicinava al lunedì e quindi alla ripresa della routine, scuola in testa. La vera felicità si era «trasferita» di ventiquattro ore all’indietro. Il picco intorno a mezzogiorno del sabato: tra i banchi sentivo l’euforia salire, si stava avvicinando la «libertà». Certo, ero ancora «prigioniero», a rischio interrogazione oppure costretto a una lezione di matematica, ma vedere il traguardo della campanella e tutto quello che sarebbe seguito mi rendeva felice. Insomma, l’attesa superava di gran lunga il momento magico. Ed è continuato così in tante altre occasioni: meglio il primo bacio o i secondi prima? Meglio la proclamazione a «Dottore» o la sera precedente a rileggere una tesi che il presidente liquiderà in dieci minuti? Meglio la scelta dei gusti o il gelato? Meglio la rincorsa sulla sabbia o il tuffo in acqua con gli amici? Meglio provare cento paia di scarpe oppure comprarne uno (questa è per mia moglie e le donne in generale)? Spesso preferisco il prima, qualche volta il mentre, quasi mai il dopo. I rimpianti li mettiamo in una categoria a parte e sarebbe meglio non averne. Ma guardando Pantani è impossibile non pensarci. C’è una vita che si è spezzata: quanto avrebbe potuto dare e fare se non fossero accaduti una serie di fatti? Non lo so.
Adesso devo scacciare via tutti questi pensieri che affollano la mente e cercare le parole giuste per rispondere a mio figlio. In fondo il Pirata è un mio idolo, lui lo vede oggi per la prima volta. E so bene che qualcuno potrebbe obiettare «Proprio un bell’esempio proponi a un bimbo di quattro anni». Perché, chi sono gli esempi giusti? Chi decide cosa sia giusto o sbagliato? La società? La stessa che ha idolatrato Armstrong come mito da seguire, l’uomo che sconfigge il cancro e torna a vincere, il texano capace di fare sacrifici impossibili pur di vincere il Tour? Un falso e inaccetabile moralismo. Per anni hanno propinato liste di buoni e cattivi. La realtà era sotto gli occhi di tutti: nel ciclismo degli anni Novanta il doping era una questione generale. E mi rifiuto di pensare che i colpevoli siano stati solo i ciclisti e i medici. La mia categoria, quella dei giornalisti, ha perlomeno contribuito con una gigantesca omessa denuncia. Siamo seri, almeno a posteriori. Certo, il doping fa male e va combattuto. Mi sembra un’ovvietà però la dico. Sarò fazioso, sono fazioso nel caso del Pirata, però un ragazzino di sedici anni che nasce con il talento di Marco, e scopre di essere talmente forte da andare in salita alla stessa velocità di due professionisti, staccandoli per giunta, siete davvero sicuri che abbia bisogno del doping per vincere? Non è per caso che, una volta approdato nel grande circo, si è trovato dentro a un sistema per cui chi non si allineava rischiava di essere tagliato fuori o nel migliore dei casi arrivare staccato nonostante una classe immensa? E se fosse così, la «colpa» sarebbe di quel ragazzino oppure di un mondo autoreferenziale che spolpa fin che può i protagonisti amati dalla gente per poi scaricarli nel momento in cui diventano troppo ingombranti, troppo potenti, troppo famosi per gestirli? O magari, senza arrivare a tanto, bastava un «segnale» per dimostrare chi comandava? Guarda caso adesso arrivano tutte le confessioni di quei ciclisti per anni usciti indenni dai controlli mirati, mentre il Pirata finiva dentro un tunnel fatto di sette procure che lo hanno accusato di frode sportiva e doping andando a ripescare vecchie cartelle cliniche per controllare un ematocrito che avrebbero potuto analizzare in qualsiasi momento. Ipocrisia. È la parola migliore che mi viene in mente per fotografare quello che è accaduto. Il doping va combattuto, ma in quegli anni non tutti (anzi la stragrande maggioranza) la pensavamo così: grandi dichiarazioni di facciata e poi, una volta dietro l’angolo, subito pronti a minacciare l’atleta che si rifiutava di adeguarsi alle regole. Regole che portavano vittorie, sponsor, soldi.
E comunque, sono padrone di scegliere i miti che preferisco. Non do giudizi e non voglio giudizi: Pantani atleta, con o senza Epo, era un campione. Punto. Un talento innato, come quello di Maradona per il calcio. A Mattia farò vedere le imprese del Pirata. Realizzate contro atleti che respiravano la stessa aria. In ogni caso i ventuno tornanti dell’Alpe d’Huez sono storia e non si cancellano. E nel 1997 anch’io aspettavo con impazienza il suo scatto. Sapevo che lo avrebbe piazzato. Avevo indugiato tutto il giorno, spiando più del dovuto l’orologio, per vedere quanto mancava al collegamento. E una volta incominciata l’ascesa sentivo l’adrenalina salire come se avessi dovuto pedalare io. Attesa, dolce attesa. “Pantani non deluderà” pensavo. Non mi deluse. E a distanza di quindici anni non lo farà neppure con mio figlio.
«Hai visto, ha gettato a terra il cappello. Adesso sta per scattare…» Avviso Mattia un minuto prima che inizi lo show, gli faccio notare i rituali che noi tifosi avevamo imparato a conoscere negli anni: via la bandana o il berretto, via gli occhiali, mani sul manubrio, neppure uno sguardo agli avversari e poi sotto a domare la montagna in quello che molti definirono «uno scatto perpetuo». Quando Pantani partiva in salita era bellissimo da vedere: un’armonia in cui l’uomo si fondeva con il mezzo meccanico fino a diventare una cosa sola. Quelle gambe che mulinavano potenza e divoravano metri accendevano la passione in migliaia di case in giro per l’Italia. E non solo. «Papà che cosa vuol dire orcing?» De Zan ha appena lanciato il Panta verso la vittoria con voce quasi divertita per quanto sta per accadere. Adesso tutti a citare Obama con «il meglio deve ancora venire», ma la frase si adattava alla perfezione alle imprese del romagnolo. Quando stava bene, potevi rilassarti sul divano e aspettare. Poi arrivava il meglio. «Ha detto forcing, è una parola inglese. Vuol dire che sta attaccando, andando più forte degli altri. Vedi, fanno fatica a stargli dietro. Cercano di resistere, ma non credo sia possibile…» Mattia è sempre più eccitato: «Quello che ha la maglia strana, con i pallini rossi… Come si chiama? Cerca di resistere, papà. Sei sicuro che vince Pantani?». Sono strasicuro, figlio mio. Lo ero anche nel 1997, figurati adesso. «Si chiama Virenque, è un francese. Ci sono molti suoi tifosi perché questa gara che stai vedendo si corre proprio in Francia. Ma vedi che è già in difficoltà? Noi tifiamo per l’italiano, vero?» Domanda retorica, so già la risposta… «Certo, papà. Ma hai sentito cosa ha detto il signore che parla in tv? Ha detto che Pantani vola.» Eh già, De Zan sta salendo di tono: il traguardo si avvicina, gli avversari si liquefanno. «Sta andando velocissimo e allora ha detto che vola. Ma è solo un esempio, come quando facciamo la gara di corsa e io ti dico che vai forte come un razzo. Hai visto, Virenque si è staccato e adesso anche quello con la maglia gialla non ce la fa a stargli dietro. È un tedesco, ha un nome difficile: Ullrich. Ecco, Pantani è rimasto solo in testa.» Mattia si alza in piedi, si avvicina alla tv. Lo vedo bello carico. «Wow, Pantani va a tripla velocità, come Bernoulli. Non lo possono più raggiungere. Vai Pantani, Vai Pantani. Ma cosa ha detto il signore, perché lo ha chiamato Pirata? Perché?» Quanti perché! Com’era veritiera quella pubblicità con un papà che alla fine faceva al figlio: «E tu, signor perché, lo sai?». Qualche volta mi sono impadronito della frase per canzonare Mattia: «Ma tu sei il signor perché?». Lui ride e aggiunge «Nooooo». Questa risposta gliela devo, però. «Pirata è un soprannome che gli hanno dato perché spesso al posto del cappellino mette in testa una bandana, cioè un fazzoletto colorato. Come quello dei pirati. Che sono quei signori cattivi che assaltano le navi e vogliono catturare Peter Pan.» Senza pensarci, mi sono allargato. E vengo punito. «Ma allora Pantani è cattivo come i pirati?» È il prezzo da pagare. «No, è solo un soprannome. E poi c’erano anche dei pirati buoni. Pantani andava più veloce. La cosa del pirata è uno scherzo. Guarda, sta per arrivare…» Potere delle immagini e del ciclismo: mio figlio non aveva mai guardato una gara di bici, lo sta facendo da quindici minuti. Ed è estasiato nel vedere il muro di folla che si apre come sardine al passaggio dei delfini. Il delfino è Pantani. Tante volte andando in bici mi sono immedesimato e mi sono chiesto: ma come cavolo fai a restare concentrato mentre tutto intorno è una bolgia? Mentre tutto intorno è urla e confusione. Mentre tutto intorno è uno stuolo di cavallette che si mangiano la strada. E tu in quella strada nascosta devi pedalare senza rallentare perché il cronometro non ha cuore. E poi che cosa hanno in zucca certi personaggi che aspettano per ore e ore vestiti da indiani, come questo soggetto che si becca una bella spinta dal Pirata, seccato di averlo incollato al manubrio? E il signore con il costume da diavolo presente a ogni Tour de France? Un mito conosciuto quanto e più dei ciclisti. Che spettacolo, il ciclismo. Non c’è nessun altro sport dove puoi vedere il campione del mondo passare sotto casa tua e osservarlo in faccia soffrire quasi come fai tu quando provi ad avventurarti su qualche cavalcavia. Quando correva Pantani, la gente impazziva. Adorava quello scricciolo dallo sguardo triste. Amava «l’elefantino», come lo definiva in modo sprezzante Armstrong. Quanto ti ha fatto male, caro texano, vedere l’elefantino che credevi finito partirti «a tutta» nella tappa di Courchevel, ultimo epico successo del Panta? Ha provato ad andare a riprenderlo con quel suo passo sbruffone, ma ha sentito i muscoli inacidirsi dallo sforzo… Quanto ti ha fatto male quella vittoria dell’elefantino in mondovisione e gli applausi dei francesi che parteggiavano in modo sfacciato per l’italiano? Questa era una domanda da fare, miss Oprah, durante l’intervista lunga come una tappa che ha raccolto la confessione del re (non più re) di sette Tour. Mai il texano ha subito nella sua carriera uno smacco simile, e sono sicuro che in quei lunghissimi minuti ha covato odio sportivo. Nel 1997 Armstrong non c’era sull’Alpe d’Huez: stava negli Usa a lottare per restare in vita e sconfiggere il cancro. Su questo aspetto alzo le mani: ha tutta la mia ammirazione. La totale disapprovazione, invece, è per come si è comportato una volta guarito. Ci sarà modo di parlarne più avanti. Adesso devo gustarmi l’arrivo del Panta.
«È tornato il Pirata, ha battuto anche la sfortuna ed eccolo trionfare…» De Zan ha la voce rotta dall’emozione. Mi sarebbe piaciuto molto conoscerlo. È stato per anni un fedele amico di tanti pomeriggi. Sono cresciuto con le sue telecronache, dai primi Giri d’Italia alla scoperta del Tour che la Rai negli anni Ottanta non trasmetteva con continuità. Adesso anche mio figlio sta attento a quello che dice il «signore» della tv mentre Pantani taglia il traguardo liberando un urlo possente. Carico di rabbia. Mai prima e mai dopo ha esultato così per una vittoria. Era un modo per scrollarsi di dosso due anni di polvere, di sfiga, di cadute, di gare mai concluse. Due anni che la malasorte gli aveva tolto. Due anni nei quali avrebbe avuto forse la possibilità di trionfare in un grande Giro. C’era persino chi lo aveva già dato per finito: «Non si riprende più, troppi infortuni gravi». Operazioni alla gamba e lunghi mesi di riabilitazione dopo che un fuoristrada lo aveva investito durante la Milano-Torino. Poteva ucciderlo, quell’incidente. Poteva stroncargli la carriera. E poi il rientro costellato da altri contrattempi: un gatto che lo fa cadere e ciao maglia rosa. Insomma, sembrava quasi che qualcuno più in alto avesse deciso che non c’era spazio per quel ciclista in bandana. E invece era tornato. Più forte di prima. Quel grido che nel 1997 mi aveva stupito voleva dire: «Sono ancora qui». E noi eravamo con lui. Lo è anche mio figlio: «Pantani, Pantani. Ha vinto Pantani, papà». «Hai visto? Che cosa ti avevo detto? È il più forte…»
Da quel giorno nella vita di Mattia è entrato di prepotenza anche il Pirata. Ha voluto vedere tanti altri dvd, esaltandosi per i successi e gli allunghi brucianti. E adesso sulla spiaggia dà sfogo alla fantasia: «Scatto di Pantani, scatto secco di Pantani» ripete come se fosse De Zan lasciando sulla sabbia le impronte dei suoi piedi presto mangiate da un’onda impertinente. E io lo guardo, sorrido e penso. Penso come uno sconosciuto all’improvviso sia diventato l’idolo di un bimbo di quattro anni. E torno indietro nel tempo, scavo nella memoria per trovare l’attimo esatto nel quale lo stesso sconosciuto all’improvviso è diventato il mio idolo. Non ci vuole molto. Siamo in un caldo giugno del 1994, frequentavo l’università e speravo di esultare come tutti gli italiani per le imprese degli azzurri di Arrigo Sacchi al Mondiale statunitense. Non sapevo nulla di Marco Pantani: il mio ciclista preferito era El Diablo Claudio Chiappucci. E quel 4 giugno pensavo potesse regalarmi qualche soddisfazione. Non la maglia rosa, saldamente sulle spalle di Berzin. Ma una bella giornata sì. E invece all’improvviso sbucò con la stessa maglia bianca della Carrera uno sconosciuto. Un ragazzo, anche se un po’ spelacchiato. Lo vedo scattare per la prima volta. Ed è subito amore.
Il gigante e il bambino
Quando ho iniziato a seguire il ciclismo? I ricordi vanno così indietro nel tempo da diventare sfocati, quasi in bianco e nero. Come le immagini della tv anni Settanta. Il calcio è sempre stato in testa alle mie priorità. Il primo sport che ho praticato e continuo a praticare (superati i quarant’anni a dire il vero è sempre più calcetto, un’altra cosa… come paragonare il triciclo alla bici). Per un paio di stagioni ho pure pensato di poterne fare una professione, poi è andata in maniera diversa ma, potendone scrivere, la vita mi ha portato comunque verso il pallone. Torniamo al ciclismo. Seguirlo non è scontato per un ragazzino. Io passavo pomeriggi interi, con altri amici, a vedere il Giro d’Italia. E toccava fare il tifo per qualcuno. Come ai tempi di Coppi e Bartali, l’Italia era divisa tra Moser e Saronni. Anche se Saronni vinceva di più in volata e nelle corse a tappe, mi piaceva Moser, con quella faccia un po’ così (Paolo Conte scusami), le sue picchiate in discesa, le cotte in salita e le cronometro perfette. Una volta il Giro passò da Catanzaro, avevo dieci anni o poco meno. Con il mio amico del cuore Gianni e altri ragazzi del quartiere uniti dalla passione per Moser e la bici, raccogliemmo i soldi della paghetta, poi andammo a comprare stoffa e bomboletta spray per preparare uno striscione: «Moser corri e vai che il Giro vincerai». Eravamo tanto orgogliosi di quello slogan deciso in una riunione «plenaria». Non andò come sperato: la maglia rosa quell’anno finì proprio a Saronni, ma il giorno in cui vedemmo (da lontano) Moser, rimase lo stesso memorabile.
Eravamo una decina di ragazzini. Sistemati in una postazione di «lusso»: una terrazza di terra brulla sopra la tangenziale. Da lì sarebbero passati i corridori. Aspettammo un’ora, poi le prime motociclette ci avvisarono dell’arrivo dei fuggitivi. Un piccolo plotone di ciclisti senza speranza di vittorie, ma che meritava comunque i nostri applausi. Il momento clou arrivò quindici minuti dopo. «Ecco il gruppo», disse un signore vicino a noi. Eccolo per davvero. Scattammo in piedi come vedette, un solo ordine: rintracciare Moser. «L’ho visto, l’ho visto. Sta in centro con i suoi gregari», urlò un nostro amico. Quel momento di gioia mi è rimasto scolpito e non si cancella. Se chiudo gli occhi mi rivedo bambino mentre salto e urlo «Vai Francesco, vai Francesco…» E ora che li riapro sento Mattia: «Vai Pantani, vai Pantani». Moser l’ho visto dal vivo, come altri corridori. Con il Pirata sono andato oltre: l’ho intervistato due volte. Ma non è questo, non basta questo. È che non doveva finire in quel modo.
Moser è stato il mio primo campione e da allora il ciclismo è sempre stato presente nella mia vita e in quella di mio fratello Luca. Verso la fine degli anni Ottanta non avevo un idolo di riferimento. «Uno come Moser che mi fa battere il cuore non c’è», dicevo. Non ho cambiato idea neppure quando Gianni Bugno è diventato campione del mondo o ha dominato il Giro indossando sempre la maglia di leader della corsa: dal prologo all’ultima tappa. Una roba incredibile. Il Tour del 1990 però ha cambiato le cose. C’è un italiano nei primi posti dopo una fuga lunghissima. È Chiappucci, piuttosto bravo in salita. Fino ad allora, però, la carriera del futuro El Diablo era stata poca cosa. Niente acuti, niente di così importante da attirare la mia attenzione. Pochi giorni ancora e, invece, mi stupisce conquistando la maglia gialla. Cosa molto rara per noi italiani, sempre perdenti in terra di...