Magna!
«Magna!» è la prima parola che la mia mente ricordi. Dovevo essere molto piccola e la voce è quella di mio padre che con questo imperativo categorico mi invitava, a modo suo con affetto, ad assaggiare una salsiccetta fresca. «Magna, che è bona!» Avrò avuto cinque o sei anni e questo è solo il primo di una serie di «Magna!» che hanno accompagnato la mia esistenza.
E io ho magnato. Fichi maturi direttamente dagli alberi. Bomboloni con la crema sparati su un tappeto di zucchero da un razzo tipo Sputnik, fiore all’occhiello di una pasticceria di Ostia Lido. Ricotta calda appena scodellata nella capanna del pecoraro alle porte di Roma, dove papà ci portava entusiasta la domenica prima dell’alba, quando la città dormiva ed era ancora tutto buio.
«Magna, prova, assaggia, succhia!»: quest’ultimo ordine perentorio era riferito in particolare alle capocce di gamberi o a quelle ancora più ostili delle “pannocchie”, specie di crostacei rosa pallido che si pescano dove il Tevere si butta a mare. Questa sottomarca di mazzancolle è saporitissima ma irta di aculei respingenti. Imparare a ciucciarle era una prova di forza estrema: per raggiungere quel succo squisito bisognava sopportare l’impatto con una cresta preistorica che feriva le labbra e il palato, una sorta di rito ancestrale come quelli a cui venivano sottoposti gli adolescenti prima di essere dichiarati adulti. Sempre meglio del rito di iniziazione della tribù Chumash della California meridionale, che prevede l’ingestione di formiche rosse vive, una razza particolarmente fastidiosa di insetti che ama mordicchiare tutto quello che trova a portata di mascella: se lo stomaco rimane integro e si sopravvive, c’è la speranza di diventare grandi. Ora capisco perché è insito nella razza umana il desiderio di non crescere mai! E questo è uno dei motivi per cui mi ritengo fortunata ad aver visto la luce sotto l’ombra del “cuppolone”, dove si usa mettere in croce un povero cristo ma agli altri è richiesta solo la presenza.
«Magna! Che fai? Lasci quello? È la parte più bona! Devi impara’ cos’è il meglio nella vita!»
Lo scopo non era malvagio ma le buone intenzioni non sempre giustificano i mezzi. Non è poco che un padre ti insegni cosa c’è di meglio nella vita, anche se la sua hit parade risultava piuttosto monotona. Al primo posto «Magna’», al secondo «Magna’ con gli amici», al terzo «Magna’ con una bella signora», al quarto «Beve e magna’ in compagnia». «Magna’» l’ho già detto? Ma non posso che ringraziarlo con tutto il cuore per questo allegro decalogo che continua a servirmi nel mio percorso esistenziale.
Per cominciare, una donna che mangia con appetito piace agli uomini. Quasi sempre. Le eccezioni vanno evitate con cura. Diffidate degli scettici che inorridiscono quando gustate con le mani le spuntature d’abbacchio con contorno di patate al forno. Sono maschi pericolosi, che vi vorrebbero anoressiche e insicure per dominarvi meglio. Minano la vostra autostima a colpi di critiche sulle forme umanissime che vorreste sfoggiare con disinvoltura. Lasciateli subito prima che sia troppo tardi, per voi.
Di solito mangiare di gusto al primo incontro mette di buon umore l’eventuale partner che vi ha invitato a cena. E, anche se non gliela date quella sera stessa, non subirà l’umiliazione di pagare un conto salato dopo aver visto il prezioso cibo distrattamente abbandonato nel piatto. Tra l’altro, vedendovi bere allegramente, si convincerà di aver raggiunto il suo scopo: brille come siete, cederete di certo a qualche avance. Come sempre ha fatto male i suoi calcoli, ma questa ingenua sicurezza lo renderà gentile ed educato almeno fino a quando non gli sbatterete la porta in faccia sotto casa. Piccoli stratagemmi per sopravvivere in una giungla di nuovi cafoni che, con la scusa del femminismo, vogliono farvi pagare a metà pure il parcometro per la macchina.
Allora «Magna!». Ma senza esagerare. Non voglio spingervi all’abbuffata continua, che quasi sempre getta il genere femminile dentro un tunnel di rimorsi senza ritorno. Ma tifo per un po’ di indulgenza in più, almeno per disobbedire alle privazioni imposte da una taglia maniacalmente sotto la 42. Tutte le donne sanno che il loro corpo è un terreno di battaglia molto delicato e spesso cadono vittime del fuoco amico, ovvero di se stesse. Abbiamo imparato a essere masochiste per necessità e così non trascuriamo nessun mezzo per farci del male.
Ma che senso ha sacrificarsi così tanto per rientrare in qualche modello che passerà di moda quando sarete riuscite a raggiungerlo? C’è un esercito di ricordi piacevoli che ci vengono in aiuto per sostenere il partito del cibo, meno raffinati delle madeleine proustiane ma non per questo meno intensi. Ognuno di noi conserva in un luogo imprecisato della memoria il sapore del suo comfort food di riferimento, quello a cui ricorre quando è particolarmente triste e spaesato. Non c’è medicina migliore di un certo sugo di casa o di quella torta di mele calda con la crema della ricetta tramandata in famiglia.
«Ma nell’istante stesso in cui il sorso di tè, frammisto a briciole di dolce, toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che mi stava accadendo. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza che ne sapessi la ragione. Mi aveva reso immediatamente indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi guasti, illusoria la sua brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, riempiendomi di un’essenza preziosa [...]»
Così Proust, con la sua prosa ipnotica, ci invita ad abbandonarci a questa antica esperienza che ci sorprende ogni volta che le nostre delizie preferite si posano sul palato.
Per incanto vi rilassate e il mondo con tutte le sue rudezze scompare all’orizzonte, mentre endorfine sconosciute vi portano in volo verso la vita che vale la pena di essere vissuta. Tra tutti i sensi, pare che solo l’olfatto e il gusto siano collegati all’Amigdala e all’Ippocampo, che non sono divinità etrusche ma due parti ancora molto misteriose del nostro cervello, dove risiedono ricordi ed emozioni. Come non cogliere questa straordinaria opportunità? Naturalmente “se magna” per molto meno. Rivendico il diritto alla mia libertà e alla mia dose di cioccolato e vino. Amen. Voglio liberarmi dalle catene ma anche dalle fasciature gelate all’hamamelis che dovrebbero rassodare i miei glutei. Voglio essere libera dalla tisana che provoca tristi rigurgiti esofagei. Anche il prosecco non fa bene, ma vuoi mettere? Liberateci dal male ma non dal pane. E così sia.
Questa è la preghiera del mio ristretto circolo di amiche ribelli, congiurate clandestine che hanno strappato da tempo la tessera della palestra. Non voglio demonizzare per sempre yoga, pilates e diete varie, ma ridimensionarli, riportarli tutti insieme nella zona che meritano, ovvero non al centro della mia esistenza. Ho visto donne sfiancate dall’Ashtanga, ossessionate dal Tai Chi Chuan, rinsecchite dalla dieta Dukan, a zona, a punti, a banane, a pane e acqua. Non criminalizzo il benessere sostenibile ma maledico la smania insostenibile che negli ultimi anni ci ha condannato a un’eterna giovinezza fino a novant’anni. Voglio liberarmi dalla guêpière a vita, dall’autoreggente anche in fila alla posta, indossata perché non si sa mai... Che meschina figura mi toccherebbe fare se mi prendesse un colpo proprio stamattina e in ospedale si accorgessero che porto un triste collant? Potrei morire, se non fossi già morta. L’imperativo categorico è essere sexy sempre e comunque, anche a costo di sprofondare nel ridicolo e poi nuotarci dentro.
Ma se le nostre madri erano arrapanti con il mutandone nero sopra a un pagliaio, perché noi dobbiamo strisciare sotto la dittatura del push up? Che poi, quando te lo sfili, rivela il trucco in tutta la sua verità, vi ricordate la favola di Cenerentola? La carrozza a una cert’ora ritorna sempre zucca.
I maschi, in natura, sono più semplici di quelli patinati che vediamo immortalati sulle riviste specializzate, poveri esseri costretti in corpi unti e plasmati, ossessionati dagli addominali obliqui e dal giro del mondo delle zone erogene. Visto che ce ne frega poco della sua irreprensibile tartaruga scolpita, sono sicura che anche l’esemplare uomo è attratto dal nostro mistero sessuale, senza le tette rifatte a tutti i costi; anzi, mi suggeriscono i più informati che quella morbida pesantezza naturale non è mai dispiaciuta a nessuno. Zigomi a palla e labbra da boa segnaletica hanno devastato il nostro immaginario sessuale, le donne ci sono cascate tanto quanto gli uomini. Leopardati, strizzati, smutandati sembriamo tutti artisti del porno senza possederne purtroppo le invidiabili qualità.
È necessaria una dura rieducazione estetica che, a piccoli passi, ci aiuti a uscire dal tunnel di Barbie e Ken e ci insegni come si fa a ritornare belle persone. O persone belle.
Nel jeeppone di Gheddafi in fuga nel deserto libico i ribelli hanno trovato alcuni effetti personali, la sua inseparabile pistola d’oro e le sue creme idratanti. È mai possibile abbandonare in tutta fretta il palazzo, rischiando la vita, perdendo il potere, la stirpe e la gloria, lasciando dietro di sé i propri ricordi, la famiglia... senza però dimenticare l’idratante per pelli grasse contro i radicali liberi? Sono dettagli che ci raccontano come siamo ridotti. E, mentre affermo con orgoglio la mia estraneità, osservo riflesso nello schermo del computer un collo pieghettato: è il mio, inguaribile, se non grazie a un lifting salvifico che allontano come un amaro calice, almeno fino a domattina.
Appendice
Nel frattempo sgranocchio una mandorla, è buona e fa bene alle ossa. Il parmigiano pure, ma solo in piccolissime dosi, mentre il mirtillo rosso pare sia miracoloso per la circolazione. Perché l’amatriciana non fa bene al cuore? E il gin tonic non migliora la qualità della pelle? Il vero scandalo è che tutte le squisitezze fanno male a qualche parte del nostro corpo. Mai che si sentisse dire che l’insalata russa cura il fegato o che la panna montata è un toccasana contro la colite. Questa è una vera ingiustizia che non riesco a digerire, mentre tutto il resto mi va giù che è una bellezza.
Ci sono però leggende metropolitane che segnalano eccezioni che noi applaudiamo con entusiasmo. La signora Gianna, di anni novanta, beve vino a pranzo e cena, mangia solo cibi che impennano il colesterolo e fuma come una ciminiera, «... e se la vedi è più vispa di noi!». Che sia più vispa di noi ci credo, ci vuole poco; che sia un esempio da seguire non ci metterei la mano sul fuoco. Ma una cosa è certa: le generazioni precedenti erano più forti, forse sono cresciute con un cibo più sano e in un mondo meno inquinato, ma è chiaro che hanno sviluppato una resistenza a noi sconosciuta. Dormono solo tre ore a notte, sopportano per giornate intere nipotini ciccioni e viziati, sborsano tutta la pensione per mantenere la famiglia e moriranno senza vedere il loro Paese liberato da un’interminabile sequenza di politici corrotti. Roba da uccidere un cavallo e invece loro reggono, s’indignano, s’informano, commentano e rompono le scatole a chiunque capiti a tiro. Sono querce nodose che sostengono decine di rami fronzuti senza nessuna difficoltà. Credo che uno dei problemi più devastanti per il debole sviluppo delle ultime generazioni sia stata la diffusione dei sofficini, ci hanno ingannato con quell’aria bonaria e il sorriso di mozzarella. Non dovevamo farli passare, quel sorriso è stato il primo passo verso l’abisso: nessuno sospettava che saremmo arrivati alla pizza margherita guarnita con patatine fritte e wurstel. Eppure è successo. E ora siamo fritti.
Le cose
«Oggi che abbiamo tutto, non abbiamo più niente.
I nostri figli hanno solo molta roba che costa poco e non vale nulla.»
Edoardo Nesi
Gli scienziati studiano ogni fenomeno. Se vi abbonate a una rivista come «Nature» o a un altro dei loro periodici preferiti scoprirete meraviglie inesplorate e le risposte a tanti nostri interrogativi insoluti. Quello che personalmente mi sta più a cuore e mi regala notti insonni riguarda il mondo degli oggetti, le “cose” che ci accompagnano nel nostro trafficato quotidiano e di cui non possiamo più fare a meno.
Non so voi, ma io mi circondo di oggetti, troppi, con i quali ho un rapporto discretamente conflittuale. Un ricercatore americano molto accreditato ha calcolato che, in media, un essere umano passa quaranta giorni della sua esistenza a cercare oggetti personali che non trova. Non quaranta giorni di seguito, naturalmente, ma sparpagliati nell’arco dell’intera vita. Io sono decisamente fuori media e quel tempo lì mi serve a malapena per rintracciare le chiavi di casa. Se poi aggiungiamo tutte le ore spese per correre dietro alle sigarette, all’accendino, al rossetto, agli occhiali da vista e/o da sole, al passaporto... si arriva almeno a un intero anno solare. Senza contare le ricerche straordinarie come la risonanza magnetica del ginocchio, la dichiarazione dei redditi del 2001, gli scarponi da sci o la denuncia di furto di quella vecchia automobile-che-vi-è-stata-rubata-molto-tempo-fa-e-ci-hanno-fatto-una-rapina-a-mano-armata-di-cui-siete-accusati-con-minaccia-di-arresto-immediato-se-non-ritrovate-all’istante-la-prova-della-vostra-innocenza-che-era-in-quello-stipetto-e-ora-misteriosamente-non-c’è-più.
«Che...