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Un’audizione turbolenta
Comincerò da Miss Frost. Alla gente dico che sono diventato scrittore per merito di un certo romanzo di Charles Dickens letto all’età cruciale di quindici anni, ma la verità è che ero ben più giovane quando ho incontrato Miss Frost e ho immaginato di fare sesso con lei, e quell’istante di epifania sessuale ha coinciso con la timida nascita della mia immaginazione autoriale. Sono i nostri desideri a plasmarci. In un minuto scarso di accese, inconfessabili fantasie ho desiderato di diventare scrittore e di fare sesso con Miss Frost, non necessariamente in quest’ordine.
Io e Miss Frost ci siamo conosciuti in una biblioteca. Amo le biblioteche, pur avendo qualche difficoltà a pronunciarne il nome, sia al singolare sia al plurale. Dacché ho memoria, alcune parole mi causano spiacevoli problemi; nomi, soprattutto, persone o luoghi, tutto ciò che nel corso degli anni si è rivelato fonte di eccitazione incoercibile, intenso conflitto o panico estremo. Questa almeno è l’opinione di svariati insegnanti di dizione, logopedisti e psichiatri che mi hanno avuto in cura; inutile dirlo, senza successo. Alle elementari fui costretto a ripetere un anno per via delle mie «gravi difficoltà di espressione orale». Ora, a quasi settant’anni, ricercare le cause dei miei inciampi verbali non mi interessa più. (Sarò franco: ’fanculo l’eziologia.)
A pronunciare eziologia non ci provo nemmeno più, ma con qualche sforzo riesco a tirar fuori una variante comprensibile di biblioteca o biblioteche: un suono incerto, che mi esce di bocca simile a un frutto sconosciuto. («Bibbioteca» o «bibbioteche», come lo direbbe un bambino.)
Per colmo d’ironia, la mia prima biblioteca fu un luogo piuttosto anonimo. Era la biblioteca pubblica della cittadina di First Sister, nel Vermont: un edificio compatto di mattoni rossi situato nella stessa strada in cui vivevano i miei nonni. Fino ai quindici anni e al giorno in cui mia madre si è risposata, ho abitato anch’io in quella casa in River Street.
Mia madre e il mio patrigno si incontrarono in occasione di una rappresentazione teatrale. La compagnia dilettantistica locale si chiamava First Sister Players, e per quel che ricordo assistetti a tutti gli spettacoli che allestirono nella loro piccola sala. La mamma faceva la suggeritrice: dava l’imbeccata a chi dimenticava le battute. (E, trattandosi di teatro amatoriale, di vuoti di memoria se ne verificavano parecchi.) Per anni ho creduto che il suggeritore fosse un attore vero e proprio che per qualche oscura ragione restava fuori dalla scena e non indossava il costume, e tuttavia era indispensabile ai fini della rappresentazione.
Quando mia madre lo incontrò, il mio patrigno era appena entrato a far parte dei First Sister Players. Era venuto in città per insegnare alla Favorite River Academy, una scuola privata semiprestigiosa che all’epoca era esclusivamente maschile. Per buona parte della mia prima giovinezza ho avuto la certezza che un giorno, quando fossi stato «grande abbastanza», sarei entrato alla Favorite River. La scuola era dotata di una biblioteca più moderna e meglio illuminata, ma la biblioteca pubblica di First Sister è stata la mia prima biblioteca, e la bibliotecaria responsabile la prima bibliotecaria della mia vita. (In caso ve lo stiate domandando, no, con la parola bibliotecaria non ho mai avuto problemi.)
Inutile dire che Miss Frost fu un’esperienza ben più memorabile del luogo in sé. Per mia colpevole negligenza, fu solo molto dopo il nostro primo incontro che venni a conoscenza del suo nome di battesimo. La chiamavano tutti Miss Frost, e quando mi rivolsi a lei per iscrivermi alla biblioteca a occhio e croce le avrei dato l’età di mia madre, forse qualche anno in meno. Mia zia Muriel, donna dal piglio deciso, mi aveva detto che Miss Frost «da giovane era stata molto attraente», ma a me riusciva impossibile credere che potesse essere stata più attraente di com’era quando la conobbi, nonostante a quell’età avessi già una fervida immaginazione. A quanto raccontava la zia, Miss Frost aveva fatto girare la testa agli uomini della città , ma ogni volta che uno di loro trovava il coraggio di farsi avanti la bellissima bibliotecaria lo fissava freddamente e replicava in tono impassibile: «Mi chiamo Miss Frost. Non mi sono mai sposata e non ho in programma di farlo».
E infatti era ancora nubile. Incredibilmente, gli uomini disponibili di First Sister avevano smesso da tempo di provarci con lei.
Il romanzo di Dickens decisivo, quello che mi fece desiderare di diventare scrittore, è Grandi speranze. Avevo quindici anni quando lo lessi e anche quando lo rilessi. Fu prima che iniziassi a frequentare l’accademia, perché ricordo che lo presi in prestito dalla biblioteca di First Sister – due volte. Prima di allora non mi era mai venuta voglia di rileggere un romanzo per intero.
Miss Frost mi trapassò con lo sguardo. All’epoca non le arrivavo nemmeno alla spalla. «Un tempo Miss Frost aveva un fisico statuario» mi aveva rivelato la zia, come se l’altezza e la corporatura della bibliotecaria esistessero soltanto al passato. (Per quel che mi riguarda, è sempre stata statuaria.)
Era una donna dalla postura eretta e dalle spalle larghe, benché ad attirare la mia attenzione fosse soprattutto il seno, piccolo ma incantevole. In apparente contrasto con la stazza virile e la palese forza fisica, il suo petto aveva una freschezza acerba e il turgore improbabile di quello di un’adolescente. Non capivo come fosse possibile per una donna della sua età , e comunque quel seno doveva aver colpito l’immaginazione di ogni adolescente che vi si era imbattuto, o perlomeno così credevo al tempo del nostro primo incontro, nel 1955. Dovete sapere inoltre che Miss Frost non vestiva mai in modo provocante, almeno non nelle aule silenziose della biblioteca di First Sister, dove, a qualsiasi ora del giorno e della notte, era raro incontrare anima viva.
Una volta avevo sentito zia Muriel dire a mia madre: «Miss Frost ha passato da un pezzo l’età in cui è sufficiente un reggiseno a fascia». Avevo tredici anni, e compresi che, secondo il giudizio della mia severissima zia, i reggiseni di Miss Frost erano del tutto inadeguati al suo seno, o viceversa. Non ero affatto d’accordo! E per i lunghi minuti che trascorsi a confrontare mentalmente le divergenti opinioni circa il seno di Miss Frost, lei non smise mai di trapassarmi con lo sguardo.
L’avevo conosciuta quando avevo tredici anni; all’epoca di quella prima impasse ne avevo già quindici, ma il suo sguardo era così intenso che mi parve di aver trascorso gli ultimi due anni sotto il suo incantesimo.
Alla fine, di fronte alla mia intenzione di rileggere Grandi speranze, Miss Frost commentò: «Questo l’hai già letto, William».
dp n="16" folio="15" ? «Sì, e mi è piaciuto molto» le risposi, tanto per non spiattellarle in faccia, com’ero tentato di fare, che mi piaceva molto lei. I suoi modi erano estremamente formali: fu la prima persona a chiamarmi sempre e soltanto William, mentre i miei amici e la mia famiglia mi chiamavano semplicemente Bill, o Billy.
A dirla tutta, in quel momento avrei voluto vedere Miss Frost con indosso soltanto il reggiseno, che, come ripeteva la zia, offriva un contenimento inadeguato. Ma, anziché confessarle tale ardito desiderio, ribadii: «Voglio prendere di nuovo in prestito Grandi speranze». (Non feci parola del presentimento che la sua influenza sulla mia psiche si sarebbe rivelata non meno deleteria di quella di Estella sul povero Pip.)
«Così presto? L’hai letto appena un mese fa!»
«Ho già voglia di rileggerlo.»
«Ci sono molti altri libri di Charles Dickens. Scegline un altro, William.»
«Oh, lo farò» le assicurai. «Dopo aver riletto questo.»
Sentirla pronunciare il mio nome per la seconda volta mi aveva provocato un’erezione istantanea, benché a quindici anni avessi un pene di dimensioni ancora ridotte e una capacità erettile sconfortante. (Non c’era quindi pericolo che Miss Frost si accorgesse di ciò che mi stava accadendo.)
Quella saccente di mia zia aveva detto a mia madre che per la mia età ero sottosviluppato. Ovviamente si riferiva a un altro (o a ogni) aspetto della mia persona: per quel che ne sapevo non vedeva il mio pene da quando ero bambino, se mai l’aveva visto. Più avanti ci sarà senz’altro occasione di riparlare di questa faccenda del «pene». Per ora vi basti sapere che la parola pene mi causa notevoli difficoltà di pronuncia e che quando, dopo una lotta impari, riesco a darle voce, suona più o meno come «penit».
dp n="17" folio="16" ? In ogni modo, quando le chiesi di prendere in prestito per la seconda volta Grandi speranze, Miss Frost non sapeva nulla delle mie apprensioni di natura sessuale. Pensava semplicemente che con tutti quei libri a disposizione rileggerne uno fosse un’immorale perdita di tempo.
«Cos’ha di tanto speciale?»
Fu la prima persona a cui confessai che volevo diventare scrittore «per merito di Grandi speranze», mentre in realtà era tutto merito suo.
«Vuoi diventare scrittore!» esclamò, disgustata. (Nemmeno avessi detto sodomizzatore.)
«Già , scrittore.»
«Non puoi sapere se sarà quella la tua strada!» protestò lei. «Non è certo una professione che si sceglie in anticipo.»
Su quel punto aveva senza dubbio ragione, ma io all’epoca non potevo saperlo. E se insistevo tanto non era solo per il desiderio di rileggere Grandi speranze, ma perché più Miss Frost si accalorava più potevo apprezzare l’accelerazione del suo respiro e il conseguente sobbalzare del suo petto da ragazzina.
A quindici anni ero ancora più infatuato di lei di quanto non fossi stato a tredici perché, se a quell’età mi ero limitato a fantasticare in modo vago di fare sesso con lei e di diventare scrittore, ora le mie fantasie erano più definite, più ricche di dettagli concreti, e avevo già scritto alcuni passi di cui andavo fiero.
Certo, la prospettiva di fare sesso con Miss Frost era remota quanto quella di diventare un vero scrittore, ma… se vi fosse stata anche solo una possibilità ? Stranamente ero abbastanza arrogante da sperarci. E se vi state chiedendo da dove mi venisse tanta presunzione, be’, posso soltanto supporre che i geni avessero la loro parte.
Non sto parlando dei geni materni: impossibile tacciare di arroganza una che di lavoro faceva la suggeritrice. A causa di mia madre avevo trascorso buona parte del mio tempo libero circondato dagli attori variamente dotati (o negati) della compagnia di teatro locale, non proprio l’ambiente ideale per nutrire l’autostima; ecco perché lei non si era mai mossa dalle quinte.
No, se la mia arroganza era di stampo genetico, proveniva senza dubbio dal mio padre biologico. Non l’avevo mai conosciuto: tutte le informazioni che possedevo sul suo conto erano di seconda mano, e ben poco lusinghiere.
«Il crittografo», così lo chiamava mio nonno, oppure, più di rado, «il sergente». A sentire la nonna, era colpa del sergente se la mamma aveva abbandonato il college. (Lei preferiva di gran lunga «sergente», sempre pronunciato in tono denigratorio, a «crittografo».) Io so solo che mia madre si era iscritta alla scuola per segretarie dopo essere rimasta incinta di me. Qualche tempo dopo avrebbe mollato anche quella.
La mamma mi ha raccontato di aver sposato mio padre ad Atlantic City, nel New Jersey, nell’aprile del 1943: decisamente tardi per un matrimonio riparatore, se si considera che io sono nato a First Sister, nel Vermont, nel marzo del ’42. Avevo già un anno, e le «nozze» (celebrate da un segretario comunale o da un giudice di pace) furono più che altro un’idea di mia nonna, o così diceva zia Muriel, lasciandomi intendere che William Francis Dean non si era presentato all’altare con il dovuto entusiasmo.
«Abbiamo divorziato prima che tu compissi due anni» mi aveva rivelato la mamma. Avevo visto il certificato di matrimonio, di cui mi era rimasta impressa la località esotica e remota di Atlantic City, dove mio padre aveva svolto l’addestramento di base. Nessuno mi ha mai mostrato gli atti di divorzio.
dp n="19" folio="18" ? «Il sergente non era interessato al matrimonio o alla famiglia» amava ripetere la nonna con aria di sufficienza; già da bambino mi era chiaro da chi mia zia avesse ereditato la sua spocchia.
Eppure, per via del patto stipulato ad Atlantic City, e a prescindere dall’entusiasmo dei contraenti, quel certificato legittimava la mia esistenza, per quanto tardivamente. Venni quindi chiamato William Francis Dean Jr. Ebbi il suo nome, se non il suo amore. E devo aver ereditato anche i geni di crittografo, o l’«ardimento» di sergente, per usare le parole di mia madre.
«Com’era papà ?» le avrò chiesto un migliaio di volte. Lei non era mai evasiva o rancorosa al riguardo. «Oh, era molto attraente, un giorno lo sarai anche tu» rispondeva sempre con un gran sorriso. «E ardimentoso, per giunta.» La mamma era molto affettuosa con me, almeno finché sono rimasto bambino.
Forse nell’infanzia e nella prima adolescenza è normale non prestare troppa attenzione al tempo, ma all’epoca non mi venne mai in mente di fare una lettura sequenziale degli eventi. Mio padre doveva aver ingravidato mia madre tra la fine di maggio e i primi di giugno del 1941, al termine del suo primo anno a Harvard. Eppure non ricordo di aver mai sentito parlare di lui in relazione al college, nemmeno in termini sarcastici da zia Muriel. Lo chiamavano sempre e soltanto il crittografo o il sergente, benché mia madre fosse chiaramente orgogliosa dei suoi trascorsi scolastici.
«Pensa un po’, ha iniziato Harvard a soli quindici anni!» l’ho sentita dire più di una volta.
Ma se il mio ardimentoso papà aveva quindici anni al suo ingresso a Harvard, nel settembre del 1940, doveva essere molto più giovane di mia madre. Nell’aprile del ’40 lei ne aveva compiuti venti e alla mia nascita, nel marzo del ’42, le mancava un mese ai ventidue.
dp n="20" folio="19" ? Non si erano sposati subito perché mio padre non era ancora maggiorenne? Lui avrebbe compiuto diciott’anni nell’ottobre del ’42. Fu mia madre stessa a confermarlo, raccontandomi di come la chiamata alle armi fosse stata «cortesemente» anticipata alla maggiore età . (Soltanto anni dopo mi sarei accorto che l’avverbio cortesemente non apparteneva al suo vocabolario.)
«Tuo padre era convinto di poter controllare meglio il proprio destino militare arruolandosi volontariamente, e lo fece nel gennaio del 1943» mi spiegò. (Nemmeno «destino militare» sembrava farina del suo sacco: lo zampino del ragazzo di Harvard era più evidente che mai.)
Nel marzo del 1943 papà salì su un autobus diretto a Fort Devens, nel Massachusetts, meta iniziale del suo servizio militare. A quel tempo l’aviazione faceva parte dell’esercito e a lui venne assegnata la mansione di crittografo. Per l’addestramento di base l’aeronautica aveva preso possesso di Atlantic City e delle dune circostanti, e mio padre e le altre reclute bivaccarono negli alberghi di lusso, vandalizzandoli senza riguardi. Stando alla versione di mio nonno, nei locali «nessuno chiedeva mai i documenti. E durante i fine settimana decine di ragazze, per la maggior parte impiegate governative provenienti da Washington, si fiondavano in città . Scommetto che se la spassavano, alla faccia di tutte quelle schioppettate tra le dune».
Da parte sua, la mamma dichiarò di aver fatto visita a mio padre ad Atlantic City soltanto «una o due volte». (Possibile, quando ancora non erano sposati e io avevo un anno?)
Dev’essere stato in compagnia del nonno che mia madre si recò ad Atlantic City per le «nozze» nell’aprile del’43, poco prima che mio padre venisse spedito all’istituto di crittografia di Pawling, a New York, dove gli fu insegnato l’uso dei codici e delle stringhe cifrate. Da lì, nella tarda estate del ’43, fu trasferito alla base di Chanute, a Rantoul. «Soltanto in Illinois imparò le applicazioni pratiche della crittografia» mi raccontò la mamma. Quindi, diciassette mesi dopo la mia nascita i miei genitori erano ancora in contatto. (A proposito, nemmeno «applicazioni pratiche» ha mai avuto un posto di rilievo nel vocabolario di mia madre.)
«Alla base di Chanute tuo padre venne introdotto ai misteri della prima macchina cifrante dell’esercito americano, una specie di telescrivente dotata di un set di dischi» mi raccontò il nonno. Quella spiegazione avrebbe anche potuto essere in latino; probabilmente neppure il mio genitore latitante sarebbe riuscito a rendermi comprensibili le funzioni di una macchina simile.
Il nonno non usava mai in modo spregiativo gli appellativi «crittografo» e «sergente», e...