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Amo parlare di calcio
C’era una televisione accesa. C’erano un tavolo e qualche sedia. C’erano vino rosso e tapas. E poi c’erano due uomini che non si erano mai parlati prima, ma che avevano molto da dirsi.
«Vi ho seguiti, Walter, mi piace tantissimo il vostro gioco.»
«Grazie Pep, è un onore sentirlo dire da te.»
«Vi studio con attenzione.»
«Anch’io so tutto di voi.»
Sulla lavagna, fra gli schemi disegnati, due belle storie si stavano incrociando. Lo stanzino di Guardiola incastonato dentro al Camp Nou era la cassaforte che nascondeva il tesoro, la parte finale della mappa dei pirati, un cestino di vimini, e io ero appena entrato nel vivo dell’intreccio. Invitato a parlare prima che a bere, come un re magio che porta in dono delle idee. Oro, incenso e carriera. Ci siamo incontrati dopo il Trofeo Gamper del 2011, la partita amichevole di inizio stagione con cui il Barcellona è abituato a presentarsi alla sua gente: 5-0 per gli altri, per loro, per la corazzata dei marziani. Storia attuale, vecchie case prima del trasloco: lui abitava ancora lì e non a Monaco di Baviera, io sulla panchina del Napoli.
«Sei bravo, perché riesci a trasmettere il tuo modo di essere, a farti ascoltare dai calciatori più forti del mondo. Eseguono e si fidano, siete i moschettieri dell’uno per tutti e del tutti per uno.» Gli ho detto, con una confidenza quasi naturale.
«Hai centrato il nostro segreto.» Mi ha risposto: «Qui i primi a dover recuperare palla sono i nostri attaccanti, chi non lo fa resta fuori, i veri fuoriclasse sono quelli maggiormente chiamati al sacrificio. Spesso mi chiedono di svelare la ricetta che ci rende speciali: eccola, te l’ho appena raccontata. È tutto molto più semplice di quanto si possa credere».
«Me n’ero accorto…»
«Non avevo dubbi. E sai che ai miei ragazzi ho detto di stare attenti al tuo Napoli, di cogliere il senso del vostro gioco? Perché attaccate con cinque uomini in contemporanea. Avete perso, ma a un certo punto ci avete messi in grossa difficoltà , per almeno mezz’ora, e ti assicuro che non ci capita tutti i giorni.»
«Questo mi rende orgoglioso.»
«E non preoccuparti. Il risultato stavolta davvero non conta.»
Per uno come me, che vive male ogni sconfitta fino a psicosomatizzarla (in parole povere se perdo sto male), quel discorso fu una sorpresa. Piacevole e dal gusto dolce. Se Guardiola e il Barcellona avevano deciso di invitarci alla loro festa d’agosto, onore riservato solo ai grandissimi club, buona parte del merito era mio. Non sarò mai un finto modesto. Per quaranta minuti ci siamo confrontati e abbiamo discusso. Di tattica, di difesa a tre, di gestione del gruppo, di tecniche di allenamento, ma non mi ha mai chiesto nulla di Hamsik, Cavani e Lavezzi, cioè dei nostri tre gioielli del momento. Niente calciomercato, l’unica merce esposta in quell’ufficio eravamo noi. Due professori, due allievi, due professionisti. Due definizioni in sospeso, affamate di calcio e di sapere, vogliose di conoscersi e di scoprirsi. È stato un faccia a faccia di alto livello, un uno contro uno come sui campi da basket durante le partite della Nba. Mica Michael Jordan contro LeBron James volendo attingere a epoche diverse, più che altro la sfida in pareggio fra due faticatori del parquet, della vita. Quando puoi appartarti in una stanza con Guardiola, e parlare, senza maschere da indossare, di calcio, solo ed esclusivamente di calcio puro, ti senti non proprio normale. Diciamo realizzato. Realizzatissimo.
Nel mio caso, con un vuoto che però mi accompagna in maniera costante, che ogni tanto riaffiora, perché il pallone mi ha riempito la vita, ma mi ha anche sottratto qualcosa. Nello specifico, la frequenza e la quotidianità del rapporto con mio figlio Gabriele, l’impossibilità fisica di accompagnarne la crescita, di viverla.
«Grazie, mister.»
«Prego, mister.»
Un colloquio alla pari. Non è presunzione, ma consapevolezza di essere preparato a trecentosessanta gradi, di vivere per il lavoro trecentosessantacinque giorni all’anno, di non lasciare nulla al caso. Una precisa filosofia, sono il maniaco dei particolari. Spesso vengo scambiato per antipatico, ma è giunto il momento di demolire questo stereotipo sbagliato, di togliermi di dosso una definizione che non rispecchia la realtà . E se lo sembro, è solo perché faccio di tutto per far rendere al meglio la squadra che alleno, durante la settimana come la domenica, forse è per questo che non risulto simpatico agli avversari, stesso motivo per cui piaccio ai miei giocatori e ai miei tifosi: prima ci sono i miei ragazzi e il resto viene dopo. Per difenderli sono pronto a tutto. Sembra incredibile, ma è come se Guardiola l’avesse capito al primo incontro, mi ha guardato per quello che ero, che sono. Ha scavato nel profondo di me, dove ha letto che mi lamento, protesto, combatto, sempre e solo per il bene dello spogliatoio: ecco come sono fatto. Là , nell’anfratto più intimo di uno stadio che è tana e rifugio per extraterrestri, non ho avuto paura. Mi sono sentito a mio agio, al posto giusto, calato dentro un vestito finalmente confezionato su misura.
Mi sento spesso un incompreso, sebbene pienamente realizzato. Anzi, un INCOMPRESO, con tutte le lettere maiuscole, ma ben felice di esserlo. Un diverso, un idealista, uno che odia stare con il gregge. Un fuoriposto. Quello che da giovane, nella Primavera della Fiorentina, chiamavano Lupo Solitario: ero il capitano e d’estate non facevo vacanze, perché dovevo andare a consegnare il pane con mio padre. Mi alzavo alle cinque del mattino, mi addormentavo in spiaggia due ore al pomeriggio, mi risvegliavo ustionato dal sole ma non mi lamentavo, per rispetto del babbo, per cui il tempo era un lusso che non si poteva sprecare in riva al mare. Un modo di essere che mi ha aiutato a scalare e allenare il mio talento, dal basso, senza scorciatoie, senza regali in cambio. Il mio oggi è in una grandissima squadra, ero sicuro che prima o poi sarebbe successo, conosco il significato del termine lavoro; ho imparato a capire che parlare non aiuta ma dare tutto sul campo sì. La gavetta costa, ma alla fine paga. Primavera del Bologna, Acireale, Pistoiese, Livorno, Reggina, Sampdoria e Napoli e Inter: ecco il mio percorso da autodidatta, sempre con poco budget a disposizione, e se mi devo riconoscere un pregio, è la capacità di spingere tutti oltre il limite, a partire da me stesso. Se la mia squadra vale 100 e ottengo 90, ho fatto male. Se la mia squadra vale 90 e ottengo 100, ho fatto benino. Se la mia squadra vale 100 e ottengo 100, ho fatto quello per cui mi hanno pagato. Se la mia squadra vale 50 e ottengo 100, sono Mazzarri: anno dopo anno, scalando tutte le categorie dalle giovanili alla Champions League, sono sempre riuscito a fare il salto più in alto del previsto. Se penso al mio cammino, non so negli ultimi dieci anni chi abbia realmente fatto meglio di me, e lo dico tenendo presente il punto di partenza, non quello di arrivo. Trionfare in Serie A, Coppa Italia e Champions League, magari nella stessa stagione, è di certo clamoroso; ottenere la salvezza con la Reggina partendo da -15 in classifica, dove il calciatore più pagato guadagna trecentomila euro all’anno, forse lo è altrettanto. È chiaro che in rettilineo un missile andrà sempre più veloce di un asino, anche se poi alla fine tutti e due arrivano al traguardo: il bello è scoprire che chi telecomanda il missile ci deve mettere passione, un talento di altissimo livello e una delicatezza spinta all’eccesso, mentre chi guida l’asino deve anche stare attento a non cadere, deve parlargli e spiegargli le cose, portarlo dal veterinario e dallo psicologo, coccolarlo e indicargli la via, spiegargli che è un puledro e fargli digerire questa bugia raccontata a fin di bene. Il missile e il custode dell’asino sono le armi. E se il custode dell’asino alla fine arriva nella sala comandi da cui si lancia il missile, allora la canzone di sottofondo è inequivocabilmente quella di Ligabue, fenomeno della musica, una meraviglia molto interista: Il meglio deve ancora venire.
Dall’esterno studiano le classifiche e il lavoro di ogni giorno in maniera sbagliata, senza troppa attenzione. Capita spesso che si scelgano gli allenatori con eccessiva superficialità , senza una base logica. Nelle aziende normali ti assumono e ti danno un preciso incarico, se sei bravo ti promuovono altrimenti ti mandano via, insomma, ti valutano per quello che fai e che hai fatto. Nel calcio non sempre è così. Capita che un presidente ti prenda se sei considerato simpatico all’esterno, se hai una bella faccia, basandosi su informazioni non verificate. E ancora: se sai rispondere bene ai giornalisti durante le conferenze stampa, se sai recitare una parte, se l’apparire è predominante rispetto all’essere. Ecco, forse mi porto dietro una filosofia interiore che in passato non mi aveva permesso di allenare un club al top in Europa, Moratti è riuscito a capirmi al volo come Guardiola, a intravedere l’incendio che si autoalimenta dentro di me, a considerare un pregio ciò che in tanti scambiano per un difetto. E invece è un fiore da coltivare. Mentre sedevo sulla panchina del Napoli è capitato che mi chiedessero: «Ma perché non hai mai allenato un cosiddetto top club?» e devo dire che la domanda non mi ha dato fastidio, significava che qualcosa di buono ero riuscito a fare. E infatti ci sono arrivato. La cosa che in passato mi è dispiaciuta per davvero, questo sì, è stata accorgermi che noi allenatori in certi periodi della nostra vita siamo valutati da dilettanti a tutti i livelli, da persone che non hanno compiuto i nostri stessi studi sul calcio, che non hanno conosciuto tutte le categorie del pallone con le relative difficoltà , che non sono passate attraverso le nostre medesime esperienze. Più di una volta io e quella categoria di gente abbiamo convissuto, senza troppo entusiasmo.
Adesso lo so, stare seduto sulla panchina è la mia vita, quello per cui mi sentivo predestinato, il fuoco da coltivare con il talento e il talento da coltivare con il fuoco. Una situazione che immagino sia stata simile per sir Alex Ferguson: fino a quando è stato al Manchester United, i proprietari gli hanno permesso di fare tutto ciò che desiderava. Aveva carta bianca, poteva decidere ogni cosa: è un sistema di lavorare che mi affascina parecchio, perché anch’io applico da sempre un metodo manageriale alla gestione del gruppo. Sceglieva i giocatori, se li comprava e li gestiva. Io, per gran parte della mia carriera, non ho avuto l’opportunità di costruire una squadra seguendo le mie esigenze e i miei (bi)sogni, a dirla tutta per molti anni è accaduto spesso il contrario: gli equivoci con gli operatori di mercato sono stati tante volte all’ordine del giorno, chiedevo un tipo di calciatore e ne arrivava un altro, incompatibile con il progetto tattico. In carriera i dirigenti mi hanno messo i bastoni fra le ruote, gli allenatori dei grandissimi club non hanno questo contrattempo (chiamiamolo così). Pronunciano un nome, un cognome e il club fa di tutto per accontentarli. Io al massimo ho potuto indicare il ruolo.
Ma so andare oltre, in questo spesso ho fatto la differenza. Fisso l’orizzonte e non voglio arrivare lì, ma un metro più in là . Un centimetro non mi basterebbe.
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Chi si accontenta non gode
I centimetri sono poca cosa, la rappresentazione in scala del piccolo, la misura di chi si accontenta, ma chi si accontenta non gode. Soffre. E alla fine perde. Non sarò mai così, io non mollo, io lavoro. Con i calzini abbassati e senza parastinchi, come Mariolino Corso, il mio primo ricordo interista da ragazzino. Tutti notavano il suo piede sinistro, le punizioni a foglia morta, a me invece colpivano i lividi sulle gambe, una fatica visibile e quindi descrivibile, perché presto grande attenzione ai particolari e al sudore, e in lui le due cose coesistevano. Voglio avere ogni dettaglio sotto controllo, non lascio nulla al caso, perché il caso è un nemico, un baco che può far collassare il sistema. Un tilt e addio. Comando io e mi prendo le responsabilità di tutte le scelte che faccio, rischio sulla mia pelle.
«Ho bisogno di lei» mi ha detto Moratti al nostro primo incontro, e non avrebbe potuto farmi complimento migliore. «Mi ci vuole una guida sicura, un allenatore al centro di tutto.» Con sedici parole ha reso onore a dodici anni di carriera.
«Sono partito dal basso, ho percorso tutte le tappe possibili e non ho alle spalle un curriculum straordinario da giocatore. Finora non mi si era mai presentata l’opportunità di conoscere un presidente con la sua esperienza e il suo palmares, e già essere qui è una conquista che mi sono costruito nel tempo. Non so come andrà a finire il nostro dialogo, ma è giusto che lei mi conosca: eccomi, mi presento.»
«Guardi, Mazzarri, che io di lei so più che abbastanza, in particolare che quando prende i giocatori li sa far rendere al massimo. Conosco molti esempi di calciatori che ha rivalutato proprio quando sembravano in difficoltà , non più in grado di esprimersi ad alti livelli: le posso citare Pandev, che con lei è esploso, e potrei proseguire con Cavani e altri. E poi il gioco del Napoli mi ha colpito, era divertente, in panchina c’era una persona preparata, senza alcun tipo di paura e si vedeva. Si capiva.»
Sapeva benissimo che l’essere allenatore mi coinvolge totalmente, assorbe ogni mia energia, senza sprechi. Non ci sono rivoli di me che vengano dispersi in altre direzioni. Dormo poco e penso molto, e se devo scegliere fra i due momenti sacrifico il sonno. Punto la sveglia un’ora prima, il tempo è infinito ma va spremuto fino alla polpa.
«Presidente, voglio che mi conosca davvero, fino nel profondo, la scelta dell’allenatore è un passo decisivo nella costruzione di un progetto.»
«Lo so…»
«Sono aziendalista nel Dna e non sono per gli sprechi.»
Era la fine della stagione 2012/2013 e la classifica diceva questo: Napoli secondo e qualificato direttamente alla Champions League, Inter nona. Avevo un paio d’ore a disposizione per esporre la mia carta d’identità , senza nascondere nulla. Nome, cognome, indirizzo. Anzi, indirizzi, mio personale e quello che avrei dato eventualmente all’Inter.
«Provo di tutto per vincere» ho continuato, mentre lui mi fissava, «è normale che gli avversari mi detestino. Vincere. Vincere. Vincere. Lo voglio ripetere all’infinito questo verbo. Vincere, vincere, vincere, vincere. Per i giocatori devo rappresentare l’unico punto di riferimento, così da non concedere loro alcun tipo di alibi.»
«L’unico…»
«L’unico a parte la proprietà , ovviamente.»
Ha sorriso. Raccontando questo dialogo faccio un’eccezione e infrango una delle mie prime regole, i colloqui fra me e il presidente devono restare tali, però quello è stato troppo significativo per non essere svelato. Centoventi minuti che pensavo di meritare da tanti anni, che volevo fortissimamente. È stato un lungo e piacevole istante, si stava bene, si parlava di calcio. Moratti è un fine intenditore, soprattutto un innamorato e questo si percepisce subito. Ho avuto la netta sensazione che anche lui fosse contento, che mi conoscesse più di quanto pensassi. Aveva raccolto informazioni. Solo tre anni prima aveva vinto la Champions League e in quel momento era lì con e per me.
«Non so cosa pensi di me, presidente, ma immagino lei creda che io sia fatto in un certo modo e invece scoprirà che non è così. Tutti prima di conoscermi si fanno una determinata idea della mia immagine, non sempre positiva, poi frequentandomi capiscono che si stavano sbagliando.»
Mi definirei un finto antipatico che sa ridere, ma solo davanti a chi lo merita. Moratti chiedeva, si interessava, appariva chiaro che fosse alla ricerca di un allenatore il più simile possibile a quello dell’era in cui aveva vinto tutto.
«Mazzarri, mi ascolti bene. Un’annata come quella appena finita non la vivevo più da tanto tempo, e non ne sentivo la nostalgia. Non ero più abituato, voglio tornare a competere. Ho bisogno di un tecnico come lei.»
L’investitura di Moratti mi aveva appena reso immortale. Carico come l’Enola Gay, l’aereo che trasportava la bomba di Hiroshima, perché carico come la dinamite lo sono già di mio. Ero alla ricerca di quella scarica di adrenalina, di quel progetto, e l’Inter probabilmente di uno come me. Ci siamo incontrati a metà strada e presi per mano.
«Ah, presidente, per me chi non si sacrifica sta fuori. Non voglio nessuno che pensi a se stesso, tutti devono credere nell’Inter. Affidarsi agli interessi personali nella mia testa è il primo e più grave dei peccati. Così si finisce male. Arrivederci.»
«Arrivederci. E a presto…»
Non ho finto, non ho detto ciò che per forza avrebbe voluto sentirsi dire. Semplicemente, sono stato me stesso. Senza nascondermi e questo avrebbe potuto rappresentare un rischio, ma io sono per il parlare chiaro subito per evitare brutte sorprese poi.
Così sono diventato l’allenatore dell’Inter. Prima di discutere di giocatori e di mercato, e dopo averlo visitato, ho chiesto alcune modifiche per il centro sportivo di Appiano Gentile, dove la squadra si allena. Una casa, più che accogliente, dev’essere funzionale. Il primo e più importante cambiamento ha riguardato la creazione di una saletta video dove ci ritroviamo anche per le riunioni, un angolino tutto nostro, impenetrabile, una torre di controllo indispensabile per evitare disastri, aerei e non solo. L’ho voluta attaccata allo spogliatoio, come se fosse un’appendice, mentre in precedenza la squadra si riuniva in sala stampa, cioè dall’altra parte della Pinetina. Troppo tempo perso per raggiungerla, e poi vedi mai che qualche giornalista dimenticasse un registratore acceso. Per sbaglio ovviamente. Ho chiesto anche una saletta specifica per il lavoro del mio staff, l’allargamento di uno dei campi da gioco e il rinnovo completo della palestra, che era ubicata sotto una tensostruttura. L’organizzazione è fondamentale, non solo quella tattica. Dev’essere tutto perfetto, un piccolo mondo moderno a prova di attacchi esterni ma anche interni. Chi è fuori non deve sapere, chi è dentro va messo nelle condizioni di essere felice e di rendere al meglio, se poi non ce la fa il problema diventa suo. Uno scudo che ci difende da tutto e da tutti, all’occorrenza anche dai nostri tormenti. Ai tempi di Napoli avevo fatto lo stesso, ordinando una piccola rivoluzione a Castelvolturno, con lavori di adeguamento che sul lungo periodo hanno regalato benefici alla squadra e al club. Mi presento al mattino e me ne vado alla sera, dall’alba al tramonto. Il sole mi piace però lo vedo poco, è vero che bacia i belli ma anche gli sfaticati. Sono tutto casa e chiesa, e la croce la porto io. Solo io e va bene così. All’inizio pesa, con il passare dei giorni e degli anni ci si abitua e se ne apprezza la presenza. È un monito, uno sprone a non fermarsi. So che è lì e allo stesso tempo che non mi avrà . Quella con le braccia larghe è una posizione innaturale, che...