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Quando tenevo l’arteteca
Uno scugnizzo è un bambino che fa della strada la sua casa. Non è uno che poi per forza diventa un ladro, un delinquente, insomma, un poco di buono. I miei amici oggi fanno tutti lavori normali: come Giggino il pasticciere, Giovanni il pizzaiolo, Paolino il fruttaiuolo, Totò il macellaio, detto «’o Calimero» per quanto era scuro e pure un poco sfortunato, e poi Mimmo, che però è morto giovane.
Invece io ho iniziato con gli scippi e finito con le rapine. Ma questo a sette anni ancora non lo sapevo.
A quell’età andavo con i miei compagni alla Villa comunale, a Mergellina, o Margellina, come dicevamo noi, e per arrivarci da Barra, periferia orientale di Napoli, ci appendevamo al tram, di nascosto da parenti e genitori. In estate, invece, ci attaccavamo al filobus per Marechiaro, dove ci tuffavamo dagli scogli nel mare aperto. Eravamo sei e seguivamo uno schema di estrema precisione in cui ognuno aveva il suo posto, con un rischio altissimo di farci male. Un giorno proprio Mimì cadde mentre il filobus continuava a camminare. Ci spaventammo tutti, Totò non si muoveva da terra, aveva il braccio rotto, ma non gli uscì di bocca nemmeno un «ahi». Lo riportammo a casa. Per non farci scoprire e ammazzare di botte dai nostri genitori, proprio lui s’inventò la scusa di essere scivolato da uno scoglio: «Guaglio’, dicimmo che songo sciuliato ’ncopp’ ’o scoglio, vabbuo’?».
«Totò, si’ ’n’amico» gli rispondemmo noi.
Ci promettemmo di non farlo più, ma il richiamo dell’avventura era più forte della paura.
Almeno per me.
Una domenica feci ritardo, i miei amici erano già andati e mi avviai da solo. Pagai il biglietto e mi misi a sedere. Appena superato corso Sirena, a Barra, dov’era casa mia, il tram svoltò in direzione San Giovanni per una fermata. Lì nessuno poteva più riconoscermi. Prima che le porte si chiudessero, con un salto uscii fuori e misi il piede sul paraurti. Ben piegato sulle gambe, e con le mani che si tenevano a una specie di maniglia di metallo, ero concentrato per non cadere. Il bigliettaio mi seguì con lo sguardo, sconcertato. Abbassò il vetro del finestrino e mi disse: «Uè, guaglio’ ma si’ scemo? Che ffaje là appiso? Scinne, scinne ca te faje male».
«Teng’ ’o biglietto, e voglio sta’ ccà.»
«Scinne… Ma ’e genitori tuoje ’o ssanno? Penza a loro!»
«Non vi preoccupate, sto bbuono.»
«Te si’ fatto pure ’o biglietto. Nun t’appennere. Te faje male, guaglio’ scinne.»
Per un pezzo continuò a parlare e a farmi raccomandazioni che non volevo sentire. Poi si stancò e lasciò perdere. Fu il mio primo confronto con l’autorità. Sette anni, e già un conflitto tra le regole e la mia idea di libertà.
Vidi da lontano gli amici, ma non li raggiunsi all’entrata della Villa. Mi ero fatto tutto sporco. Avevo il vestito buono della domenica, la camicia bianca e stirata. Dopo quel viaggio appeso fuori era diventata nera, ma così nera che per la vergogna me ne tornai indietro.
Mi aggrappai di nuovo al tram e, poco prima di arrivare a Barra, mi c’infilai dentro. Stare seduto non era cosa per me.
«Tieni l’arteteca, non ti stai mai fermo» urlava mia nonna, per farmi capire che ero troppo vivace, troppo irrequieto. E aveva ragione. Una volta, qualche anno prima, mia madre mi aveva alzato sul tavolo della cucina, con una mano mi vestiva e con l’altra teneva il pentolino del latte sul fuoco.
«Nun te movere, ’o llatte sta vullenno» disse mentre si allontanava per spegnere il fornello. Io invece iniziai a saltellare e caddi a terra con la spalla sinistra, rompendomela. Non vi dico il dolore.
Eppure, neanche ingessato stavo fermo, scendevo in cortile dove gli amici mi aspettavano. Li sfidavo ed ero capace di correre più veloce di tutti. Ero ancora piccolo, ma avevo le gambe che sembravano due razzi.
Nessuno riusciva a prendermi, a parte mio zio Eduardo, che morì quando avevo diciannove anni in un incidente stradale, la notte di Capodanno. Era il più alto della famiglia e, ogni volta che mia madre gli raccontava dei guai che le facevo passare, mi diceva: «Vieni qua, disgraziato, vieni qua».
Iniziavo a correre per tutta la casa, ma lui mi acchiappava e mi appendeva a un gancio sporgente, vicino alla porta d’ingresso. Mi teneva con la mano, ma mi faceva stare lì, penzoloni.
«O zi’, famme scennere. Teng’appaura» provavo a convincerlo.
Per uno come me che si sentiva a proprio agio soltanto per la strada, lo studio era una cosa contro natura. Come due persone che non vanno d’accordo, non eravamo fatti l’uno per l’altro.
Cominciai la prima elementare con un pianto di ribellione, perché non volevo andare a scuola, e mia madre dovette stare a consolarmi più del previsto. Così feci tardi e mi ritrovai pure al primo banco. Mi avevano messo accanto a un bambino disabile, aveva il corpo piccino e le gambe grandi. Là davanti alla maestra io però mi sentivo troppo sorvegliato e sotto tiro. E così, non sapendo cosa dire, m’inventai che non volevo stare vicino a quel bambino. Lui si mise a piangere, io dentro di me stavo male, soffrivo per quell’ingiustizia, me lo porto ancora sulla coscienza, ma ottenni ciò che desideravo: essere spostato all’ultimo banco dove raramente la maestra arrivava.
Fui promosso in seconda elementare senza grandi meriti, anzi: spesso scappavo da scuola per raggiungere i campetti da calcio dove la libertà era a portata di mano. L’anno dopo, però, venni bocciato perché ancora non avevo imparato né a leggere né a scrivere. I miei genitori decisero perciò di mandarmi in un istituto privato, la scuola Barbato, dove gli insegnanti erano ben presenti e ti seguivano. L’italiano non mi è mai entrato nella testa, e ancora oggi faccio a botte con il condizionale e il congiuntivo, ma ero bravo in matematica e in geografia. Diventai in breve tempo un bambino modello, venivo portato nelle altre aule dove tutti provavano a farmi risolvere divisioni a due cifre e puntualmente ci riuscivo.
Ma l’istituto Barbato era troppo caro per i miei genitori e così mi dovettero togliere di lì.
Io mi ci ero abituato, e feci il pazzo per restarci. Poi cambiai idea.
Una sera mio padre tornò a casa. Aveva la faccia bianca, e mi nascosi a origliare dietro la porta della camera da letto.
«Salvatore, me pare ’nu cadavere» disse mia madre.
«Mamma mia, Carmela, me so’ sentuto male.»
«Ch’è stato?…»
«Me so’ sentito male perché stavo dentro al bar, avevano appena sfornato delle pizze, ’n’addore… e non avevo i soldi per comprarne una.»
Quell’immagine non me la sono mai tolta dalla testa. Il giorno dopo smisi di fare i capricci e all’istituto Barbato non ci pensai più.
Salvatore Arena, mio padre, il primo di dieci figli, veniva da una famiglia di panzarottari, e se avesse continuato sarebbe stata la sua fortuna. I panzarottari ancora ci sono a Napoli. Negli anni Settanta era un lavoro che ti permetteva di vivere bene, negli anni Ottanta diventò un vero business di strada: tipo friggitoria ambulante, li vedevi girare con una grande pentola da cui tiravano fuori i crocchè di patate bollenti. Invece mio padre voleva fare il salto, ma non gli è mai riuscito e quindi si arrangiava come poteva. L’attività che ci permetteva di campare divenne allora quella del contrabbando di sigarette. Mio padre faceva lo scafista, che però era un lavoro stagionale e in inverno c’era la carestia. Non arrivavano le navi e nemmeno i carichi di sigarette. E quindi nemmeno il lavoro.
Ecco perché la passione per la chitarra e per il ballo, che avevo fin da bambino, me la tenevo per me. Non potendo prendere lezioni di musica, entravo nel bar di fronte a casa, mi avvicinavo al jukebox, sceglievo la mia canzone preferita e chiudevo gli occhi: le dita si piegavano, iniziavano a muoversi all’impazzata sulle corde di una chitarra inesistente e mi molleggiavo sulle gambe. Non sapendo l’inglese, premevo direttamente il numero 7 del jukebox. Furono urla quando un giorno quel tasto non corrispose alla mia canzone. Fu come aver perso per sempre la possibilità di essere felice. Gennarino, il proprietario, mi spiegò che il tecnico aveva forse manomesso qualcosa. Non me ne sarei andato di lì senza aver riascoltato la mia canzone, e Gennarino mi conosceva bene. Si mise di santa pazienza e me la ritrovò. Su quelle note ballavo, infischiandomene di quelli che mi guardavano, perché il ritmo mi entrava dentro. Tutto accadeva in uno spazio piccolo, stretto, ma oggi posso dire che quella sensazione era libertà.
Non volevo tornare nella mia vecchia scuola. Lì gli insegnanti erano dei fantasmi, e i ragazzini con la testa calda come me venivano lasciati a se stessi. Invece in terza elementare incontrai la maestra De Vivo. Non fu amore a prima vista. Pretendeva cose impossibili da me: che alzassi la mano se dovevo chiedere di andare in bagno, che mi mettessi il grembiule, che stessi zitto e in fila, che parlassi in italiano, persino fuori dalla scuola. «Ma signori’» le dicevo, «come faccio, così i miei amici mi sfottono.»
Non era un problema solo mio: in corso Sirena, nessun ragazzino si sarebbe mai azzardato a parlare in italiano perché sarebbe diventato lo zimbello di tutti.
In certe zone, come quella in cui sono vissuto io, a Barra, ci sarebbe sempre bisogno di un esercito di maestre De Vivo. Anche oggi.
Lei era capace di venire fino a casa quando non mi vedeva arrivare a scuola. Perciò mi sono appassionato allo studio quando era la mia maestra. E quel poco che so, lo devo a lei.
Una volta mi ammalai davvero e mi assentai per diversi giorni. Lei venne fino a casa e mi trovò a letto con la febbre. Appoggiò la mano nodosa sulla mia fronte e col suo tono fermo mi disse: «Arena, sono contenta che non hai marinato la scuola. Ti voglio rivedere presto. La classe non è la stessa senza di te».
Quel giorno memorizzai le capitali d’Europa, le so ancora tutte. Al mio ritorno in classe feci un figurone.
Forse la maestra De Vivo veniva a casa mia anche per vedere quali erano le mie condizioni di vita. Appartenevo a una famiglia disagiata, questo lo sapevo, soprattutto quando entravo in casa degli altri compagni di scuola.
Però c’era anche chi stava peggio di me. Una volta nel mio palazzo organizzammo una colletta per una famiglia che non aveva più soldi perché erano tanti di loro e il padre, l’unico a lavorare, era disoccupato da mesi. Chi gli portava il pranzo, chi la cena, chi gli faceva la spesa, chi smistava un po’ di vestiti, insomma venne coinvolto tutto un condominio.
La maestra De Vivo era un vulcano di idee. Per appassionarci allo studio, faceva teatro con la storia e anche la geografia. Di volta in volta, ognuno di noi diventava un personaggio storico, un imperatore, un faraone, o una regione d’Italia.
Un giorno, per capire qualcosa in più di noi, ci chiese quale animale volevamo essere.
«Un leone» urlai io. «È coraggioso. È il più forte di tutti perché non ha paura.» Ancora non sapevo che da grande proprio la paura mi avrebbe salvato la vita più di una volta.
In quinta elementare la maestra De Vivo organizzò una specie di musical ispirato alla famosa canzone di Pippo Franco Mi scappa la pipì, papà. Con dei tempi che solo oggi posso definire «giusti», come si dice nel gergo teatrale, ruppi le fila del coro, mi feci largo tra il pubblico e sempre correndo afferrai un bicchiere e dissi al bambino che stava cantando: «Se ti scappa, falla qui». Fu un’improvvisazione, la mia prima esibizione teatrale. Mai avrei immaginato che proprio quella – e non le rapine – era la mia vocazione.
Non è vero che siamo tutti uguali e a tutti vengono date uguali possibilità. Ci sono luoghi in cui il sole non batte e tu ci impieghi una vita di sbagli a trovarlo.
Alla fine della scuola elementare, andai a trovare la maestra De Vivo. Da Barra presi il tram numero 4 che si faceva tutto il giro della città e arrivava sul lungomare, a piazza Vittoria, dove viveva la gente perbene. Non se l’aspettava, la maestra. Mi accolse nella sua bella casa, sul terrazzo che dava sul golfo, e suo marito mi offrì dei dolcetti. Lui era la «copia sbagliata» di lei: magro, alto, con i baffetti all’insù, come un uomo di altri tempi. La De Vivo mi ricordava invece un personaggio dello spettacolo.
«Signori’, voi assomigliate tanto a Gianfranco D’Angelo, ma siete sua sorella?»
E lei: «Arena, ma che dici… Piuttosto perché sei venuto fin qui?».
«Vi volevo ringraziare. Mi avete voluto bene, anche se l’italiano ancora non lo so.»
«Gliel’hai detto ai tuoi che sei venuto qui? Sei ancora piccolo, e Barra è lontana.»
«Sì, sì, certo signori’. Mo però devo andare.»
«Mi raccomando. Studia adesso che vai alle medie.»
«Certo, certo.»
La salutai e feci le scale di quei cinque piani con una tale velocità che mi pareva di volare. Avevo concluso quella visita con due bugie: nessuno sapeva che ero andato dalla maestra, e le medie non le avrei frequentate.
2
L’infanzia in certi posti
Mio padre e mia madre si erano conosciuti in una fabbrica di scarpe. Ogni giorno uscivano con le mani piene di una colla che nessun solvente riusciva a togliere. Quella colla aveva un odore così penetrante da rimanere addosso. Avevano in comune una famiglia numerosa e una certa dose di miseria di cui, soprattutto mio padre, voleva sbarazzarsi.
Mio nonno paterno era stato stroncato da un infarto, ancora giovane. Però finché era stato in vita non gli aveva mai fatto mancare nulla. Di mattina partiva con la sua Fiat Bianchina per consegnare le mozzarelle nelle salumerie di Barra e di altre zone lì vicino, mentre durante il giorno andava in giro con la sua cucina ambulante di panzarottaro. Mio padre, ancora bambino, lo accompagnava per farsi conoscere dai clienti. Fu costretto a crescere in fretta perché, quando mio nonno morì, dovette portare avanti lui tutta la famiglia, composta da dieci figli, tra fratelli e sorelle.
Mia madre Carmela, invece, era la prima di nove figlie femmine, tutte da sposare. In poche parole, una rovina. Iniziò a lavorare da ragazzina proprio nella fabbrica di scarpe in cui conobbe mio padre. Con le sorelle, la sera, mangiavano quasi sempre la zuppa di fagioli, un pasto semplice ma che dava energia. La mattina con il sugo rimasto ci bagnavano il pan...