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In questa sera di luglio, che non è una sera come le altre, la pioggia se ne sta nascosta in un angolo per lasciare spazio al manto scuro del cielo punteggiato di stelle e sgombro delle nuvole pigre che rovesciano lacrime su altre parti della città. La brezza soffia leggera, giocando come un ragazzino tra gli alberi del giardino di una vistosa casa blu assopita nel caldo e nel silenzio.
In questa sera tranquilla, un rumore insistente rimbomba nel quartiere di Coyoacán. Sono gli zoccoli di un cavallo che trotta sul selciato. L’eco risuona in ogni angolo, tra le case dai tetti alti, avvisando gli abitanti che un misterioso visitatore è arrivato.
Spinta dalla curiosità, poiché dopotutto Città del Messico è una città moderna, lontana dall’immagine che danno di lei i racconti e le leggende popolari, la gente di Coyoacán interrompe la cena per spiare la strada da dietro le porte socchiuse, e ciò che vede è un uomo a cavallo che va al passo, lasciando dietro di sé una corrente d’aria «come quelle dei morti o dei fantasmi». Un cane randagio abbaia, ma il cavallo bianco non si spaventa, e non si spaventa il cavaliere severo che lo monta e che indossa una giacca di cuoio marrone con due cartucciere incrociate sul petto. Porta un sombrero enorme, che sembra la cupola di una chiesa.
Nell’oscurità che lo avvolge si scorgono soltanto i suoi occhi guizzanti e i baffi folti, più lunghi della bocca. Al suo passaggio i vecchi sprangano le porte a doppia mandata, tirano il chiavistello e posizionano la sbarra, memori dei tempi della Rivoluzione, quando uomini come lui recavano con sé devastazione e rovina.
Il cavaliere si ferma all’angolo con calle de Londres, davanti alla casa blu cobalto con le grandi finestre che sembrano occhi giganteschi. Il cavallo è inquieto, ma si tranquillizza non appena il forestiero, smontato di sella, gli dà dei colpetti affettuosi sul collo. Il forestiero si sistema il cappello e le cartucciere, raggiunge il portone e tira la corda del campanello. Subito si accende una luce e l’entrata si illumina, rivelando un esercito di insetti ronzanti di disperazione intorno alla lampada appesa al muro. Quando Chucho, l’indispensabile servo di ogni casa che si rispetti, sporge la testa per vedere chi è, l’uomo lo fissa e avanza di un passo. Tremando, il servo si fa diverse volte il segno della croce, sussurra tra sé e sé un’avemaria e si fa da parte. Senza dire niente, il forestiero attraversa l’atrio ed entra in un salone delle meraviglie. Ci sono mobili fatti a mano, piante esotiche, statuette di divinità precolombiane. In questa casa fatta di contrasti convivono oggetti intrisi di dolore, ricordi di momenti gioiosi, ombre di sogni mai realizzati. Ogni cosa parla dell’universo intimo della sua proprietaria, che sta aspettando l’ospite in camera da letto.
L’uomo percorre le stanze con la disinvoltura di chi le conosce bene. Si imbatte in un enorme Giuda di cartone, con grandi baffi da panettiere, che non è stato distrutto la domenica di Pasqua ma si è dovuto rassegnare a fare da modello per un quadro; passa davanti a teschi di zucchero che gli rivolgono il loro eterno sorriso dolciastro; si lascia alle spalle le statuette azteche decorate con simboli funerari e la collezione di libri imbevuti di idee rivoluzionarie; supera la sala che ha visto riuniti artisti visionari e uomini che hanno cambiato le sorti del mondo, non si ferma a guardare le vecchie fotografie di famiglia degli inquilini precedenti, né i quadri policromi che sfavillano come un arcobaleno ubriaco dei vapori del mezcal; infine, arriva alla cucina con i mobili di legno, che ha nostalgia delle risate facili e delle riunioni rumorose.
La Casa Azul è un luogo in cui gli amici e i conoscenti sono ricevuti con gioia, e il cavaliere è una vecchia conoscenza della padrona, per questo Eulalia, la cuoca, non appena lo vede corre nella cucina piastrellata con straordinarie mattonelle di Talavera per preparare qualcosa da mangiare e da bere. La Casa Azul non è una semplice casa ma un santuario, è il rifugio e l’altare della sua padrona. La Casa Azul è Frida. Lei vi custodisce i ricordi del suo passaggio nella vita, nelle sue stanze i ritratti di Lenin e di Mao condividono lo spazio con riproduzioni su legno della Vergine di Guadalupe. Nella camera di Frida ci sono la sua collezione di bambole di porcellana uscite indenni da più di una battaglia, semplici carretti di legno color cremisi, orecchini cubisti a forma di mano, ex voto d’argento propiziatori dei favori di qualche santo. Tutte queste cose raccontano i desideri dimenticati di una donna condannata a vivere inchiodata a un letto. Frida la santa patrona della malinconia, Frida la donna della passione, Frida la pittrice dell’agonia costretta all’immobilità, con lo sguardo sempre fisso sugli specchi che, in silenzio, litigano tra loro per restituirle l’immagine più bella.
Il più inclemente è lo specchio collocato sul soffitto sopra il letto, dal quale lei non può fuggire.
Quando il forestiero entra nella stanza, Frida volta il viso sofferente e i loro sguardi si incrociano. Lei è smagrita, debole, stanca, appare molto più vecchia del mezzo secolo che ha vissuto. La luce nei suoi occhi color caffè è spenta, annebbiata dalla droga che si inietta per placare i dolori e dalla tequila che beve per affogare l’amarezza. Quegli occhi, che mentre Frida parlava di arte, di politica e d’amore brillavano come fiamme ardenti, ora sono braci pallide sul punto di freddarsi. Si muove appena, perché il busto ortopedico fa di lei una prigioniera; solo una gamba si rigira nervosa, in cerca della compagna che è stata amputata pochi mesi prima. Osserva il suo ospite, ricordando i loro precedenti incontri. Lo stava aspettando, con disperazione. Quando la stanza viene invasa da un odore di terra umida, capisce che finalmente il Messaggero ha risposto alla sua chiamata.
L’uomo rimane in piedi, vicino al letto, fissa lo sguardo sfolgorante sul corpo fragile e devastato della pittrice. Non si salutano, perché tra vecchi amici non è necessario; Frida si limita a sollevare la testa per chiedergli come vanno le cose dalle sue parti, lui si tocca la tesa del sombrero con un gesto che significa che tutto va per il meglio. Dopodiché Frida chiama Eulalia perché venga a servire l’ospite, e la voce le esce troppo alta, insofferente, aspra come succo di limone.
Quando Eulalia arriva, regge tra le mani un vassoio dipinto a fiori con sopra una tovaglietta ricamata; ha disposto dei petali di rosa bianca a formare la parola lei. Appoggia sul comodino un vassoio più piccolo con la bottiglia di tequila e gli stuzzichini per il forestiero.
Versa la tequila in due bicchieri di cristallo soffiato, blu come le pareti della casa, e serve le sangritas; accanto ai bicchieri posa la ciotolina con il pico de gallo, il piattino con il panela e un limone tagliato in quattro. Prima ancora che gli spicchi gialli a forma di sorriso smettano di dondolare, Eulalia è già sparita.
La presenza dell’estraneo a un’ora così tarda le ha fatto venire i brividi. Nell’altra stanza, giura al resto della servitù che il corpo del forestiero non proietta ombre sulle pareti. Perciò, come il servo Chucho, si mette a recitare le avemarie e i padrenostri necessari ad allontanare il malocchio.
Frida prende il bicchiere, e un po’ per mitigare le fitte di dolore che la trafiggono, un po’ per tenere compagnia al suo ospite, lo svuota d’un fiato. Anche il Messaggero beve, ma non assaggia la sangrita, ed è un peccato, perché la sangrita è stata preparata seguendo la ricetta che Lupe, la prima moglie di Diego, ha insegnato a Frida. Frida si versa un altro bicchiere di tequila, l’ultimo della sua vita.
Dice: «Ti ho chiamato per portare un messaggio alla mia Madrina. Desidero spostare il nostro appuntamento. Quest’anno non ci saranno offerte. Voglio che venga domani. Dille che spero che il viaggio sia gioioso, e che questa volta non voglio tornare».
Rimane in silenzio per dare tempo al Messaggero di rispondere, ma come sempre non c’è risposta. I suoi occhi, affamati di terra e libertà, sono fissi su di lei. Il Messaggero beve ciò che resta della tequila in segno di solidarietà, poggia il bicchiere, si gira ed esce dalla stanza accompagnato dal tintinnio degli speroni, lasciandola con la vita e le ossa in pezzi. Attraversa il patio con falcate da caporale, passando dal giardino e spaventando i pappagalli, i cani e le piccole scimmie. Chucho lo sta aspettando all’ingresso con il portone aperto. Il Messaggero lo saluta con un brusco gesto del capo, il servo si fa più segni della croce di una vedova la domenica. Quello monta sul suo cavallo bianco e sparisce nella notte nera.
Al rumore degli zoccoli che si allontanano, seguiti da una ventata di aria gelida, Frida stringe tra le dita il pennello intinto nell’inchiostro nero e scrive con fatica una frase nel suo piccolo quaderno; disegna una fila di angeli scuri e finisce il disegno con le lacrime agli occhi. Chiude il quaderno e chiama di nuovo la cuoca, mentre dal cassetto del comodino tira fuori un piccolo taccuino con la copertina nera rovinata, un vecchio ricordo dei giorni sereni, quando aveva ancora la forza di sognare. Sorride al ricordo della sua amica Tina. Lo apre alla prima pagina e legge, muovendo appena le labbra: «Abbi il coraggio di vivere, perché chiunque può morire». Poi inizia a sfogliarlo; lentamente, con la cura di un bibliofilo che tiene in mano una Bibbia scritta su pergamena. Ogni pagina custodisce un tesoro, pezzi di giorni sparsi tra cibo e pensieri. Lei lo chiama Il libro dell’erba santa, perché ci ha scritto le ricette che usa per l’altare del giorno dei morti, che prepara ogni novembre per onorare una promessa fatta molti anni prima. Cerca tra le pagine profumate di cannella, di pepe e di erba santa, fino a quando trova la ricetta, e allora chiama ancora Eulalia.
«Ti affido un compito molto importante, Eulalia. Domani devi cucinare questo piatto. Esci presto, vai al mercato e compra quello che ti serve. Voglio che ti riesca bene, da leccarsi le dita.» Fa una pausa per respingere l’angoscia, perché sa che la vita sta scivolando via. Poi ricomincia a dare ordini: «Dopo che il gallo ha cantato lo prendi, lo ammazzi e lo cucini in umido».
«Piccola Frida, vuoi ammazzare sul serio il povero signor Chicchiricchì?» le chiede la cuoca. «Ma gli vuoi bene! Lo coccoli sempre come se fosse il tuo bambino.»
Frida non si cura di risponderle. Si volta semplicemente dall’altra parte e chiude gli occhi, per cercare di dormire. Eulalia esce dalla stanza con il taccuino stretto al petto.
Nel letto che è la sua prigione, Frida sogna tavolate di amici, teschi di zucchero e quadri. Quando si sveglia, Eulalia non c’è più. La casa è immersa nel silenzio. Frida inizia a dubitare della visita del Messaggero, anzi si domanda se tutta la sua vita non sia stata altro che un brutto scherzo, un’allucinazione dovuta alle medicine. Ma capisce che invece è tutto vero. Allora scoppia a piangere di rabbia, fino a che il sonno torna a cullarla, allontanandola ancora una volta dalla realtà.
Diego torna da San Ángel qualche ora più tardi. La trova addormentata, in volto la smorfia di dolore che gli è familiare. Gli sembra strano vedere sul comodino una bottiglia di tequila consumata per metà e due bicchieri; e ancora più strano perché i domestici assicurano che la padrona non ha ricevuto visite. Avvicina la sedia a dondolo accanto al letto di sua moglie e si siede. Le prende la mano con delicatezza, come se fosse di porcellana, e la accarezza piano, sperando di non farle male. Mentre la guarda, ricorda il fuoco che un tempo infiammava il suo corpo minuto. Rivede i suoi seni bianchi, squisiti, piccoli come pesche, e le sue natiche tonde, e piange per lunghi minuti perché ora sua moglie è un giocattolo rotto. Il sonno lo coglie mentre sussurra: «La mia Frida… la mia piccola Frida…».
L’indomani, dopo che il signor Chicchiricchì ha annunciato l’alba, come fa prodigiosamente da più di ventidue anni, gli torcono il collo e lo mettono in padella. Ma Frida non ne gusta il sapore.
Il referto medico dichiara che la morte è sopraggiunta per una complicazione respiratoria. Grazie alle sue conoscenze, Diego riesce a evitare che venga eseguita l’autopsia.
Le ultime parole che Frida scrive sul suo quaderno sono queste: «Spero che il viaggio sia gioioso, e stavolta spero di non tornare».
IL MESSAGGERO
Una volta disse: «Chi vuole essere un’aquila, voli; chi vuole essere un verme, strisci, però non si metta a gridare se lo schiaccio». Non lo disse a me. Non so a chi lo disse, ma di sicuro lo disse. Bisogna offrirgli tequila, sangrita e qualcosa da mangiare, perché quando arriva, dopo il lungo viaggio, è sicuramente stanco. Anch’io ne avrei fin sopra i capelli di cavalcare sempre come fa lui.
Pico de gallo
Lupe, un giorno che era di buon umore, mi disse che nello Stato di Jalisco un bicchiere di tequila con il pico de gallo era assolutamente indispensabile per il rituale che precedeva i pasti. Nel suo paese, gli uomini di ritorno dal lavoro nei campi si sedevano all’ombra, sulle poltrone del portico, e mangiavano frutta matura e panela sorseggiando tequila.
2 jícamas,1 4 arance grandi e succose, 3 cetrioli, mezzo ananas, 3 manghi acerbi, 1 xoconostle,2 1 manciata di cipolline, 6 limoni, 4 peperoncini verdi, sale grosso.
Sminuzzo in modo uniforme le jícamas pelate, le arance, i cetrioli sbucciati, l’ananas, le cipolline, i manghi e il fico d’India. Condisco il tutto con il succo dei limoni, i peperoncini spezzettati e una cucchiaiata di sale (si può insaporire anche solo con limone e peperoncino in polvere). Per un tocco in più aggiungo chicchi di melagrana, così il piatto prende i colori della bandiera messicana e l’effetto è assicurato!
Panela al forno
Il panela, che viene dalla terra della tequila, è un formaggio fresco molto gustoso, diverso da quello che compro qui. A volte, quando tornava dai suoi viaggi, Lupe me ne portava di molto buoni.
1 panela, 1 spicchio d’aglio grande, un quarto di tazza di foglie di coriandolo, un quarto di tazza di foglie di prezzemolo, un quarto di tazza di foglie di basilico, 1 cucchiaio di origano fresco, mezza tazza di olio d’oliva, sale e pepe nero appena macinato.
Metto il panela in una casseruola di terracotta e lo cospargo con una salsa preparata tritando finemente lo spicchio d’aglio e il resto degli ingredienti. Aggiungo sale e pepe e lascio insaporire per sei ore in un luogo fresco, nel patio o su un davanzale, facendo attenzione che non lo mangino le scimmie. Poi passo in forno a 180 gradi per venti minuti, o fin quando il formaggio inizia a sciogliersi. Questo piatto va servito caldo, insieme al pane tostato tagliato a fette. È perfetto per l’aperitivo.
Sangrita
Questa ricetta l’ho avuta durante un viaggio con Muray. Fu quando mi insegnò che la tequila va bevuta insieme a una bevanda agrodolce. A me la tequila piace pura, come agli uomini, e l’ho sempre usata per fare colpo sui gringos che vengono a trovare Diego.
2 peperoncini essiccati, 2 cu...