Per questo ho vissuto
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Per questo ho vissuto

La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Per questo ho vissuto

La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili

Informazioni su questo libro

'Quel giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La notte mi addormentai come un ebreo."Come tanti sopravvissuti alla Shoah, per molti anni Sami Modiano è rimasto in silenzio. In che modo dare voce al dolore di un'adolescenza bruciata, di una famiglia dissolta, di un'intera comunità spazzata via? Nato nella Rodi degli anni Trenta, Sami non conosce la lingua dell'odio e della discriminazione. Ma quando le leggi razziali colpiscono la sua terra, all'improvviso si ritrova bollato come "diverso". E a tredici anni, nell'inferno di Auschwitz-Birkenau, vedrà morire familiari e amici fino a rimanere solo al mondo, lottando per la sopravvivenza. Sfuggito al campo di sterminio, Sami riuscirà con caparbietà a costruirsi una nuova vita, ma in lui resterà sempre la determinazione a riappropriarsi delle sue radici, a dispetto di chiunque abbia provato a strapparle. Oggi, a decenni di distanza da quegli orrori, Sami sente di essere sopravvissuto proprio per raccontarli. Lo fa con un libro semplice fino all'asperità, portatore di una lingua universale.Una lingua figlia delle ferite che dividono i popoli e della speranza che li vorrebbe unire.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817071253
eBook ISBN
9788858664339

4

Auschwitz-Birkenau

Il treno si fermò che era mattino e gli uomini si precipitarono a guardare fuori dai finestrini per capire dove fossimo. Io ero troppo piccolo per arrivare in alto e sbirciare il panorama, ma un adulto mi disse che in lontananza non si vedeva altro che qualche baracca, niente di più. Tutti pensavano che dopo un po’ saremmo ripartiti, che quel posto in mezzo al nulla non fosse la nostra destinazione. Era assurdo pensare che avevamo fatto un viaggio così disumano per poi fermarci in un buco sperduto. Non ne vedevamo il senso o non volevamo accettarlo. Eravamo arrivati sulla Rampa di Birkenau.
Si spalancarono i portelloni e davanti a noi si presentò qualcosa di incredibile: una squadra di tedeschi era già pronta a buttarci giù dai vagoni.
La confusione era totale, eravamo in preda al panico. Non potevamo aiutarci, non c’era niente da fare. Gli anziani erano come sacchi di patate: subivano ordini, calci e pugni. Eravamo come animali indifesi, minacciati dai cani pastore. Ognuno di noi cercava di non perdere di vista i propri cari, ma i tedeschi erano preparatissimi: in pochissimo tempo divisero gli uomini dalle donne con una barbarie che non si può immaginare. Noi eravamo sbalorditi da questa cattiveria. I neonati e i bambini piccoli erano lasciati insieme alle madri, nel gruppo delle donne.
Mio papà aveva capito subito che ci stavano separando, allora ci teneva stretti stretti. Ma i tedeschi vennero e cercarono subito di strappare mia sorella Lucia dalle mani di mio padre, che la difendeva con tutte le sue forze. Lo presero a calci e a pugni, finché, poverino, dovette cederla. Non poteva fare altrimenti, non c’era altra possibilità. Io non riuscii a dire niente a Lucia, l’abbracciai, mi abbracciava… Fu uno strappo, un dolore vedere mio papà, poverino… fare tutto quel che poteva, ma invano.
E poi cominciò la selezione. La faceva un medico, ma non era solo, al suo fianco c’era un gruppetto di ufficiali e di sottoufficiali ai quali ogni tanto dava ordini. Se l’arrivo era stato un momento frenetico, di confusione, di pianti e strilli, quello della selezione fu invece un momento di silenzio, assoluto. Noi eravamo in fila, e uno per uno passavamo davanti a questa persona, questo medico di cui non pronuncio il nome, perché non merita che lo faccia. Lo vedevamo fare un semplice gesto con un dito, lanciare un solo sguardo: questi di qua, questi di là, questi di qua, questi di là. Da una parte i giovani, quelli più forti, dall’altra gli anziani, gli ammalati, i deboli, ed erano tanti, molti più dei primi. Con quel semplice gesto, con quel solo sguardo lui decideva chi doveva ancora vivere, per poco, e chi doveva subito morire. Ma in quel momento noi non capivamo. Si può definire una persona questo medico? Neanche un animale fa cose simili. Si può pronunciare il suo nome? Io non lo faccio. Aveva l’autorità di mandare a morte migliaia di persone innocenti in un solo giorno… le ha tutte sulla coscienza. Come poteva andare a dormire la sera? E come avrà potuto dormire dopo la guerra tutti gli anni che ha vissuto?
Prima di noi selezionarono le donne. Le vedevo in fila, mia sorella era con le altre giovani scelte per andare a lavorare. Non riuscivo a staccare lo sguardo da lei.
Poi mi trovai davanti a una scena che i miei occhi non avrebbero mai voluto vedere. Una giovane donna ebrea di Rodi, avrà avuto venti, ventidue anni, che stringeva un neonato fra le braccia, era stata giudicata adatta al lavoro. Le strapparono quella creatura per buttarla dall’altra parte, con le vecchie. Noi non capivamo il perché, e nemmeno quella mamma sapeva che il suo piccolo sarebbe subito finito nelle camere a gas, mentre lei era stata scelta per andare a lavorare. Non capivamo, ma la crudeltà di ciò che stavano facendo a quelle donne era una tortura per tutti. Ancora oggi, quando ritorno sulla Rampa di Birkenau, questa scena la vedo davanti agli occhi. Mi è rimasta dentro, non la posso cancellare. Rivedo ogni volta quella mamma che si dispera, che piange, che strilla… come si può dimenticare?
Alla fine venne il nostro turno. Io ero con mio papà e per la verità non ero stato scelto per andare a lavorare. Fu la tenacia di mio papà a salvarmi la vita. Lui era un uomo di quaranta, quarantacinque anni, alto e abbastanza robusto; mi teneva per mano, dietro di sé, e quando venne scelto per andare a lavorare, nella confusione mi tirò a sé, così sono finito insieme a quelli selezionati per il lavoro. I miei cugini, più grandi di me di due anni, sono andati a finire dall’altra parte. Magari erano un po’ più mingherlini, io invece ero più robusto, perché prima della deportazione avevo lavorato a Monte Smith con la carriola e la pala, mi ero fatto un po’ di muscoli. Forse dimostravo anche qualche anno in più. Non mi chiesero l’età, guardavano il corpo e basta. Mi chiedo spesso che cosa mi abbia salvato in quel momento, se la volontà di mio padre o la confusione. Forse il Padre Eterno…
Alla fine anche noi uomini ci ritrovammo in due gruppi, uno molto piccolo, il nostro, e uno enorme, che ricevette subito l’ordine di partire. Poi il nostro gruppo fu avviato in una direzione diversa, a destra. Noi dovevamo raggiungere la Sauna, loro andavano al gas, ma nessuno, né loro né noi, si rese conto di quello che stava per succedere.
Stavamo abbandonando la Rampa, ma quel luogo sarebbe rimasto nella mia testa per sempre. Non passa giorno che non la veda.
Camminammo in fila per più di un chilometro. Vedevo delle baracche, poi degli alberi. Mi ricordo di aver notato alcuni canali di scolo con dell’acqua: qualche tempo dopo avrei lavorato per pulirli. Lungo quel percorso c’erano anche due crematori; questo, però, lo seppi in seguito. Quella volta, la prima che facevo quella strada, io non vidi niente, nonostante i camini fossero ben visibili. Alla fine ci fermarono in un piazzale di terra battuta dove c’era un grande edificio: la Sauna, il luogo in cui avveniva l’immatricolazione di tutti i deportati ad Auschwitz scelti sulla Rampa per il lavoro forzato. Eravamo circa trecento, trecentocinquanta uomini, e ci dettero l’ordine di rimanere seduti. Io avevo di fianco mio padre, che mi stringeva sempre, non mi mollava mai. Restammo così per parecchio tempo, perché dentro c’era altra gente. Solo dopo ci accorgemmo che si trattava delle nostre ragazze, quelle di Rodi. Anche loro erano state portate qui.
Quando arrivò il nostro turno di entrare, ci diedero l’ordine di alzarci, di toglierci tutto quello che avevamo addosso e lasciarlo in uno stanzone. Eravamo completamente nudi e provavamo vergogna, anche tra uomini quel pudore era rimasto. Io non avevo mai visto un adulto nudo, ma soprattutto era la prima volta che vedevo mio padre nudo. A Rodi non si usava, erano altri tempi.
Poi passammo in un’altra stanza dove ci tagliarono i capelli e tutti i peli del corpo. Ci rasarono con una macchinetta elettrica, prima la testa, le ascelle e poi l’inguine e via dicendo: dove c’erano peli rasavano. Poi ci passarono delle spugne intrise di disinfettante ovunque, persino negli occhi. Bruciava dappertutto, soprattutto negli occhi e lì dove ci avevano appena rasati. Ero sul punto di piangere, ma mio padre mi fece coraggio e mi aiutò a pulire gli occhi. Ci fecero immergere i piedi in una vaschetta d’acqua con del disinfettante, come si usa oggi prima di entrare in una piscina. Ci obbligarono a fare una doccia molto sbrigativa.
Un attimo dopo ci fecero correre lungo un corridoio. Lì qualcuno ci lanciò un pigiama a righe, un cappello e degli zoccoli. Quelli sarebbero stati i miei vestiti fino al giorno della liberazione. Con tutta quella fretta, le cose venivano distribuite a caso e nessuno riceveva indumenti e calzature della taglia giusta.
Una volta vestiti ci fecero tornare all’aperto, in uno spazio dove avevano messo dei tavoli ai quali sedeva un prigioniero come noi. Era l’ultima procedura dell’immatricolazione: il tatuaggio, che ci venne fatto da quello stesso prigioniero. Mio padre mi teneva ancora per mano, fin qui non mi aveva mai lasciato; mi spinse verso il tavolo dove mise il suo braccio, davanti a me, quasi per farmi vedere come si doveva fare, perché io non provassi paura. Allora io lo imitai, mentre lui aspettava che finissero di tatuarmi. Infatti io ho il numero B7456, mio padre aveva il B7455.
Sempre stando al suo fianco, fummo avviati verso quello che chiamavano Lager A. Birkenau era un campo immenso, ed era diviso in tanti settori. Ogni settore veniva chiamato «Lager» e contrassegnato da una lettera. Il settore in cui avremmo dovuto trascorrere il periodo di quarantena era il Lager A. Per la seconda volta passammo in mezzo a due crematori, ma di nuovo non ci accorgemmo di niente, anche se, questa volta, sentimmo l’odore intenso del fumo. Non potevamo però immaginare cosa stesse bruciando. Appena entrati nel campo di quarantena, ci rendemmo conto di essere arrivati in un posto da cui l’unica via d’uscita era la morte. E questa sensazione iniziale nel corso dei giorni successivi sarebbe diventata una certezza: da Birkenau non si poteva uscire vivi.
Fu in quel momento che mi separarono da mio padre: lo assegnarono alla baracca 15, mentre io dovetti sistemarmi nella 11.
All’interno le baracche erano composte da due file, a destra e a sinistra, di lettini a tre livelli dove si doveva dormire in otto persone per piano: otto al primo, otto al secondo e otto al terzo. Si stava come sardine. Non c’erano materassi, ma solo tavolacci. Al centro c’era una stufetta che doveva riscaldare tutta la baracca, ma era un’impresa impossibile, anche perché era a legna e a un certo momento si spegneva. Mi dettero un posto in un lettino al terzo piano. Capii che il piano a cui ero stato assegnato non era il peggiore: era l’ultimo, perciò meno affollato. Chi stava al centro aveva più difficoltà a muoversi e ad alzarsi. Può darsi che la pensassi così perché ero giovane e agile, quindi potevo salire facilmente, probabilmente per un anziano dormire al mio posto sarebbe stato un incubo.
Ero ancora un bambino di tredici anni e mezzo. Ero solo lì dentro. Era così strano, ma mi dovevo adattare.
Per lavarci e fare i nostri bisogni c’erano le latrine. Dal di fuori, le baracche delle latrine erano uguali a quelle in cui si andava a dormire. All’interno, però, erano divise in due metà. In una facevamo i nostri bisogni: tre lunghissime tavole di cemento con due file di buchi sopra i quali ci sedevamo. In fondo a queste file c’erano dei boccaporti abbastanza grandi che si potevano sollevare per svuotare la latrina.
Nell’altra metà di queste baracche c’erano delle specie di lavatoi, dove cercavamo di tenerci puliti. C’erano dei tubi con dei piccoli buchi da cui scorreva continuamente dell’acqua che finiva in alcuni canaletti.
L’impressione che ho avuto entrandoci la prima volta era quella che dovevamo abituarci. Noi, persone civili, abituate a un’igiene rigorosa, dovevamo abituarci a quello schifo.
Naturalmente non avevamo carta igienica, ognuno si arrangiava come poteva. Io mi ero procurato un panno, lo imbevevo d’acqua e cercavo di pulirmi con quello. Poi lo strizzavo e lo mettevo da parte per un’altra volta. Non era il massimo, ma era l’unico modo per pulirsi.
Ai lavatoi riuscivamo a lavarci un po’ la faccia e i denti, il sapone non c’era, ma quell’acqua non si poteva bere. Se lo facevi, anche per sbaglio, rischiavi una dissenteria che ti avrebbe portato via in un niente. Ce l’avevano detto subito, di non bere quell’acqua. Noi preferivamo prendere la neve e dissetarci con quella. Non avevamo niente per asciugarci, solo il nostro pigiama. Ci si lavava la faccia e il pigiama serviva da asciugamani, serviva per tutto.
In genere ci lavavamo quando andavamo alle latrine, ne approfittavamo per fare entrambe le cose. Potevamo andarci quando volevamo, ma non è che si andasse volentieri: c’era un odore terribile, e si vedevano sempre persone che stavano male, che avevano la dissenteria. Era diventata la malattia del campo, moltissimi ne morivano. Avere la dissenteria era una cosa comune, risaputa, infatti tutti quanti eravamo preoccupati e cercavamo di stare lontani da quel luogo, da quell’acqua pericolosa.
Ma alla fine non potevi farci niente, dovevi accettarlo. Ti mettevi là, in fila, uno dietro l’altro come i cavalli, come le bestie. E ogni volta c’era qualcuno che lì aspettava la fine.
I nazisti avevano stabilito che i deportati appena entrati nel campo trascorressero un periodo di quarantena non per salvaguardare i propri lavoratori, cioè noi, ma per proteggere se stessi: avevano paura che portassimo dentro delle malattie, come il tifo, che avrebbero potuto contagiarli. Andavamo quindi isolati, finché non si capiva che eravamo sani. In caso contrario, per loro era facile risolvere il problema. Che non gli importasse niente di noi era chiaro a tutti, infatti ci misero immediatamente a lavorare, altro che quarantena…
Entrammo subito nel ciclo del lavoro. Era durissimo, dodici ore al giorno: si partiva alle sei del mattino e si rientrava alle sei di sera.
La nostra giornata si svolgeva così: ci svegliavamo alle quattro del mattino per poi disporci in fila per cinque, allineati fuori dalla baracca. Lì restavamo in piedi anche per un paio d’ore, per un inutile e sfibrante appello. Si doveva stare immobili, con i nostri pigiami e cappelli a righe, in attesa che chiamassero il nostro numero. Io il tedesco non lo sapevo, quindi non avevo la minima idea di come si pronunciasse quel numero. Per fortuna c’era sempre qualcuno che mi avvisava quando venivo chiamato e allora rispondevo prontamente «Jawohl!».
I primi giorni ci spiegarono come comportarci: l’unica legge è che si doveva fare quello che volevano loro, e l’unica persona a noi vicina che incarnava ogni loro desiderio era il Kapo. Se nella tua baracca avevi un Kapo umano, potevi anche sgranchirti un po’ durante l’appello. Se il tuo Kapo era un mostro, venivi punito anche se respiravi.
Alle sei del mattino i tedeschi ci consegnavano ai Kapo che venivano a prenderci per andare a lavorare. Erano sempre loro a gestire la manodopera, a meno che non si dovesse sbrigare qualche faccenda fuori dal campo. In quel caso erano i tedeschi a scortarci, perché in fin dei conti il Kapo era un prigioniero come noi.
Quando c’era da tagliare la legna, per esempio, erano i tedeschi a tenerci sott’occhio. Erano armati e avevano sempre i loro temibili cani pastore.
Ci guidavano nelle foreste dei dintorni, facendoci trainare un carro a quattro ruote. Eravamo in venti a tirare come muli, con davanti due persone a direzionare il carro.
Arrivati nella foresta c’erano altri prigionieri che tagliavano la legna che poi noi caricavamo in fretta e furia sul carro per portarla al campo. Portare il carro era molto faticoso, facevamo tanta fatica a spingerlo, soprattutto quando pioveva, ma non ci si poteva fermare, nemmeno un secondo. Facevamo avanti e indietro tutto il giorno, fino alle sei di sera. Era terribile anche non poter parlare con gli altri prigionieri: in quarantena, infatti, non mi è mai capitato di lavorare con altri prigionieri greci o italiani. Non conoscevo la lingua di chi mi stava vicino e riuscivo a comunicare solo attraverso i gesti.
Scaricavamo la legna davanti ai forni crematori, dove c’erano altri lavoratori che avevano il compito di portarla dentro.
Tutta quella legna serviva per le fosse comuni, dove bruciavano i cadaveri. Lo sapevano tutti. Nel giro di pochi giorni anche noi, gli ultimi arrivati, ci siamo resi conto che era quella la nostra realtà… anche io, che ero solo un bambino, ci ero arrivato.
Da subito avevamo cominciato a capire che c’era qualcosa di anormale e abbiamo iniziato a chiedere a destra e a sinistra, a quelli più anziani di noi, soprattutto a quelli che erano stati deportati prima di noi, che conoscevano bene il campo e i suoi segreti. Ricordo che la prima volta che abbiamo chiesto dove fossero stati alloggiati tutti quelli che provenivano dall’isola di Rodi, la risposta ci ghiacciò il sangue: «Sono stati uccisi col gas e passati per il camino, o bruciati nelle fosse. Quel fumo sono le anime dei vostri cari».
Ci abbiamo creduto, perché quel fumo si sentiva, e l’aria portava per tutto il campo l’odore di carne bruciata. Le persone che ce lo dicevano sembravano sincere.
A dir la verità, io personalmente non chiesi mai che fine avessero fatto gli altri; queste domande le facevano i grandi. Io ero un bambino, ascoltavo e seguivo le conversazioni tra gli adulti, molti dei quali hanno pianto per le sorelle, le madri, i nonni.
Fu una doccia fredda per tutti quanti noi. Dalla parte di mio padre non c’era una famiglia molto grande, solo quella di mia cugina Lucia, mio cugino, mia zia e mio zio. Dalla parte di mia madre c’erano invece parecchie persone. Avevo molti cugini della mia stessa età o di qualche anno più grandi, una cugina sposata da poco, Ricuccia, con una bambina appena nata… tutti quanti alle camere a gas. Ricuccia aveva sposato un Cordoval, Jack Cordoval; lui non aveva un fisico adatto al lavoro, lei con la bambina ancora in grembo… nessuno dei due serviva all’ufficiale medico della Rampa.
Ecco che fine avevano fatto i nostri fratelli più deboli, i piccoli, gli anziani. Uccisi col gas, bruciati con la legna che noi stessi raccoglievamo, o andati in fumo e volati via attraverso una ciminiera. Era quello l’unico modo per lasciare Birkenau.
Per quasi tutte le altre mansioni nel campo, eravamo controllati dai Kapo. Alcuni di loro erano ebrei greci di Salonicco, ma nella maggioranza dei casi erano prigionieri politici polacchi. La nazionalità però non faceva grande differenza: con loro non si poteva neanche scambiare una parola. Abitavano con noi, uno per baracca, in un angolo a sinistra subito dopo l’entrata. Erano prigionieri come noi, vivevano con noi, ma la loro vita era profondamente diversa dalla nostra. Dormivano in buoni letti, mangiavano bene, erano in salute. E molti di loro avevano conquistato queste comodità grazie alla malvagità. Facevano a gara per mostrarsi crudeli con noi davanti agli occhi dei loro padroni, perché in quel modo si guadagnavano il loro rispetto e qualche favore. Più erano cattivi e più stavano bene. Noi avevamo pochissimi contatti con loro, non li vedevamo neanche mangiare né li incontravamo, nemmeno nelle latrine.
Rientrati dal lavoro, verso le sei di sera, in quarantena ci davano un chilo di pane da dividere in otto persone. Era un rito con regole molto precise. Il responsabile della baracca tagliava la pagnotta a metà e la consegnava a due gruppi di quattro prigionieri, che a loro volta tagliavano il pezzo di pane in quattro parti uguali. Ne veniva fuori una fettina di più o meno centoventicinque grammi a testa. Qualche volta, ma molto raramente, ci aggiungevano un pezzettino di margarina. Poi ci davano una brodaglia che loro chiamavano minestra ma che era poco più che una ciotola d’acqua sporca nella quale, se proprio eri fortunato, galleggiava un pezzettino di rapa o di qualche altra cosa. Quando succedeva, andavi a dormire un po’ più contento: nella scarsità più totale, era qualcosa. Questo pasto mise...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. L’isola delle rose
  6. L’inizio della fine
  7. La deportazione
  8. Auschwitz-Birkenau
  9. Il ritorno alla vita
  10. Il gruppo dei dieci
  11. Partenze e ritorni
  12. Perché proprio io?
  13. Epilogo
  14. Note
  15. Indice