L'idiota
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L'idiota

Fëdor Michajlovi Dostoevskij

  1. 791 pagine
  2. Italian
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L'idiota

Fëdor Michajlovi Dostoevskij

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Il principe Myškin, dopo gli anni trascorsi in una clinica svizzera, rientra in Russia. Sul treno che lo porta a Pietroburgo, conosce il rozzo Rogožin. Questi, invaghitosi della splendida Nastas'ja Filippovna, cerca di conquistarla col denaro appena ereditato. La giovane, sedotta in passato dal suo tutore e tormentata dal suo stato di donna "perduta", è oggetto delle ambivalenti attenzioni di tutti, compresa Aglaja, avvenente ragazza da marito, altrettanto insofferente del suo ruolo. Myškin, grazie alla sua anomala ingenuità e alla disarmante mitezza, le conquista entrambe, divenendo oggetto di contesa. Egli, tuttavia, pare ossessionato soprattutto da Rogožin, a cui lo vincola uno strano sentimento. Le relazioni paradossali che si intrecciano nel romanzo costituiscono uno spettacolare affresco della complessità e incongruenza dei comportamenti umani.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858661710

PARTE PRIMA

I

Alla fine di novembre, con la neve che si scioglieva, verso le nove del mattino, il treno della linea Pietroburgo-Varsavia a tutto vapore si avvicinava a Pietroburgo. Umidità e nebbia erano tali che a fatica si era fatto giorno. Dal finestrino del treno, sia a destra, sia a sinistra, a una decina di passi dai binari non si riusciva a distinguere niente. Alcuni dei passeggeri stavano rientrando dall’estero, ma erano affollate soprattutto le carrozze di terza classe e soltanto da gente di poco conto, che arrivava per affari da non molto lontano. Tutti, comprensibilmente, erano stanchi, intirizziti, avevano gli occhi appesantiti dalla notte e il viso di un pallore ingiallito, in sintonia con la nebbia.
Fin dall’alba, in una delle carrozze di terza classe, due passeggeri si erano ritrovati al finestrino, uno di fronte all’altro: entrambi giovani, entrambi praticamente senza bagaglio, entrambi vestiti in modo poco raffinato, entrambi con un viso piuttosto interessante ed entrambi desiderosi, finalmente, di mettersi a parlare. Se avessero saputo, l’uno dell’altro, cosa in quel preciso momento li rendesse interessanti, si sarebbero certamente stupiti che il caso li avesse messi a sedere uno di fronte all’altro in una carrozza di terza classe del treno Varsavia-Pietroburgo. Il primo dei due era di bassa statura, sui ventisette anni, con capelli ricci, praticamente neri, e due ardenti occhietti grigi. Aveva il naso largo e schiacciato, gli zigomi pronunciati; le labbra sottili assumevano di continuo una sorta di sorrisetto sfrontato e ironico, quasi malvagio, ma la fronte era alta, ben disegnata e ingentiliva la parte inferiore del viso, grossolanamente pronunciata. Su quel volto risaltava in modo particolare un pallore mortale che, nonostante la notevole robustezza, conferiva all’intero viso del giovane un’aria emaciata e al contempo una sorta di passionalità fin quasi dolorosa che mal si accordava con il rozzo sorriso sfrontato e con lo sguardo pungente e compiaciuto. Portava vestiti pesanti e un ampio giaccone nero foderato di montone, per cui quella notte non aveva avuto freddo; il suo vicino, invece, aveva dovuto reggere sulla propria schiena intirizzita tutta la dolcezza dell’umida notte russa di novembre, cui evidentemente non era preparato. Portava un impermeabile ampio e pesante, smanicato e con un cappuccio enorme, esattamente come quelli che d’inverno, in paesi lontani come la Svizzera o l’Italia settentrionale, i viaggiatori usano spesso, senza certo pensare di dover affrontare tratte così lunghe come da Eydtkuhnen a Pietroburgo. Ma quello che in Italia andava bene e poteva bastare, in Russia si era rivelato piuttosto inadeguato. Il proprietario dell’impermeabile con cappuccio era un giovane, sempre sui ventisei-ventisette anni, di statura lievemente superiore alla norma, dai capelli folti e biondissimi, con guance infossate e una rada barbetta appuntita, quasi completamente bianca. Aveva occhi grandi, azzurri e acuti, nel cui sguardo c’era una sorta di pacatezza, ma anche di gravità, che in tutto alimentava quell’espressione strana da cui alcuni intuiscono al primo sguardo la presenza del mal caduco. Il viso del giovane era comunque piacevole, sottile e asciutto, ma incolore e ormai persino illividito dal freddo. Si rigirava tra le mani un esiguo fagotto, una tela vecchia e stinta che, a quanto pareva, racchiudeva tutto il necessario per il viaggio. Ai piedi portava scarpe dalle suole spesse, con le ghette: cose, queste, che in Russia non si usano. Il vicino con i capelli neri e il giaccone di montone, non avendo in parte altro da fare, aveva notato tutto e, alla fine, col sorrisetto indiscreto con cui talvolta, in modo sfacciato e distratto, si esprime l’umana soddisfazione di fronte alle disgrazie altrui, domandò:
«Freddo?».
E scrollò le spalle.
«Molto,» rispose il vicino con estrema prontezza «e considerate che ora siamo sopra lo zero. Ma se scendessimo sotto zero? Non avrei mai pensato che da noi in Russia facesse così freddo. Mi sono disabituato.»
«Perché, venite dall’estero?»
«Sì, dalla Svizzera.»
«Però, ma bravo!…»
E il giovane dai capelli neri fece un fischio e una risatina.
Cominciarono a parlare. Era sorprendente la disponibilità con cui il giovane biondo con l’impermeabile svizzero rispondeva a tutti i quesiti del vicino dai capelli neri, senza minimamente sospettare la totale irriverenza, indiscrezione e pretestuosità di certe domande. Rispondendo, dichiarò tra l’altro che effettivamente ormai da lungo tempo, da più di quattro anni, non tornava in Russia e che era stato mandato all’estero per malattia, una strana malattia nervosa, una sorta di mal caduco o ballo di San Vito, con tremori e spasmi. Ascoltandolo, il giovane bruno ogni tanto ridacchiava, ma scoppiò a ridere soprattutto quando, alla domanda «Allora, siete guarito?», il biondo rispose «No, non sono guarito».
«Eh! A quanto pare avete buttato via un po’ troppi soldi, e pensare che ci fidiamo di loro!» osservò il bruno sarcasticamente.
«È la pura verità!» s’intromise un altro signore malvestito che sedeva lì accanto, uno di quei funzionari inaciditi alla scrivania, sulla quarantina, di corporatura robusta, con il naso rosso e il viso butterato. «La pura verità, signor mio, non fanno altro che prendersi tutte le nostre risorse russe in cambio di nulla!»
«Oh, ma nel mio caso vi sbagliate proprio,» riprese il paziente svizzero con voce pacata e conciliante «certo non posso controbattere perché non conosco tutti i casi, ma il mio dottore mi ha dato di tasca sua per il viaggio gli ultimi soldi che aveva e, per di più, per quasi due anni mi ha mantenuto a sue spese.»
«Ma come, non c’era nessuno che potesse pagare?» chiese il bruno.
«Sì, il signor Pavliščev, che mi manteneva lì, ma è morto due anni fa; allora ho scritto alla generalessa Epančina, mia lontana parente, ma non ho avuto risposta. E così non mi è restato che tornare.»
«Ma tornare dove?»
«Cioè dove mi fermerò?… A dir il vero ancora non lo so… vedremo…»
«Non avete ancora deciso?»
Ed entrambi gli ascoltatori si misero di nuovo a ridacchiare.
«Possibile che in quel fagottino ci siano tutti i vostri averi?» chiese il bruno.
«Scommetto che è così,» disse con aria straordinariamente soddisfatta l’impiegato dal naso rosso «e che non c’è alcun bagaglio che lo segue nelle carrozze di servizio, sebbene la povertà non sia un vizio, cosa, questa pure, che non si può non rilevare.»
Risultò anche in questo caso che era così: il giovane biondo lo ammise subito e con singolare prontezza.
«Il vostro fagottino comunque ha un certo valore,» continuò l’impiegato dopo che avevano ridacchiato a sufficienza (da notare che, guardandoli, anche il proprietario del fagotto alla fine si era messo a ridere, cosa che aveva accresciuto la loro ilarità) «e, anche se si può scommettere che non nasconde rotoli di monete straniere, di napoleoni e federici d’oro, e neppure dei nostri gulden olandesi, cosa già facilmente deducibile dalle ghette che ricoprono le vostre scarpe estere, tuttavia… se al vostro fagotto si va ad aggiungere quella che definite una vostra parente, la generalessa Epančina, il fagotto stesso acquista un altro valore, ovviamente solo nel caso in cui la generalessa Epančina sia davvero vostra parente e non vi siate sbagliato, magari per distrazione… cosa moltissimo consona alla natura umana, beh, magari… per eccesso d’immaginazione.»
«Oh, avete di nuovo indovinato,» disse il giovane biondo «in effetti praticamente mi sbaglio, cioè, praticamente non è una parente; tanto che, a dir il vero, non mi sono affatto stupito quando non ho avuto risposta da laggiù. Me l’aspettavo.»
«Avete sprecato i soldi per il francobollo! Beh… almeno siete una persona semplice e sincera, e questo è lodevole! Beh… il generale Epančin invece lo conosciamo, signore, per il fatto che, per la verità, lo conoscono tutti; e anche il defunto signor Pavliščev, che vi manteneva in Svizzera, conoscevamo pure lui, sempre che fosse Nikolaj Andreevič Pavliščev, perché erano due cugini. L’altro al momento è sempre in Crimea, mentre il compianto Nikolaj Andreevič era una persona rispettabile e ben introdotta e, a suo tempo, sissignore, aveva quattromila anime…»
«Proprio così, si chiamava Nikolaj Andreevič Pavliščev» e, dopo aver risposto, il giovane fissò con sguardo indagatore il signor so-tutto-io.
Questi signori so-tutto-io si incontrano talvolta, persino spesso, in un certo ceto sociale. Costoro sanno tutto; l’acume inquieto del loro intelletto e tutte le loro facoltà confluiscono irrefrenabilmente in una sola direzione, ovviamente, come direbbe un pensatore contemporaneo, per mancanza di interessi e di idee di più vitale importanza. Con l’espressione “sanno tutto” si deve intendere, del resto, un àmbito piuttosto limitato: che impiego ha il tale, chi conosce, qual è la sua rendita, dov’è stato governatore, chi ha sposato, qual era la dote della moglie, chi è suo cugino di primo grado e chi di secondo grado eccetera eccetera, e sempre su questo tenore. Per lo più questi signori so-tutto-io girano con le toppe ai gomiti e si prendono uno stipendio sui diciassette rubli al mese. Naturalmente, alle persone di cui costoro conoscono vita, morte e miracoli neppure verrebbe in mente quale tornaconto possano avere; ma in realtà molti di loro sono pienamente gratificati da queste informazioni, paragonabili a una vera e propria scienza, ne traggono autostima e persino un supremo appagamento interiore. E si tratta per di più di una scienza seducente. Ho visto studiosi, letterati, poeti, politici che proprio in questa disciplina hanno perseguito i loro massimi obiettivi, le loro massime gratificazioni, e li hanno ottenuti entrambi, riuscendo addirittura a far carriera solo in questo modo. Durante tutto il discorso, il giovane bruno sbadigliava, guardava svagato fuori dal finestrino e aspettava con impazienza la conclusione del viaggio. Era come distratto, molto distratto, quasi preoccupato, e assumeva persino un’aria strana: un po’ ascoltava e un po’ non ascoltava, guardava e non guardava, a volte rideva senza neppure sapere o capire cosa ci fosse da ridere.
«Ma, consentite, con chi ho l’onore…» a un tratto il signore butterato si rivolse al giovane biondo col fagotto.
«Principe Lev Nikolaevič Myškin» rispose costui con totale e immediata prontezza.
«Principe Myškin? Lev Nikolaevič. Non vi conosco, signor mio. Ma proprio non vi ho mai neppure sentito nominare,» disse l’impiegato perplesso «cioè, non parlo del nome, è un nome storico e nella Storia dello Stato russo di Nikolaj Karamzin lo si può trovare, ci dev’essere; parlavo della persona, signore, e poi di principi Myškin non se ne incontrano proprio da nessuna parte, non se ne sente neppure parlare, signor mio.»
«Oh, verissimo!» replicò immediatamente il principe. «Ora come ora, di principi Myškin proprio non ce n’è più, tranne me; direi che sono l’ultimo. E, per quanto riguarda le generazioni che mi hanno preceduto, c’erano anche gentiluomini di campagna, di ceto militare. Mio padre, del resto, era sottotenente dell’esercito, addestrato nel corpo della guardia imperiale. Per cui proprio non saprei come la generalessa Epančina sia una principessa Myškin, nella specie è l’ultima anche lei…»
«He-he-he! L’ultima nella specie! He-he! Che espressione avete trovato» si mise a ridacchiare l’impiegato.
Anche il bruno sghignazzò. Il biondo si stupì un po’ che gli fosse venuto fuori quel gioco di parole, peraltro piuttosto brutto.
«Figuratevi, l’ho detto senza neppure pensarci» spiegò infine stupito.
«Ma è chiaro, chiarissimo, signor mio» ribadì allegramente l’impiegato.
«Ma dite, principe, vi siete anche dedicato a studiare le scienze quand’eravate laggiù, dal professore?» chiese a un tratto il bruno.
«Sì… ho studiato…»
«Io, invece, non ho mai studiato un bel niente.»
«Anch’io, comunque, solo qualcosina,» aggiunse il principe, quasi a volersi scusare «a causa della malattia non sono riusciti a farmi studiare in modo sistematico.»
«Conoscete i Rogožin?» chiese immediatamente il bruno.
«No, non li conosco affatto. Ma in Russia sono pochissime le persone che conosco. Voi siete un Rogožin?»
«Sì, Parfën Rogožin, in persona.»
«Parfën? Ma non sarebbero per caso proprio quei Rogožin…» aveva iniziato con pronunciato sussiego l’impiegato.
«Sì, loro, proprio loro» lo interruppe subito e in modo brusco e scortese il bruno, il quale in definitiva, tra l’altro, non si era mai, neppure una volta, rivolto all’impiegato butterato e che, fin dall’inizio, aveva parlato solamente al principe.
«Sì… ma com’è possibile?» e il viso dell’impiegato, che era rimasto di stucco e con gli occhi quasi fuori dalle orbite, cominciò all’istante ad assumere un’aria estatica e reverenziale, addirittura intimorita. «Sareste il figlio di quel Semën Parfënovič Rogožin, cittadino onorario ereditario, che è morto un mese fa lasciando un capitale di due milioni e mezzo?»
«Ma tu da chi l’hai saputo che ha lasciato due milioni e mezzo di capitale effettivo?» lo interruppe il bruno, anche questa volta senza degnare l’impiegato di uno sguardo. «Ma guarda un po’!» e rivolto al principe ammiccò in direzione dell’impiegato. «Ma si può sapere a quelli che gl’importa, di che s’impicciano coi loro tirapiedi? Che mio padre è morto è vero, ma è passato un mese e io me ne torno a casa da Pskov praticamente senza neppure gli stivali. Né quel vigliacco di mio fratello, né mia madre mi hanno mandato un solo centesimo, neppure una notifica! Come a un cane! Ho passato un mese intero a Pskov con la febbre alta.»
«Ma ora le toccherà un bel milioncino e rotti, e come minimo! Santo cielo!» allargò le mani l’impiegato.
«Ma cosa vuole quello, ditemelo, per favore!» e di nuovo Rogožin, irritato e con rabbia, fece un gesto verso di lui. «Guarda che a te non darò neppure un copeco, neppure se ti metti a ballare a gambe all’aria.»
«Ma ballerò, ballerò.»
«Ma guardalo! Tanto non ti darò niente, niente, puoi saltellare per una settimana intera.»
«E fai pure a meno! Ma sì, non darmi niente! E io ballerò, mollerò moglie e figli e ballerò per te! Dai, fammelo fare!»
«Che schifo mi fai!» sputò il bruno. «Cinque settimane fa anch’io, come voi,» e si rivolse al principe «sono scappato da casa dei miei genitori con un solo fagotto, sono andato a Pskov da mia zia; là sono finito a letto con la febbre alta e, mentre ero lì, quello è morto. Gli è venuto un colpo. Lunga memoria al caro estinto, che per poco non m’ha ammazzato di botte! Credetemi, principe, lo giuro, non fossi scappato, m’avrebbe proprio ammazzato.»
«L’avevate fatto arrabbiare in qualche modo?» reagì il principe, osservando con particolare curiosità il milionario col montone. In effetti, sebbene già nel solo milione di rubli e nell’imminente eredità potesse esserci qualcosa d’interessante, era stato anche qualcos’altro ad aver stupito e interessato il principe. Del resto, per qualche ragione, era stato proprio Rogožin a prediligere il principe come suo interlocutore, benché il suo bisogno di conversare sembrasse più un fatto meccanico che un’esigenza interiore; sembrava lo facesse più per distrarsi che per una propensione sincera: per l’ansia e l’agitazione, giusto per guardare qualcuno e blaterare qualcosa. Sembrava che fosse ancora malato, o comunque che avesse la febbre. Per quanto invece riguardava l’impiegato, da quando aveva attaccato discorso con Rogožin, stava col fiato sospeso, afferrando e soppesando ogni parola come cercasse un brillante.
«Arrabbiato lo era proprio e magari aveva pure di che arrabbiarsi,» rispose Rogožin «ma più di tutti mi ha esasperato mio fratello. Di mia madre non posso dir niente, è vecchia, si legge le Vite dei Santi, se ne sta con le sue vecchiette e quel che decide il mio fratellino Senja, quello s’ha da fare. Ma lui, perché mai non me l’ha fatto sapere subito? Ma certo, signori miei! È vero che allora ero fuori di me. Pure un telegramma, dicono, t’abbiamo fatto spedire. Ma il telegramma è arrivato dalla zia, che è vedova da trent’anni e se ne sta dalla mattina alla sera con quegli apostoli devoti e invasati. Non è che sia una monaca, ma è pure peggio! Il telegramma l’ha spaventata e, senza neppure aprirlo, l’ha portato al commissariato, così che adesso è ancora lì. Soltanto Konev, Vasilij Vasil’evič, mi ha salvato, mi ha scritto tutto. Dal drappo funebre sulla bara di nostro padre, quella notte, mio fratello ha tagliato via le nappe d’oro zecchino, avrà pensato “chissà quanto devono valere”. Già solo per quello, se mi viene voglia, posso farlo spedire in Siberia, perché è una profanazione bell’e buona. Ehi, tu, spaventapasseri!» e si rivolse all’impiegato. «Cosa dice la legge, è profanazione?»
«Profanazione, profanazione!» confermò immediatamente l’impiegato.
«E ti mandano in Siberia?»
«In Siberia, in Siberia! Di corsa in Siberia!»
«Continuano tutti a credere che io sia ancora malato,» continuò Rogožin «ma io, senza dire una parola, pian pianino, ancora malato, ho preso il treno e sto arrivando: corri ad aprirmi, fratellino Semën Semënovič! Quello al mio povero padre gli ha sparlato di me, lo so. Che avessi irritato mio padre per via di Nastas’ja Filippovna, è vero. Quella è solo colpa mia. Ci s’è messo il diavolo.»
«Per via di Nastas’ja Filippovna?» proferì l’impiegato compiacente, come stes...

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APA 6 Citation

Dostoevskij, F. M. (2013). L’idiota ([edition unavailable]). BUR. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3379601 (Original work published 2013)

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Dostoevskij, Fëdor Michajlovi. (2013) 2013. L’idiota. [Edition unavailable]. BUR. https://www.perlego.com/book/3379601.

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Dostoevskij, F. M. (2013) L’idiota. [edition unavailable]. BUR. Available at: https://www.perlego.com/book/3379601 (Accessed: 16 June 2024).

MLA 7 Citation

Dostoevskij, Fëdor Michajlovi. L’idiota. [edition unavailable]. BUR, 2013. Web. 16 June 2024.