Io ci sono
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Io ci sono

La mia storia di non amore

  1. 272 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Io ci sono

La mia storia di non amore

Informazioni su questo libro

La sera del 16 aprile 2013 Lucia, giovane avvocatessa di Pesaro, tornata dalla piscina si trova in casa un uomo incappucciato che le tira in faccia dell'acido solforico al 66%. Le ustioni al viso e alla mano destra sono devastanti. Lucia rischia di rimanere cieca. Quella stessa notte viene arrestato come mandante Luca Varani, che con Lucia ha avuto una tormentata relazione troncata da lei nell'agosto del 2012. Sarà poi condannato a vent'anni di carcere. Ma prima di arrivare alla condanna ci sono i mesi bui e dolorosissimi che Lucia ha voluto raccontare in questo libro. Pagine vere, toccanti e coraggiose, scritte per condividere con i lettori, e con tutte le donne prigioniere di un non amore, la testimonianza di una rinascita.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817080248
eBook ISBN
9788858663776

1
8 dicembre 2013, sera

È quasi mezzanotte e Chiara guida adagio per le vie di Pesaro. Io le sono accanto, in silenzio. Lei parla con Cristina, Giorgia e Marta, sedute dietro. L’argomento è la cena a casa di Daniela. Siamo state bene, si dicono l’un l’altra, ci siamo divertite come non succedeva da tanto tempo.
Una serata normale, finalmente. Penso a questo mentre seguo senza volerlo i fasci di luce dei lampioni, delle auto che incrociamo, quelli che illuminano le case, le insegne dei negozi. Stiamo andando da Marta perché è lì che dormo spesso da quando ho ricominciato a uscire di casa, e per casa intendo quella dei miei, a Urbino, dove sono tornata a vivere dopo quella sera. Chiara si ferma a uno stop, poi a un incrocio, a un semaforo. Pesaro è troppo piccola per evitare i luoghi che vorrei cancellare dalla memoria. Se avessi una bacchetta magica trasformerei la cartina di questa città. Accorcerei strade, cancellerei case, costruirei percorsi nuovi per la mia nuova vita, vie dirette verso le cose e le persone che contano. Come nelle fiabe: un tocco e sparisce questo, compare quello, il brutto diventa bellissimo, l’opaco si fa splendente. Ma non ho nessuna bacchetta magica. Siamo nella realtà, tocca attraversarla.
Un altro stop, si svolta. La Volkswagen di Chiara si infila in via Rossi, dove abitavo io: numero civico 19. E all’improvviso è come se i fasci di luce che ho seguito finora cambiassero direzione. Adesso puntano tutti assieme sulla mia casa, accendono ricordi, mostrano immagini, un bagliore violento costringe la memoria a fermarsi. “Va tutto bene, Luci” mi ripeto mentre ci avviciniamo, mentre le amiche si accorgono che ho il cuore in tumulto. Dov’è la bacchetta magica? “Va tutto bene.”
Eccola, casa mia, il luogo dell’agguato, come dicono i carabinieri; il panorama di un tempo che è stato tutto e il contrario di tutto. Intravedo da lontano l’ingresso del palazzo, la stessa porta per aprire giorni di una bellezza indimenticabile e altri di un’angoscia che mi stordiva. Da fuori non si vede nemmeno un pezzetto delle scale, ma per me è come se le pareti fossero trasparenti. I muri svaniscono. Ecco i gradini che ho fatto mille volte di corsa all’inizio, quando l’amore mi faceva volare dalla felicità, o dopo, quando scappavo terrorizzata. Salgo le rampe della memoria. Secondo piano, adesso sono sul pianerottolo, sto aprendo la porta, infilo le chiavi… “Va tutto bene, Luci. Vieni via da quel ricordo.” Troppo tardi. La mente seleziona flash. Per un istante rivedo il gesto lento di quell’uomo – dal basso verso l’alto, da destra verso sinistra – e sento il liquido che arriva dritto sulla mia faccia.
«Aiutatemi, vi prego aiutatemi. Qualcuno mi aiuti!» Mi dispero, le mie mani battono contro le porte dei vicini. Mentre corrode la pelle l’acido fa il rumore delle uova che friggono e la mia faccia, i miei occhi stanno ancora friggendo.
La voce di Chiara mi trascina via dal pianerottolo.
«È strano pensare che questa è una casa in cui non entreremo più, eh Luci?» dice rallentando ancora un po’.
Torno in macchina di colpo. Sono una bambina un po’ distratta e la maestra sta facendo l’appello. Sento il mio nome. Presente! Sono stata via solo un istante. È incredibile la quantità di pensieri e immagini che possono stare in un istante. Ho sentito raccontare di tante persone che, arrivate per qualche ragione davanti all’uscio della morte, sono tornate indietro sicure di aver rivisto tutta la loro vita in un secondo. Ma forse è soltanto un modo di dire, chissà se davvero è successo a qualcuno. A me no, per esempio. Niente film della vita mentre correvo il rischio di morire. In altri momenti, dopo, la pellicola si è riavvolta da sé, com’era naturale che fosse, e io l’ho guardata un milione di volte. Ma era soltanto il film della mia storia con lui, di questi ultimi tre anni e mezzo. E la mia vita è molto più di questo. Nella mia vita il bello deve ancora venire.
Siamo quasi arrivate, fra un attimo svolteremo verso casa di Marta. Ma quanto dura questa via Rossi? Un riflesso condizionato mi dice di alzare gli occhi verso il terrazzino, non mi accorgo nemmeno di essermi voltata che già sento un brivido lungo la schiena. Ecco, l’ho detto. Sembra un’altra di quelle frasi buone per le telenovele, oppure un’espressione che sta bene in un articolo di cronaca nera sul giornale. E invece no, capisco che è possibile, è vero: esiste la sensazione fisica di un brivido che attraversa ogni vertebra. Mi sorprendo a pensare alla scena di un film: ragazzi che passano sul ponte di un incidente avvenuto anni prima e sentono i brividi, appunto. Come se il dramma del passato fosse rimasto nell’aria e avesse degli artigli per aggrapparsi alle loro schiene. Mi assale un misto di tristezza e sofferenza, viene su dall’asfalto, porta fino a me tutto quanto. Lui, la nostra storia di non amore, quello che ho fatto e quello che mi è stato fatto. Fino all’acido.
Ora lo sguardo plana sui muri del palazzo, sulle finestre accese al primo piano, sui balconi degli altri. Atterra sul terrazzino di casa mia e io fotografo con un battito di ciglia quello che vedo. Noto che è rimasto aperto uno sportello dell’armadietto di plastica che usavo come scarpiera. Se ne sta lì e sembra indeciso se spalancarsi o richiudersi. Il tavolino e le due sedie colorate sono nel punto esatto in cui erano quel giorno, o almeno così mi pare di ricordare. La tenda parasole tirata a metà mi fa pensare alla capacità di resistere: è ancora lì, mi dico, nonostante vento e pioggia. Ricordo che avevo due piante grasse, immagino i loro sforzi per sopravvivere, la loro sete e infine la resa. “Chissà quand’è che sono morte” mi domando. Mi sembra di vedere la polvere mentre si accumula sui miei mobili, sul pavimento, sugli oggetti che avevo scelto con cura.
La scientifica dei carabinieri ha usato una polverina per rilevare le impronte, ci sarà anche quella sul tavolo e sui fornelli, in bagno o sulle maniglie. Sarà tutto sporco. E sarà scaduto il cibo che avevo sulle mensole, marcito quello in frigorifero. Latte, tonno, pasta. Tutto ancora impacchettato, intonso. Da buttare via. Rivedo il mio letto disfatto, con il piumone bianco e arancio a fiori aggrovigliato e abbandonato al rovescio, come l’ho visto nelle foto allegate agli atti dell’inchiesta: disordine creato per far credere che fosse entrato un ladro, dice la ricostruzione del magistrato. Ricordo che guardavo quelle fotografie e ripensavo ai miei piatti, alla macchinetta del caffè appena comprata, al lampadario, al divano basso e scomodissimo, alle pareti bianche e al mobile rosso del salotto, alla composizione di fiori che mia madre aveva fatto per me, perfettamente intonata ai colori della stanza.
Nello specchietto retrovisore il palazzo di via Rossi 19 diventa sempre più piccolo. Io ripenso al mio televisore bianco appoggiato sul mobiletto rosso e a quella specie di mania che avevo per i gialli e la suspense. Telefilm d’azione, CSI, horror e serial killer. Su Sky cercavo solo quello, non perdevo una battuta. Adesso di tutto quel genere non guardo più nulla. Come premere “esc” sul telecomando. Un’uscita che non prevede rientri. Troppi dettagli su un crimine o scene cruente sono diventati una sorta di connessione automatica con quello che mi è successo e, se mi capita di guardarne qualcuna, mi viene spontaneo proteggere gli occhi con la mano. Non voglio vedere, ho già visto abbastanza. Mentre l’acido mi scavava la faccia, urlavo e pensavo: “Questo dev’essere un film dell’orrore di quelli che guardo io”.
Premo il tasto “esc” anche adesso. Il pensiero del televisore lascia il posto alla voce di mia madre. Mi sembra di sentirla come quel giorno di primavera del 2010.
«Luci, ho trovato un appartamento piccolo ma molto carino. È al secondo piano, ha il garage e un balcone abbastanza grande da usare come terrazzino.»
«Che via è, Lella?»
«In centro, via Vincenzo Rossi.»
Eccomi lì, al telefono, a esultare per una casa di quaranta metri quadrati mai vista. Penso: “È perfetta”. È vicina al mare, è in centro e, soprattutto, è la via dove lui ha lo studio: un passo e sale da me. Mia madre aggiunge dettagli sul prezzo, sul palazzo, sull’interno. Ma io non la sento più. Mi perdo a immaginare lui che suona il campanello, che cena assieme a me, si sveglia accanto a me. Fantastico su banalità quotidiane. Fare colazione e andare a far la spesa. Preparare serate per gli amici e addormentarsi sul divano guardando la tivù. Abbiamo finalmente un posto tutto per noi; un appartamento per non finire sempre a far l’amore sul divano del suo studio o a incontrarci in macchina come adolescenti. Sono felice, è la mia prima casa, la mia nuova libertà.
La voce di Lella sfuma, come le ultime note di una canzone. Io passo in rassegna i ricordi della presenza di lui nel mio appartamento. Loro ubbidiscono, si mettono in fila come soldatini, e mi rendo conto che in quella casa lui c’è sempre stato anche se non ci ha mai veramente vissuto. Da qualche angolo remoto della memoria riemerge il rumore dei suoi passi nell’appartamento ancora vuoto, dentro c’è soltanto un vecchio mobile lasciato da chi ci abitava prima. Ricordo che ci scambiammo idee su come arredare al meglio quei pochi metri quadrati, sento ancora le parole rimbombare in quello spazio. Sfoglio istantanee di me stessa mentre passo fra quelle mura momenti da incorniciare e altri in bilico sull’abisso della depressione. Lo rivedo sulle scale che corre facendo due gradini alla volta, lo osservo mentre appende uno dei miei tre quadri, seguo la scia del suo profumo fra il letto e il bagno. Appunti di vita in ordine sparso. Da questo bloc notes pieno zeppo di ricordi pesco l’ultima pagina, drammatica: una sberla che mi lascia inebetita, senza più fiato né forza. D’istinto mi tocco la faccia. “Va tutto bene, Luci. Lui non c’è più.”
Via Rossi è scomparsa dallo specchietto. È dietro l’angolo come si direbbe in una metafora da quattro soldi. Sono convinta che anche i luoghi, come le persone, possano morire. E quell’appartamento per me è morto la sera del 16 aprile 2013. Non ci sono entrata né allora né lo farò mai più. È un po’ come se tutto ciò che è stato fosse rimasto davanti alla porta assieme all’altra Lucia, quella prima dell’acido. Nessuna nostalgia, non mi manca nulla degli oggetti che ho dovuto lasciare lì dentro; tutto sotto sequestro «a disposizione dell’autorità giudiziaria», come dice uno dei quattromila e più fogli dell’inchiesta.
Mio fratello Giacomo ha avuto il permesso di entrare per prendere qualche vestito ma, a dire il vero, nemmeno quelli mi mancano. Ho una pelle nuova, una vita nuova, vestiti più belli e tanti posti dove stare quanti sono i miei amici. Cercherò la casa del mio futuro con calma. Ogni cosa a suo tempo, dico a me stessa, proprio nel momento in cui la Volkswagen arriva alla meta. Cristina e Giorgia recuperano le loro auto, Chiara torna con la sua, io salgo su con Marta e penso a un’espressione che ormai mi è familiare: «luogo dell’agguato», casa mia. In linea d’aria saranno cinquecento metri.
Col pensiero, quasi per consolarla, torno dall’altra Lucia, sul pianerottolo di via Rossi 19. “Andrà tutto bene, Luci. Quell’uomo non riuscirà ad annientarti.” Lei ha le chiavi in mano, sta per aprire la porta. Sono le nove e mezzo di sera di un giorno marchiato a fuoco, il 16 aprile, l’11 settembre della mia vita.
Mi viene in mente la tela strappata di un quadro ma non riesco a pensare che uno strappo sia irreparabile. “C’è un rimedio per tutto, Luci. Solo alla morte non c’è riparo.”
Se vivi il tuo giorno da Twin Towers è chiaro che poi ricordi anche dettagli insignificanti: quel che è successo immediatamente prima, le sensazioni che non ti dicevano niente e che poi sono diventate segnali non colti, presentimenti; le persone che hai incontrato, come ti sei vestita, le cose che hai detto. Fissi parole, immagini, coincidenze come se fossero pezzi di un puzzle che non hai saputo comporre in tempo. Ti tormenti a immaginare che avresti dovuto, avresti potuto… “Perché non hai pensato di fare così, Luci? Come hai fatto a non capire che…” Tutto inutile. Col tempo i punti interrogativi cadono come birilli, resta in piedi soltanto quel che è accaduto, compresi i particolari senza importanza che diventano il colore base, lo sfondo della tela. La mia tela strappata.
I fantasmi stasera hanno provato a spaventarmi di nuovo, ma sono fiera di me. Ormai li riconosco, so come sfidarli. Domani li avrò tutti davanti, a un passo da me. Dovrò essere d’acciaio, domani. Perché serve una Lucia d’acciaio per affrontare il processo: 9 dicembre 2013, ore 10, c’è scritto sul foglio che fissa la prima udienza. Ed eccomi qui, ad accorciare il tempo guardando i messaggini sul cellulare. Leggo l’ultimo: «Domani divertiti». L’orologio sul display mi dice che siamo già a lunedì 9 dicembre 2013. Spengo la luce. Rimetto indietro le lancette dei miei giorni. Sono di nuovo lì, al 16 aprile 2013.

2
La sera dell’agguato

Sono ancora in quella giornata né di sole né di nuvole: il 16 aprile 2013.
Pomeriggio, le sei e mezzo. Esco dallo studio legale che divido con mio padre a Urbino. Saluto il babbo, la segretaria e la mia praticante. Lucio, il babbo, sa già tutto. Ma la segretaria e la praticante no, così prima di uscire racconto del buco trovato nella portafinestra di casa mia, a Pesaro.
«Che cosa strana… ed è anche abbastanza grosso. Non posso provarlo ma sono sicura che è opera sua» spiego.
«Devi fare qualcosa, però. Così non può andare avanti. L’hai denunciato?» mi chiedono.
«Non ancora. Speravo che la piantasse ma adesso basta. Domani vado dai carabinieri e racconto tutto quello che mi è successo in questi mesi. Non posso vivere con il terrore addosso.»
Esco. Mia madre telefona allarmata.
«Vengo a casa con te e mi fermo a dormire stasera, così sei più tranquilla.»
«Lella, non ti preoccupare. Va tutto bene. Oggi è martedì, lui va agli allenamenti di calcio e torna tardi. Sono certa che non sarà davanti al portone ad aspettarmi.»
Ostento sicurezza, non voglio che mia madre stia in pensiero più di quanto lo sia già. Sa che negli ultimi tempi ho dormito spesso da Marta perché non me la sentivo di tornare a casa, e sa che nelle ultime due notti ho dormito con una sedia incastrata sotto la maniglia della porta, come ha suggerito Giacomo, mio fratello. Così se entra qualcuno la sedia cade e io mi sveglio. Il falegname ha riparato il buco, non c’è il rischio che un ladro infili un gancio dall’esterno per aprire la portafinestra. La mattina non c’era, quel benedetto buco, la sera sì. La domanda mi frulla nella testa minacciosa: come avrà fatto ad arrampicarsi sul terrazzino dall’esterno in pieno giorno e in una via così trafficata senza che nessuno lo notasse? Esploro la possibilità. Siamo a zero: ci sono zero probabilità che sia andata così. Che sia stato lui oppure no, l’opzione esterno-giorno è impossibile. Resta solo un modo: chi ha fatto il buco è passato dall’interno, ha le chiavi di casa, entra ed esce quando vuole. E sì che ho cambiato già una volta la serratura proprio temendo che fosse così. Come avrà fatto a procurarsele di nuovo?
“Non devi avere paura, Luci. La paura paralizza, impedisce di vivere, fa schifo.” Non voglio avere paura. Dormirò di nuovo con la sedia incastrata sotto la maniglia.
Penso a questo e guido verso Pesaro.
Sette e un quarto: entro in casa, tutto normale, tiro un sospiro di sollievo e preparo il borsone per la piscina. Ho il corso di hydrobike, lo spinning acquatico che faccio due-tre volte alla settimana. Scelgo cosa indossare: pantaloni e felpa di Abercrombie comprati l’estate scorsa a San Francisco, maglietta regalata dalle amiche per il compleanno, le Converse bianche e il mio giubbino preferito, di pelle, un regalo di Lella di qualche mese prima, per i miei trentacinque anni. Mi piace avere cura di come vesto, anche solo per andare in piscina. Non lascio mai niente al caso e penso che nemmeno le persone apparentemente trasandate lo siano davvero fino in fondo. Indossare questo o quello è una piccola scelta, a ciascuno la sua.
Esco. Strada facendo mi fermo a comprare le sigarette. Un giorno non lontano smetterò di fumare, ma il copione di stasera prevede un pacchetto di Camel Lights, e io mi fermo a prenderle. Un’ora abbondante di hydrobike ed esco che è già buio.
“Dove avrò messo le chiavi della macchina? Possibile che tutte le volte debba cercarle per mezz’ora?”
Mi innervosisco, torno indietro. Forse le ho lasciate nell’armadietto dello spogliatoio, ma la porta si è chiusa alle mie spalle, suono più volte, non risponde nessuno. Finalmente le mani scavano in una piega della borsa e le trovano, torno verso la macchina. Ma a questo punto è il cancello del parcheggio che si chiude.
«Ehi, mi fate uscire per favore?» ripeto sempre più irritata. Così per cinque minuti, poi qualcuno mi sente, mi apre. Libera. Vado. Mentre mi allontano noto due ragazzi proprio davanti all’ingresso della piscina. Ecco. Questo è uno di quei “segnali”, chiamiamoli così, che saprò leggere soltanto dopo, molto dopo. Non adesso. Ora tutto quello che riesco a fare è chiedermi: “Che ci fanno questi due qui?” senza guardarli troppo perché non pensino che conceda confidenza. Al corso c’erano solo ragazze, non ho mai incontrato nessun uomo qui fuori. Che strano… Dentro di me si accende una lucina di pericolo, ma il campanello d’allarme non suona. Due ragazzi davanti alla piscina non sono abbastanza per farlo scattare. Non arrivo a pensare la sola spiegazione che troverò logica dopo l’acido: quei due erano lì per controllarmi, pedinarmi, perché qualcun altro sapesse dei miei movimenti.
“Non ti agitare, Luci… aspetteranno qualche ragazza che era al corso” mi dico, mentre premo sull’acceleratore e me ne torno verso casa. Giro l’angolo e penso già ad altro: non ho voglia di cucinare e non ho niente di pronto, mi fermo a prendere una piadina.
Lo faccio. Arrivo in via Rossi 19 e si accende la seconda lucina d’allerta. Ho la sensazione di essere spiata, non sono tranquilla, meglio non scendere in garage. Così lascio fuori la macchina e salgo. Ascensore. Schiaccio il numero due e arrivo al piano. Sulla spalla ho il borsone della piscina, in una mano stringo il sacchetto con la piadina e le chiavi, con l’altra pesco il cellulare dal fondo di una tasca e vedo due chiamate perse di mia madre....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. 1. 8 dicembre 2013, sera
  4. 2. La sera dell’agguato
  5. 3. Voci nel buio
  6. 4. Storia di un non amore
  7. 5. Il dolore e l’incertezza
  8. 6. Il ritorno a casa
  9. 7. L’estate
  10. 8. Le carte raccontano
  11. 9. Aspettando il processo
  12. 10. 8 dicembre 2013, notte
  13. 11. In aula
  14. 12. A Roma
  15. 13. In nome del popolo italiano
  16. Ringraziamenti
  17. Indice