Seduzione (Life)
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Seduzione (Life)

  1. 474 pagine
  2. Italian
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Seduzione (Life)

Informazioni su questo libro

Dopo un gravissimo lutto, la giovane esperta di mitologia Jac L'Etoile pensa che gettarsi nel lavoro sia il modo migliore per distrarsi. Così, accetta con entusiasmo l'invito dell'amico d'infanzia Theo Gaspard a raggiungerlo nell'isola bretone di Jersey, ricca di rovine celtiche. L'uomo da anni segue le tracce di Victor Hugo, e proprio quell'isola cela il mistero più profondo della vita del romanziere: lì infatti, dopo la morte della figlia, Hugo tenne centinaia di sedute spiritiche per tentare di ristabilire un contatto con lei. Hugo trascrisse tutte le sedute, le pubblicò addirittura. Tutte, tranne una. Che fine ha fatto la trascrizione mancante? E c'è un motivo per cui è scomparsa? Per Theo, ritrovarla è diventata una sorta di ossessione, dopo che già suo nonno è morto nel tentativo di rintracciarla. Ora, con l'aiuto di Jac, la verità sembra più vicina: i disegni identici che Jac e Theo facevano da adolescenti l'uno all'insaputa dell'altra, l'inspiegabile senso di abbandono che li attanaglia quando visitano il tempio più antico dell'isola e le misteriose allucinazioni di Jac assumono nuova luce quando trovano l'unico diario di Hugo che non è mai stato reso pubblico, e che lui stesso ha nascosto nella grotta più profonda dell'isola. Ma la conoscenza ha un prezzo… Tra sedute spiritiche e profumi che aprono finestre su altre epoche, morti misteriose e bambine scomparse, M.J. Rose ci trascina in un'avventura mistica e appassionante, che ci cattura senza lasciarci scampo. E che metterà in discussione ogni nostra certezza.

Domande frequenti

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Informazioni

1

30 ottobre 1855
Jersey, Isole del Canale, Gran Bretagna
Ogni storia comincia con un fremito di trepidazione. All’inizio possiamo avere un’idea della nostra destinazione, ma ciò che ci attende e ci fa rabbrividire è il viaggio, perché è tutto da scoprire. Per me, questa strana e insolita storia inizia di fronte al mare. Il suo suono e il suo profumo sono la mia punteggiatura. I suoi movimenti sono i miei verbi. Mentre scrivo queste parole, onde rabbiose si infrangono sulle rocce, e, quando l’acqua si ritira, gli scogli sembrano piangere. Come se la natura fosse l’espressione della mia anima. L’espressione di ciò che non posso dire a voce ma posso soltanto scrivere qui, in segreto, per te, Fantine.
Questa è la storia di un uomo perduto. Un uomo esiliato non solo dal suo amato Paese, ma anche dal suo senno. Credo sia un resoconto veritiero e onesto. Se concorderai con me, non lo so. Ma ti devo, in ogni caso, questo sforzo: il tentativo di spiegare le mie azioni e me stesso e di capire come sia potuto accadere ciò che è accaduto.
La storia inizia nel Sud della Francia ai primi di settembre del 1843, e il destino ha voluto che il mare facesse da sfondo alla prima scena.
Stavo trascorrendo una vacanza di un mese con la mia amante, che tu naturalmente conosci: è Juliette D. Eravamo in viaggio da tre settimane quando giungemmo all’isola di Oléron. Il caldo era opprimente, non passava un filo d’aria.
«È come stare all’inferno» dissi mentre entravamo in albergo. Ah, non avevo idea di quanto sarebbero state di malaugurio quelle parole.
Ovunque andassimo non si faceva che parlare del clima così anomalo e dell’inspiegabile epidemia che aveva tolto la vita a decine di bambini. Neppure la mia amata baia quella volta offriva alcunché di piacevole. Non arrivavano brezze dal mare, non si sentiva il canto degli uccelli. Mentre attraversavo le paludi saline, costretto a camminare tra le alghe per evitare il fango, mi tenevano compagnia soltanto le lontane voci dei carcerati che si rincorrevano una con l’altra come nell’appello della sera.
Per la prima volta nella mia vita mi sentivo infelice al mare. Mi sembrava di avere la morte nell’anima. Come se l’isola fosse una bara depositata in fondo al mare, e la luna una lanterna che la illuminava.
Preoccupati per le febbri misteriose, e con l’intenzione di fuggire da quell’atmosfera malinconica, decidemmo di non rimanere per il tempo che avevamo previsto, ma di ripartire immediatamente, la mattina dopo.
Sulla nave, il giorno successivo, i marinai non facevano che discutere morbosamente delle numerose morti per annegamento che di recente avevano sconvolto quei luoghi.
«Sembra che la morte ci stia inseguendo» commentai con Juliette.
Arrivammo a Rochefort, sul continente, depressi, stanchi e assetati. Dovendo attendere alcune ore la carrozza serale per La Rochelle, ci dirigemmo verso la piazza principale alla ricerca di qualcosa per rinfrescarci. Il Café de l’Europe era aperto e non affollato. Ci sedemmo e ordinammo delle birre.
C’erano dei giornali a disposizione: Juliette prese una copia di «Le Charivari», io una di «Le Siècle».
Proprio in quel momento una donnona dal corpo tozzo passò davanti alla vetrina, distogliendo la mia attenzione dalla lettura. Con lei c’era una piccolina di otto, nove anni. Proprio mentre superavano il Café la donna inciampò e finì lunga distesa. Per un attimo la bambina rimase paralizzata, come se fosse sbalordita per la scoperta che anche la sua mamma poteva cadere. Poi, con un faccino preoccupatissimo, la piccola si inginocchiò e gentilmente le offrì la mano.
Fissai quel momento nella memoria. Una scena da tirar fuori quando mi sarei rimesso a scrivere, sicuramente un’immagine da catalogare per un futuro utilizzo. Dovevo assolutamente ricordarmi l’apprensione sul viso della figlia e l’amore su quello della mamma nell’atto di farsi aiutare.
Poi, con un cattivo presentimento, come di consueto, tornai alle notizie. I politici sono folli e i giochi della politica lo sono altrettanto. La sorte della gente è nelle loro mani e loro non combinano nulla, si limitano soltanto ad atteggiarsi a salvatori del mondo e intanto si riempiono sempre più il portafoglio. Il potere corrompe ogni principio morale e trasforma gli uomini in mostri. Come ogni giorno, il giornale era pieno di preoccupanti articoli riguardo a questo e ad altri argomenti. La Spagna era in crisi… avvisaglie di nuovi conflitti a Parigi… e poi il mio nome mi si presentò davanti agli occhi.
Ero abituato a trovare nei giornali articoli sulle mie opinioni politiche e sulle mie opere, ma in quel caso era diverso. Orrende parole saltarono fuori dalla pagina e mi aggredirono. Improvvisamente non riuscii più a respirare. Iniziai a sudare abbondantemente, il volto madido. Non poteva essere vero. Avevo letto male, non avevo capito.
«Victor, cosa c’è?»
Alzai lo sguardo ma la faccia di Juliette era sfocata.
«Una cosa terribile» dissi, e le porsi il giornale. Le parole che avevo appena letto mi rombavano in testa, e non avrebbero smesso di farlo per ore, giorni, mesi e anni…
«Uno yacht si è capovolto… a bordo c’era la moglie del signor Charles Vacquerie, Léopoldine, figlia di Victor Hugo… il cadavere del signor Pierre Vacquerie è stato recuperato. Una prima ipotesi è che il signor Charles Vacquerie, un nuotatore esperto, sia stato trascinato dalla corrente nel tentativo di salvare la moglie e i parenti… il corpo senza vita della sfortunata fanciulla è stato trovato impigliato tra le reti…»
Fu dal giornale che venni a sapere ciò che mia moglie, Adèle, che era a casa a Le Havre, sapeva da giorni, così come gli altri miei figli: la mia prima bambina, la mia cara Didine, era affogata nella Senna, presso Villequier, insieme al marito sposato solo otto mesi prima.
Per le successive ore Juliette e io vagammo per la città, in attesa della carrozza che ci avrebbe riportati a Parigi. Juliette mi raccontò più tardi di quanto il sole a picco ci opprimesse, e di come avessimo camminato in giro per la piazza e per la campagna cercando di sfuggire al caldo e agli occhi indiscreti degli abitanti del posto che, appresa la notizia e avendomi riconosciuto, seguivano il progredire del nostro triste vagabondare.
Ma di tutto ciò io non ricordo nulla. Davanti ai miei occhi c’erano solo le immagini della terribile disgrazia. Una barca che risale il fiume. Il vento che frusta le onde in una frenesia schiumosa. L’imbarcazione che si inclina, si immerge, ondeggia paurosamente. E che si capovolge. La feroce corrente che turbina attorno ai corpi. La faccia della mia amata figlia sbigottita dal caos dell’acqua che ribolle, il tentativo di nuotare. Il vestito che si gonfia attorno a lei. Le braccia che chiedono aiuto. Nel tentativo disperato di respirare, deve aver ingurgitato intere boccate di acqua fangosa. Mi figuravo la sua faccia sott’acqua. La sua pelle che perde colore, le mani che si agitano frenetiche. I pesci che nuotano intorno a lei e che si impigliano nei suoi meravigliosi capelli. Gli occhi sbarrati, in quella densa tenebra, alla ricerca di un raggio di luce verso cui dirigersi.
Continuavo a ripetere a Juliette che non era possibile che quel resoconto fosse veritiero, anche se sapevo che lo era, e intorno a me si andava formando una pozza di dolore e poi un torrente, un fiume, un oceano. Annegavo anch’io.
Ah, se solo avessi potuto raggiungere Didine sarebbe stato un tale sollievo!
A ogni passo che facevamo, l’orrore per quello che era successo mi cresceva dentro. Il senso di colpa iniziò presto a colpirmi, come onde in una tempesta.
Ero in vacanza con la mia amante mentre la mia bambina moriva. E mia moglie Adèle aveva dovuto affrontare da sola quella tragedia.
E, peggio ancora: Didine si sarebbe trovata su quella barca se io fossi stato a Le Havre? O forse io e Adèle avremmo potuto essere invitati a bordo insieme a lei. E magari, se fossi stato là, avrei potuto salvarla.
Ma io non c’ero, e la figlia del mio cuore, la bambina della mia anima, adesso non c’era più.
Non c’è tristezza più grande e implacabile di quella di chi perde un figlio. Eppure è ciò che mi è successo e che, alla fine, mi ha condotto allo stato mentale con cui sono arrivato, due anni fa, a Jersey, nell’esilio politico dalla mia amata Francia che mi sono imposto per mia volontà. Dieci anni di sofferenze mi hanno depositato su una stretta spiaggia di speranza. Sebbene io non creda in nessuna religione formale e tantomeno nel clero, ho forti convinzioni. Sono convinto che siamo destinati a vivere ancora, e mi aspetto un’altra vita per me e per le persone che amo. E come potrebbe essere diversamente? Se non ci fosse una continuazione, quale significato avrebbe tutto questo soffrire a cui siamo costretti? Ciò che mi ha spinto ad andare avanti, giorno dopo giorno, è stato soltanto il pensiero che Didine non se ne fosse andata per sempre.
L’amore per mia figlia costituisce il cuore di questa storia. La mia incantevole figlia, la luce dei miei occhi. Lo so, ogni padre dice la stessa cosa, eppure mia figlia era davvero speciale. Anche in questo mondo era chiaro come lei vivesse un tipo di vita superiore. Io avevo visto la sua anima. Mi aveva toccato. In questo mondo di miseria, dolore e orribili ingiustizie, Didine era la mia meraviglia, la mia felicità. E a Jersey divenne la mia follia.
Quando muore qualcuno che ami così teneramente, ti assenti dal mondo per un periodo, e vivi solo di dolore. La pena di esistere senza l’altro è troppo dura da sopportare. È soltanto con lentezza che si ritorna alla vita. Ad avere appetito e non a mangiare solo per sopravvivere. A versarsi un buon bicchiere di vino e non a bere solo per placare la sete. A sentire cosa si dice intorno a te e a rispondere. A sentirsi irrequieti tanto da esprimere indignazione sull’operato degli uomini di Stato, del clero, del governo. È un processo lento. E così un giorno, guardando l’alba sorgere, ti accorgi che tua figlia è morta ma tu no: tu sei vivo.
Ciò che ancora non sapevo era che un simile dolore sarebbe durato per sempre, saldo come il mio amore. Il mio lutto per Didine è una cosa vivente. Il mio desiderio di rivederla non è mai venuto meno, non si è mai smorzato. Non ho mai smesso di agognare di sentirla parlare, di vedere i suoi occhi accendersi per una risata, di sentirla chinarsi su di me per leggere quello che sto scrivendo. Ah, se solo potessi ancora, una sola volta, conversare con mia figlia sulle mie idee, su quelle idee che erano anche sue.
Per tutti questi anni ho desiderato di sognarla, almeno una volta. Di ricevere una sua visita dietro le mie palpebre abbassate. Ho pregato il terribile dio che me l’ha sottratta di permettermi di vederla di nuovo. Anche solo per dirle addio. Per scusarmi con lei di non essere stato là quando l’hanno sepolta. Per spiegarle che mi sono afflitto ancora di più per quello. Ho pregato un dio, che non è misericordioso, di lasciarmi scorgere dove fosse mia figlia, in modo da sapere che aveva oltrepassato il cancello ed era salva nell’abbraccio celeste. Ma nemmeno nel sonno mi è stato concesso di essere visitato dalla mia morta.
Fu così che, poco dopo il nostro arrivo a Jersey, nell’anniversario della scomparsa di Didine, la mia amica d’infanzia e drammaturga Delphine de Girardin venne a trovarci, per una settimana, da Parigi. Insieme a ogni sorta di prelibatezze e di delizie portò con sé una sorta di diavoleria alchemica. E da quel momento niente fu più come prima.
A Jersey i miei riti giornalieri non sono molto diversi da quelli parigini. Ceniamo quasi sempre en famille. Di solito un pasto semplice di pesce, verdure, pane fresco, vino e un dolce. La nostra cuoca di qui è tanto brava quanto quella che avevamo a Parigi, ma più giovane e davvero aggraziata. La tarte fromboise di Caroline è deliziosa come le sue labbra, che occasionalmente ho avuto il piacere di assaporare.
Per la cena in onore di Delphine, Caroline aveva preparato un banchetto che iniziava con una delicata zuppa di ostriche e finiva con una mousse al cioccolato semplicemente perfetta. Tutto superlativo come lo si potrebbe trovare al Grand Véfour di Parigi.
Durante la cena nessuno accennò all’anniversario della scomparsa di Didine. Io e mia moglie vivevamo quel lutto tutti i giorni, per noi non esistevano distinzioni. E non c’era motivo di rovinare agli altri la serata con discorsi così dolorosi. Delphine, al contrario, ci riempì la serata con tutti i pettegolezzi della capitale. Cosa combinavano i nostri amici. Chi si era trasferito in campagna. Quali opere teatrali avevano avuto successo e quali erano state dei fiaschi. Gli affari di cuore e gli scandali. I ristoranti che erano stati aperti e quelli che avevano dovuto chiudere.
E poi ci raccontò dell’ultima pazzia che contagiava la città: un passatempo salottiero che si chiamava tavole parlanti e che permetteva di comunicare con i morti.
L’infelice parola riecheggiò nella sala. Si accorse Delphine di come mia moglie mi guardò furtiva? Di come io distolsi lo sguardo dal dolore che lessi nei suoi occhi? Di come mio figlio Charles trangugiò in fretta l’intero calice? Di come suo fratello François-Victor si schiarì la gola, di come la mia figlia più piccola, di nome Adèle, come la madre, abbassò lo sguardo sulle ginocchia, con gli occhi immediatamente pieni di lacrime?
Se Delphine si rese conto delle nostre reazioni, non lo diede a vedere. Senza prender fiato continuò il racconto, descrivendo le sedute a cui aveva partecipato e gli spiriti che avevano davvero visitato gli astanti.
Sono sempre stato curioso riguardo alla capacità della mente di oltrepassare i propri confini fisici per addentrarsi nell’aldilà. Uno dei miei esperimenti mi ha portato a formare, insieme ai miei am...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. 33
  38. 34
  39. 35
  40. 36
  41. 37
  42. 38
  43. 39
  44. 40
  45. 41
  46. 42
  47. 43
  48. 44
  49. 45
  50. Ringraziamenti
  51. Nota dell’Autrice
  52. Postfazione