1
Una stanza segreta
Continuò a guardarla.
La brezza leggera del mattino entrava da una delle finestre del palazzo accarezzando i vestiti bianchi della giovane elfo. Chinata sul pavimento di marmo, Sharadah non sembrava nemmeno più la stessa. I lunghi capelli castani erano sciolti e gli indumenti umani che portava di solito erano stati sostituiti da abiti elfici.
In fondo era pur sempre una principessa, anche se nessuno la chiamava più così. E neanche lei si riteneva la principessa di Faleval, ormai. Non da quando era partita, un anno prima, e tornando a casa era stata costretta ad attaccare il suo popolo, a infiltrarsi nel suo stesso palazzo e uccidere anche l’ultima superstite della famiglia reale.
Sharadah rimase lì, in ginocchio, a guardare il corpo inerte della regina Teredett, la donna che un tempo era stata sua madre. La sovrana era accasciata al suolo, priva di vita, la chioma candida sparsa con una grazia che neanche la morte era riuscita a toglierle. E sua figlia non poteva fare a meno di continuare a osservarla, neanche ora che erano passati quasi tre giorni.
Le orecchie a punta di Sharadah fremettero a un rumore di passi decisi. Il portone bianco e decorato si spalancò bruscamente. Ranten, un ragazzo umano, alto, con i capelli lisci e neri, gli occhi grigi come schegge di ghiaccio, entrò nella sala. Il suo viso era una maschera di perfezione e serietà , l’andatura leggermente zoppicante. L’occhio destro era coperto da una striscia di garza legata intorno alla testa, lo stesso occhio ferito da una freccia mentre tentavano di introdursi nel castello.
Dal suo portamento autoritario, dalla giubba nera da pirata e dalla spada che gli pendeva al fianco, si intuiva subito che non era un tipo facile.
«Abbiamo controllato anche l’ultima torre. Niente.» Si avvicinò a una delle grandi finestre, lo sguardo pensieroso. «Probabilmente non è nelle Triadi.»
«E dove altro vuoi che sia?» intervenne Requel, entrando al suo seguito.
Anche lei sembrava molto cambiata dall’anno prima: i capelli rossi erano più lunghi e lo sguardo verde e determinato possedeva una serenità nuova. Eppure, rimaneva una delle migliori guerriere che Sharadah avesse mai conosciuto. Requel si fermò, notando che Sharadah fissava ancora il cadavere della regina Teredett. Le si avvicinò e fece per sfiorarla, ma la elfo si scostò: non aveva bisogno di compassione. Sharadah coprì il corpo di sua madre con un lenzuolo preso dalle stanze reali e si alzò di scatto lasciando ondeggiare i capelli.
«Non abbiamo più tempo» le disse Ranten lanciando un’occhiata fuori dalla finestra.
Metri e metri più giù, le strade di Faleval brulicavano di soldati elfici appostati a ogni angolo. Vestiti delle loro armature bianche, li stavano aspettando; attendevano pazientemente il giorno e l’ora in cui sarebbero stati costretti a uscire da lì.
«Prendere possesso delle Triadi non è stato difficile» mormorò Ranten.
No, non lo era stato, ma solo perché Sharadah conosceva un passaggio segreto che li aveva portati direttamente all’interno delle tre torri, laddove risiedeva la famiglia reale. Da allora si erano barricati all’interno.
«Non credo che potremo restare qui ancora per molto» continuò il capitano. «Se gli elfi si stancassero di aspettare e decidessero di sfondare le nostre barricate, allora sarà stato tutto tempo sprecato. Dobbiamo trovare quella dannata sirena!» disse battendo un pugno sulla cornice della finestra.
«Ma è ovvio che non è nelle Triadi, visto che le abbiamo setacciate da cima a fondo.»
«Forse dovevamo solo cercare meglio» si intromise Requel, giusto per farlo innervosire.
Ranten le scoccò uno sguardo furente ma non raccolse la provocazione.
«Forse…» Sharadah sollevò il volto pallido, «ci sarebbe una stanza che non potete aver controllato.»
Ranten e Requel la guardarono.
«È molto ben nascosta e nemmeno io vi avevo accesso, anche se non mi hanno mai spiegato perché. Sarebbe il luogo perfetto per rinchiudere una prigioniera.»
Requel fece spallucce. «Bene, allora. Non ci resta che quella.»
Sharadah infilò la porta con passo elegante, ma l’ex mercenaria si fermò ad aspettare il capitano. Lui si allontanò dalla finestra e sibilò cupo: «Poteva anche dircelo prima».
La elfo accese un palmo di luce azzurra e prese a guidarli giù per una buia scala a chiocciola. Si rimproverò di non aver pensato prima a quel luogo. Gli avvenimenti degli ultimi giorni l’avevano sconvolta; sapeva di non aver dato davvero il suo contributo dalla notte in cui era morta Teredett e loro si erano introdotti nelle Triadi, in cima alla città -palazzo di Faleval. La discesa sembrò non finire mai. I loro passi riecheggiarono centinaia di volte tra le mura di pietra bianca, poi la strada si interruppe davanti a una porta dagli intarsi lattei, senza maniglia né serratura: un ingresso che solo un elfo poteva aprire. Sharadah posò la mano sul battente e chiuse gli occhi, concentrandosi. Ci fu una luce intensa e l’aria si riempì di fruscii sinistri. Quando la elfo riaprì le palpebre, la porta svanì come fosse fatta di fumo. Sharadah entrò senza voltarsi mentre Requel e Ranten la seguirono guardandosi intorno. La sala era enorme, perlacea, decorata in ogni angolo da meravigliosi fregi, come ogni stanza in quel palazzo, e completamente vuota. Si udiva un rumore sommesso, un impercettibile scrosciare d’acqua. Si accorsero allora che in fondo alla sala c’era una vasca trasparente, simile a un’enorme ampolla. Qualcosa nuotava sinuosamente al suo interno. Una figura femminile, umana solo per metà : dalla vita in giù si dimenava una luccicante coda di pesce.
Una sirena. E non poteva essere altri che Ea. La marinide schiacciò le mani contro il vetro e il suo volto pallido fu sfiorato dalla luce delle lanterne bianche appese alle pareti.
«State indietro» disse piano Sharadah.
Sollevò una mano e stavolta la luce azzurrina crebbe dal suo palmo fino a illuminare l’intera sala. Ranten e Requel si coprirono il volto con le braccia. La vasca andò in frantumi e l’acqua si riversò sul pavimento di marmo. Tra le schegge di vetro si muoveva qualcosa di viscido e lucido. La sirena si sollevò a fatica, i capelli blu come il mare che le cadevano gocciolanti sul viso.
Accompagnata dal rumore di uno strappo, la coda della sirena si divise improvvisamente in due parti, le squame si appiattirono sui muscoli, formando due gambe verdi e quasi del tutto incapaci di camminare. Con difficoltà , la sirena riuscì a mettersi in piedi; le sue caviglie si piegarono, poco abituate a sostenere il peso del corpo. Un principesco abito verde fatto di alghe le scivolò addosso, come se anche quello fosse stato generato dalla sua pelle, e l’acqua che allagava il pavimento ne inzuppò l’orlo. Ea studiò i presenti con gli occhi di un verde chiarissimo, mentre alcune ciocche blu le ricadevano sulla fronte. Posò lo sguardo su Sharadah, Requel e infine Ranten, e un sorriso affiorò sulle sue labbra pallide.
Ma non certo un sorriso di gioia.
2
Etenn, cavaliere dell’Ordine Regina
Quella stessa mattina, nel palazzo di Oreah, molto lontano da Faleval, qualcuno si aggirava furtivo per i corridoi. Era poco più che una ragazzina, bassa e minuta, i capelli castani tagliati corti. Si appiattì dietro il muro con un sorrisetto, le orecchie, piccole e a punta, tese, pronte ad avvertire anche il più lieve dei respiri. Stavolta non si sarebbe fatta scoprire.
Sgusciò oltre la piccola porta che conduceva alle cucine buie. Nonostante l’oscurità , la ragazzina si mosse agile tra i tavoli e il forno di pietra. Inciampò contro un paio di sacchi, ma si rialzò all’istante e ne aprì uno. Respirò l’aroma di pane che ne fuoriusciva. Doveva essere stato sfornato dal miglior fornaio di Oreah: quello era il pane che piaceva ai nobili, e anche a lei non sarebbe dispiaciuto assaggiarlo. Infilò una mano nel sacco con l’acquolina in bocca.
«Ferma dove sei, disgustosa ladruncola!»
Una luce azzurrina la investì. La ragazzina schivò il colpo saltando via, ma senza lasciare la presa sul suo bottino. Atterrò sul pavimento di pietra e si guardò intorno in cerca di una via d’uscita, ma la porta era troppo lontana. Era in trappola.
«Etenn!» chiamò in preda al panico.
Ma Etenn non poteva sentirla, perché non era lì. Era a Varvaria, in una bella estate calda, e aveva dieci anni. Il ragazzo scivolò rapido lungo la collina, raggiunse il campo del vecchio Nell e lo attraversò senza troppi complimenti. Gli avevano ripetuto almeno un migliaio di volte di non passare da lì, ma lui ci andava lo stesso. Che gli importava di dare ascolto ai genitori? Loro a stento si accorgevano di lui, tutti presi da suo fratello Caliel, che presto sarebbe diventato cavaliere, mentre Etenn era solo un bambino coi capelli biondi e spettinati, i vestiti logori e sporchi di paglia. Un giorno, però, sarebbe diventato un grande guerriero, se lo sentiva.
Piccolo com’era, si intrufolò tra due assi dello steccato di Nell e ruzzolò dalla parte opposta. Si rialzò di scatto e corse verso i campi di grano, afferrando al passaggio lo spadone di legno che lasciava ogni giorno nello stesso posto. Etenn era sempre stato molto veloce; corse lungo gli stretti sentieri, i capelli d’oro scompigliati dal vento, poi si tuffò nella vegetazione incolta e scese lungo il fianco della collina, inciampando spesso, finché il sentiero non scomparve. Si fermò in una piccola radura erbosa, lontana dalla campagna e vicina alla foresta Liisy. Lì, quattro grossi alberi formavano un cerchio quasi perfetto: Etenn si mise proprio al centro e nella sua mente quegli alberi diventarono guerrieri. Allora sfoderò la spada di legno e la puntò contro il primo.
«In guardia, vigliacco!» intimò all’albero, che rimase immobile. «Hai paura, vero? Lo so, tutti temono Sir Etenn, il… il Cavaliere Impavido!» Fu il primo nome che gli venne in mente. A Caliel sarebbe piaciuto.
«Vuoi scappare, eh? Be’, non posso darti torto, perché… Ahaaa!»
Inciampò e rotolò giù dalla collina, atterrando con un tonfo, di schiena, sull’erba secca. «Già , il Cavaliere Imbranato…» mormorò cupo.
Chiuse gli occhi, deciso a rimanere lì a terra per tutto il giorno. Perché non era forte e robusto? Perché non era un cavaliere? Perché non era come Caliel? Mentre si tormentava con queste domande qualcosa gli accarezzò d’improvviso i capelli. Aprì gli occhi di scatto e saltò in piedi brandendo goffamente la spada di legno. Davanti a lui c’era un cavallo che masticava un ciuffo d’erba. L’animale lo fissò coi suoi grandi occhi neri, drizzò le orecchie e fece un passo verso di lui, con tutta l’aria di voler assaggiare anche un ciuffo di capelli biondi. Etenn arretrò e fece per fuggire quando si ritrovò faccia a faccia con un secondo stallone. Il ragazzino fece una smorfia, lo aggirò e corse a nascondersi dietro un gruppo di cespugli. Si accucciò e scrutò le bestie. Non sapeva che lì ci fosse un allevamento di cavalli.
«Etenn!»
Il ragazzo si voltò. Sua madre stava in piedi dietro di lui, con un abito celeste e una mantella bianca che le riparava il capo dal sole. «Etenn, che cosa fai qui? Credevo fossi a casa.»
Etenn si affrettò a ripulirsi, ma non fece in tempo a dire niente che suo padre si avvicinò. Era un uomo alto, corpulento e rude, con capelli e barba folti e scuri.
«Che cosa ci fai qui?» disse bruscamente. «Non sarai passato dal campo del vecchio Nell, vero?» E gli mollò un ceffone, conoscendo già la risposta.
Etenn voltò la testa per colpa della sberla, ma non disse niente: c’era abituato. La madre si chinò sul piccolo, gli massaggiò la guancia e gli accarezzò la testa, ma non si oppose al marito: sapeva bene che era meglio non farlo.
«Visto che ormai sei qui, tesoro, perché non raggiungi Caliel?» disse con dolcezza la donna. «È lì, guarda: oggi dovevamo accompagnarlo a comprare un cavallo, ricordi?»
Etenn odiava i cavalli, ma qualunque scusa era buona per sottrarsi agli schiaffi del padre. Mollò la spada e corse via, attraverso il prato. Una volta immerso nell’erba fino alla cintura, ci mise poco a scorgere Caliel e subito gli corse incontro. Era un sedicenne alto, con i capelli neri e gli occhi azzurri come quelli della madre.
«Ehi! E tu che ci fai qui?» Caliel si voltò allegro e gli scompigliò giocosamente i capelli.
Etenn si divincolò dalla presa, ridendo.
«E tu cosa fai?» gli chiese di rimando il ragazzino.
«Sto comprando un cavallo. Guarda, è quello lì. Ti piace?» Caliel si chinò all’altezza del fratello e gli indicò un destriero lontano.
Etenn rimase sbalordito: era bellissimo. Il cavallo sollevò il capo e la criniera bianca si agitò al vento, mentre gli occhi neri si perdevano nel cielo.
«Wow!» esclamò il piccolo. «Hai già trovato un nome?»
L’altro ci pensò su.
«Mi piacerebbe chiamarlo Mancinopeh. Come uno dei dieci cavalieri che furono più fedeli a Regina.» Caliel tornò a guardare lo stallone. «In fondo… presto sarò anch’io un cavaliere.»
Si voltò verso il fratello e gli sorrise. Ma Etenn non ricambiò. Abbassò il volto, invece, rabbuiandosi.
«Già …» mormorò.
L’attimo dopo il campo dorato svanì, sostituito da uno scenario molto più cupo. Era notte. Pioveva. Etenn adesso aveva quattordici anni, e si faceva strada nel folto della foresta Liisy. Correva. Qualcuno lo seguiva. Raggiunse una radura illuminata e vi entrò. Un cavaliere dell’Ordine Regina stava in piedi davanti a lui, di spalle.
Etenn ansimava, ma non riusciva a sentire neppure il suono del proprio respiro. Pessimo segno: quel posto pullulava di Varles. Eppure il cavaliere si girò come se lo avesse sentito arrivare: aveva i capelli neri, lunghi e fradici, e gli occhi azzurri. Caliel gli sorrise. Etenn fece per andargli incontro, ma si bloccò: una spada nera trapassava suo fratello da parte a parte. La spada di un Varles. Caliel cadde per terra. E in quell’istante tutto si oscurò, perdendosi nel buio…
«Caliel!»
Etenn si drizzò a sedere, il respiro affannato. Ci mise un po’ per calmarsi. Le ampie finestre inondavano di luce la sua stanza regale, arredata con mobili pregiati e dipinti alle pareti. Si grattò la nuca ripensando a quel sogno. Sospirò e scostò le lenzuola ricamate, poi si fece largo tra le tende del baldacchino, mise giù i piedi e cominciò a infilarsi gli stivali. Era stato solo un sogno, solo un ricordo, e per fortuna era finito....