Dark Heroine - Io amo un vampiro
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Dark Heroine - Io amo un vampiro

  1. 253 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Dark Heroine - Io amo un vampiro

Informazioni su questo libro

Violet ha preso la decisione più difficile della sua giovane vita: rapita per aver assistito a una strage di umani compiuta dai vampiri, rimasta prigioniera perché figlia del ministro della difesa inglese, ha scelto di tradire la sua razza e rimanere con i nemici, con i non morti che nascondono la loro ferocia sotto l'apparenza di giovani bellissimi. Soprattutto uno: Kaspar, il principe dei vampiri, bello da togliere il fiato, capace di atti di crudeltà e ferocia e di momenti di dolcezza e compassione. Ed è proprio il principe la causa della scelta di Violet, che si è perdutamente innamorata di lui, nel cui petto brucia la stessa passione. Ma come possono amarsi, se le loro razze sono in guerra e se il padre di Kaspar, il re della corte vampira, ha deciso che i due dovranno stare lontani l'uno dall'altra per punire il figlio per la sua ribellione? Violet, divisa tra due mondi, ha una sola speranza, far cessare la guerra segreta che insaguina le strade di Londra. L'unica possibilità risiede nella profezia secondo la quale Nove Eroine porteranno la pace tra umani e vampiri. Che sia Violet una di esse?

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Informazioni

Print ISBN
9788845199271
eBook ISBN
9788865971758

1

Violet

Il bollitore fischiò. Ero seduta su uno sgabello, la testa tra le mani, distrutta, sopraffatta. Il fischio acuto mi rimbombava in testa e si univa al tintinnio delle pentole appese ai muri, riempiendo la stanza.
Rabbrividii, ma non per il freddo. Qualcuno spense il fornello e il vapore dell’acqua bollente mi solleticò il naso.
Mi alzai sui gomiti e vidi Kaspar piegato sotto il bancone. Rovistò tra le stoviglie per un istante, poi imprecò e borbottò che sarebbe tornato subito.
Appoggiai di nuovo la testa sulle braccia e rimasi in ascolto del mio debole respiro nel silenzio innaturale della casa, rotto soltanto dal fischio del bollitore.
Un altro respiro si unì al mio e sbirciai da sotto i capelli: Kaspar era tornato con una bottiglia.
«Scotch whisky del 1993, di ottima qualità. È l’ultima bottiglia della cantina, quindi non dirlo a mio padre. È molto affezionato ai suoi liquori.»
E io che pensavo che in cantina ci tenessero le bare.
Con un movimento fluido Kaspar stappò il whisky e ne bevve un sorso lunghissimo, una quantità che avrebbe messo al tappeto un umano in pochi secondi, ma che per un vampiro era poco più di un bicchiere di limonata.
«Ho detto tè, non whisky!» dissi, più debolmente di quanto avrei voluto.
Kaspar riappoggiò la bottiglia tenendo gli occhi fissi nei miei. Senza nemmeno aggiungere latte o zucchero, mi porse una tazza fumante e in un attimo fu accanto a me, la bottiglia stretta nella mano.
«Fidati, dopo una giornata come questa un sorso di whisky è quello che ci vuole» ribatté versandone una buona dose nella mia tazza. Lo guardai dubbiosa. «Sembra che tu abbia visto un fantasma. È buono, smettila di fare quella faccia.»
Esitante, ne presi un sorso e per poco non lo sputai. La combinazione tra il retrogusto torbato del whisky e il sapore erboso del tè era nauseante. Mi sforzai di deglutire – avevo la bocca secca –, e un secondo dopo sentii la gola bruciare, e non perché il tè era bollente. La stanza sembrò capovolgersi, così, per fermare le vertigini, cercai di concentrarmi su Kaspar, che intanto mi osservava preoccupato mentre vuotava il resto della bottiglia.
Riappoggiai la tazza quasi piena; mi girava ancora la testa. «Credo che lascerò il resto.» Mi girai e le nostre ginocchia si sfiorarono. Poggiai il mento sulle mani e chiusi gli occhi cercando di trattenere le lacrime, che spingevano dietro le palpebre senza che io potessi farci niente. «Dio…»
Avevo preso la mia decisione e adesso stavo malissimo. Avevo appena rinunciato alla mia sorellina malata, alla mia famiglia e ai miei amici, per non parlare della mia istruzione e della possibilità di una vita normale e libera da ogni costrizione.
Per cosa poi? Per un regno di creature malvagie, perverse e manipolatrici, che si nutrivano di esseri umani. Per il quarto figlio dei Varn, bello ma egoista, l’uomo che un giorno sarebbe stato a capo di quel mondo oscuro. Dovevo essere impazzita.
Eppure il pensiero che avrei potuto lasciarmi tutto alle spalle mi stringeva il cuore, non sapevo se per la felicità di essere rimasta o per protesta contro la mia scelta.
Mi accasciai sul bancone con un gemito, perfettamente consapevole di chi mi era seduto accanto. Perfettamente consapevole del suo sguardo penetrante e del suo petto che si alzava e si abbassava.
Che cavolo mi sta succedendo?
Credo proprio che la definizione giusta sia «sindrome di Stoccolma», suggerì compiaciuta la voce dentro di me, come se sapesse tutto. Sei stata plagiata. Congratulazioni.
Non sono ancora un’idiota totale, riuscii a ribattere. Se la mia voce avesse avuto le spalle, in quel momento le avrebbe scrollate.
No, non ancora.
«Che cosa ho fatto?» Non lo stavo chiedendo a Kaspar, era più un modo per dare voce ai miei pensieri. «Ho abbandonato Lily e tutta la mia famiglia, per…»
«Per cosa?» mi interruppe lui, brusco. Alzai la testa e vidi che i suoi occhi erano di nuovo grigi. «Perché non sei scappata? Potevi essere libera, e invece sei tornata!» Al suo improvviso cambio di tono la mia confusione svanì, lasciando il posto a una sensazione più inquietante che mi opprimeva il petto.
«Sei arrabbiato» mormorai in tono piatto. Scesi dallo sgabello e mi avvicinai a lui. Anche Kaspar si alzò e incrociò le braccia, quasi a porre una barriera tra noi. «Perché, Kaspar? Hai avuto quello che volevi, no? Un’umana da compagnia.
Qualcuno da tormentare e con cui giocare, da prendere in giro e ferire come fai con chiunque. E solo perché non riesci ad accettare il dolore che senti dentro di te. Proprio come tuo padre.»
Non riuscivo a credere di aver pronunciato quelle parole, ma proprio non ero riuscita a trattenermi. Come osa essere arrabbiato? Che motivo può avere?
Niente tradiva le sue emozioni, a parte il verde smeraldo dei suoi occhi, gelido e inespressivo in modo frustrante. Feci un altro passo verso di lui. Kaspar mi guardava come un adulto che sta per rimproverare una bambina capricciosa. Parlò con un tono calmo e misurato, come se sentisse il bisogno di spiegarmi l’origine della sua rabbia.
«Sono arrabbiato perché ti ho dato quella possibilità, Violet. La desideravi da tanto e non ne hai approfittato. Ora sei di nuovo prigioniera qui e presto te ne pentirai…»
«No.»
«Sì, invece. Ormai quella possibilità è persa, lo sai, vero? Volevi restare umana, ma non sarà più possibile. Ora si tratta di “quando”, non “se”.» Scosse la testa. «Non so più cosa pensare di te, adesso.»
Mi alzai sulle punte dei piedi. Mi rifiutavo di essere intimidita da quegli occhi, ora rossi e lucenti.
«No! Io non sono crudele come te. Sono io a non sapere cosa pensare. Un momento ti importa di me e il momento dopo mi odi. Deciditi, cazzo, come ho fatto io!»
Mi voltai, ma Kaspar mi prese per le spalle e mi fece girare di nuovo.
«Almeno io ho una buona ragione per essere come sono. Tu no. Perché hai deciso di restare?»
Socchiusi gli occhi. «Come mai ti interessa saperlo?»
«Perché, non dovrebbe?»
«D’accordo. Non lo so perché sono rimasta. Avevo un secondo per decidere e non mi fidavo di quegli ammazzavampiri.»
Strizzai gli occhi, sforzandomi di ignorare l’intensità del suo sguardo e maledicendo il mio cuore che, appena Kaspar aveva lasciato intendere che gli importava di me, aveva cominciato a battere forte.
«Non mi stai dicendo la verità.»
Chiusi gli occhi: sapevo di non poter mentire. Kaspar sospirò e mi strinse a sé mentre i suoi occhi tornavano verdi.
«Da cosa stai scappando, ragazzina?»
«Dovresti chiedermi verso dove sto scappando» mormorai appoggiata al suo petto. Sentivo le sue braccia sulla schiena; le maniche della camicia erano arrotolate.
Si irrigidì. «Cosa?»
«Non è poi così male qui. Credo di essermi affezionata a questo posto.»
Ero consapevole che avrebbe potuto leggermi nella mente e scoprire la verità, così alzai le difese, nascondendo tutto ciò che non doveva e non poteva sapere. Lui rise piano e io tirai un sospiro di sollievo.
«Ti dirò la verità.» Kaspar mi abbracciò forte, e d’un tratto mi sembrò davvero stupido che solo pochi istanti prima stessimo litigando. «Sono contento che tu sia qui, Violet. Ho bisogno di qualcuno da tormentare.»
«Grazie. Apprezzo il tuo sadismo.»
Lui rise ancora e appoggiò la testa alla mia. Sentivo il suo respiro e la sua mano tra i capelli. Quell’abbraccio mi fece perdere il senso del tempo. Eravamo entrambi felici che l’incubo di Londra fosse finito.
Dopo un po’ mi ritrassi e tornai a sedermi sullo sgabello. Avevo le guance in fiamme. La parola «intimità» non faceva parte del vocabolario di Kaspar.
«Gli altri se la prenderanno per le macchine?»
«No, troveranno qualcosa con cui passare il tempo» rispose lui. Rabbrividii al pensiero e mi si drizzarono i capelli sulla nuca. «Torneranno domattina con un sorriso soddisfatto.» Kaspar rise, e io fui presa alla sprovvista, ma non stupita, da quell’improvviso cambio di tono.
«Mentre tu sei bloccato qui insieme a me.»
Mi aspettavo che replicasse con una battutina o un commento tagliente, e invece fissò lo sguardo davanti a sé.
«Kaspar?» Non rispose, così mi rassegnai ad aspettare e bevvi un altro sorso di quel tè disgustoso.
«Violet, devo dirti una cosa.»
Un tuffo al cuore. Conoscevo quel tono: era lo stesso che aveva usato la dottoressa quando aveva convocato Lily e i miei genitori nel suo studio asettico; lo stesso dei poliziotti che, quando avevo aperto la porta, mi avevano chiesto con il cappello in mano dei miei genitori, perché dovevano parlare con loro di Greg. «Ci dispiace davvero tanto» avevano detto, come se il loro dispiacere e una tazza di tè potessero rimettere a posto le cose.
Alzai gli occhi per incrociare lo sguardo di Kaspar; la paura e l’orrore mi occupavano la mente, il cuore e lo stomaco. Sentii arrivare le lacrime: ero certa che non mi aspettava niente di buono.
Le pupille di Kaspar diventarono grigie. «Ho fatto una stupidaggine.» Fissò il pavimento, poi lentamente tornò a guardarmi. «Il consiglio interdimensionale ha sentito quando ti ho parlato di questo mondo mentre andavamo a Londra. Hanno detto che ti ho raccontato troppe cose, io mi sono arrabbiato e li ho mandati affanculo.»
Sgranai gli occhi, senza preoccuparmi di nascondere il nervosismo.
Kaspar riprese a parlare e io mi accostai a lui. «Ho umiliato il regno e ora sarai tu a pagarne le conseguenze.»
Mi si mozzò il respiro. «In che senso?»
Lui sfuggì il mio sguardo. «Da domani a mezzogiorno non posso più toccarti.»
Sentii un macigno crollarmi sulle spalle, e il mio cuore perse un colpo, esplodendo come un palloncino. Mi si annebbiò la vista e mi cedettero le ginocchia, tanto che dovetti aggrapparmi al bancone.
«Mio padre sa quanto ti desidero e, come punizione, mi ha proibito di avvicinarmi a te. Siamo le uniche persone assennate qui, e ha fatto in modo che ci perdessimo. Mi dispiace, Violet, davvero, perché ora la tua vita sarà un inferno e non per colpa tua. Scusami…»
«Domani a… mezzogiorno?» balbettai. Già immaginavo cosa il re avrebbe potuto farmi e un brivido mi corse lungo la schiena.
«Non gli permetterò di farti del male. Mai» ringhiò Kaspar. Avvertii una corrente d’aria alle mie spalle e presi un bel respiro cercando di dare un senso alle sue parole.
Era dentro la mia mente…
«Mezzogiorno?» Guardai l’orologio alla parete: era molto più tardi di quanto pensassi. Avvertii il tocco delle sue braccia attorno alla vita, poi il suo torace freddo contro la schiena. Brividi gelidi mi corsero lungo la spina dorsale e tra le costole.
«Non permetterò a nessuno di farti del male.»
Respirai a fondo. Quasi non credevo a ciò che mi passava per la testa, ma la sensazione che avvertivo sulla pelle era inconfondibile. Parlai, sforzandomi in tutti i modi di tenere sotto controllo l’ansia.
«Ma sei tu a farmi male.»
Kaspar indietreggiò appena, allentando la presa. Mi voltai. Era la mia ultima occasione prima che tutto cambiasse.
Pensavo che non avrei mai visto questo momento, disse la mia voce, con lo stesso affanno che avevo io guardando Kaspar.
Nemmeno io, le risposi.
«Ragazzina?»
«Mi arrendo.»
«Cosa?»
Un altro bel respiro. «Mi arrendo a te.»

2

Violet

Kaspar non disse nulla. Per un lungo e penoso istante restammo immobili, paralizzati; il suo petto che si alzava e si abbassava era l’unico movimento nella stanza. Per un lungo e penoso istante sentii sol...

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  24. Ringraziamenti