The Dark Heroine
eBook - ePub

The Dark Heroine

A cena col vampiro/Io amo un vampiro

  1. 592 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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The Dark Heroine

A cena col vampiro/Io amo un vampiro

Informazioni su questo libro

Amore e morte si mescolano in questo e-box che ha fatto battere il cuore delle ragazze di tutto il mondo. Due romanzi fantasy che raccontano le avventure di Violet e Kaspar e di come un bacio sul collo può cambiare la vita. Per sempre. A CENA COL VAMPIRO È un massacro quello cui assiste Violet una notte nel cuore di Londra. Sei ragazzi pallidi e bellissimi uccidono in pochi minuti una trentina di uomini adulti, armati di bastoni d'argento, muovendosi con agilità incredibile e forza sovrumana. Quando viene presa in ostaggio da loro Violet scopre chi sono: vampiri. Anzi, la famiglia reale vampira in guerra con quella umana, guidata dallo spietato principe Kaspar. Violet ha davanti una sola scelta: farsi trasformare… IO AMO UN VAMPIRO Violet ha preso la decisione più difficile della sua giovane vita: rapita per aver assistito a una strage di umani compiuta dai vampiri, rimasta prigioniera perché figlia del ministro della difesa inglese, ha scelto di tradire la sua razza e rimanere con i nemici, con i non morti che nascondono la loro ferocia sotto l'apparenza di giovani bellissimi. Soprattutto uno: Kaspar, il principe dei vampiri, bello da togliere il fiato, capace di atti di crudeltà e ferocia e di momenti di dolcezza e compassione…

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Informazioni

eBook ISBN
9788865973332
Copertina: A cena col vampiro; Abigail Gibbs
A wattpad.com.
Al team, per aver creato un luogo di condivisione.
A ogni membro che ha letto, votato, censurato e criticato.
Siete stati voi a dare forma a questa storia.

A Joanne e Terran, e infine a Soraya.
Avete aiutato una bambina dallaltra parte del mondo,
dandole lincoraggiamento di cui aveva bisogno.
Siete stati voi a iniziare questo viaggio.
O Rosa, sei malata!
L’invisibile verme
che vola nella notte,
nell’urlante tempesta
ha violato il tuo letto
di purpurea gioia:
e di te col segreto
cupo amore fa scempio.
William Blake, La rosa malata

1

Violet

Trafalgar Square non è forse il posto migliore in cui trovarsi all’una del mattino. In realtà, se sei da solo, non lo è mai quando fa buio.
L’ombra della Colonna di Nelson incombeva sulla piazza e io rabbrividivo all’aria fresca di quella notte di luglio che soffiava tra gli edifici. Mi strinsi nel cappotto, tremante: cominciavo davvero a pentirmi per il vestitino nero striminzito che avevo deciso di indossare. Quanti sacrifici per una serata fuori.
Feci un salto, spaventata, ma era solo un piccione che mi svolazzava tra i piedi; intanto scrutavo le strade deserte in cerca dei miei amici. E tutto solo per uno “spuntino di mezzanotte”. Il sushi bar era a due minuti da lì: ne erano passati venti. Alzai gli occhi al cielo: poco ma sicuro, qualcuno era già a divertirsi tra le lenzuola. Buon per loro. Perché si sarebbero dovuti preoccupare della cara, piccola Violet Lee?
Mi diressi verso le panchine, riparate dalle rade e scure fronde degli alberi. Liberai un sospiro e sfregai le mani sulle ginocchia per riattivare la circolazione, rimpiangendo la decisione di non essere andata con gli altri.
Un’ultima occhiata alla piazza, poi presi il cellulare e premetti il tasto di chiamata rapida. Continuò a suonare a vuoto, poi, alla fine, scattò la segreteria.
«Ciao, sono Ruby. Adesso non posso rispondere, lasciate un messaggio dopo il segnale. Pace!»
Al bip della segreteria mi sfuggì un gemito di frustrazione. «Ruby, dove cavolo sei? Se sei con quel tipo, giuro che ti ammazzo! Fa un freddo cane! Richiamami appena senti il messaggio.»
Chiusi la chiamata e feci scivolare il cellulare nella tasca interna del cappotto. Sapevo che quella telefonata era del tutto inutile: probabilmente sarebbero passati giorni prima che Ruby ascoltasse il messaggio. Strofinai le mani l’una contro l’altra e raccolsi le ginocchia al petto per riscaldarmi un po’. Ero combattuta, forse avrei dovuto prendere un taxi e tornare a casa. Ma se poi Ruby si fosse fatta viva, sarebbero stati guai. Ormai rassegnata a una lunga attesa, appoggiai la testa sulle gambe, in silenzio, osservando la foschia arancione che avvolgeva Londra.
Dall’altra parte della piazza alcuni ritardatari ubriachi scomparvero barcollando in un vicolo buio insieme alle loro risate roche. Qualche minuto dopo un autobus rosso a due piani con la scritta VISITATE LA NATIONAL GALLERY stampata lungo la fiancata spuntò proprio da dietro l’attrazione che pubblicizzava. Fece il giro della piazza, poi sparì nel dedalo di edifici vittoriani che dominavano il centro della città, portando con sé il lontano brusio del traffico londinese.
Mi chiesi quale dei due ragazzi che avevamo conosciuto quella sera avesse fatto colpo su Ruby. Sentii una stretta di rimpianto: mi sarebbe piaciuto essere spensierata e, ecco, disinvolta quanto la mia amica. Ma non ci riuscivo. Non dopo Joel.
Passarono altri minuti e cominciai a sentirmi a disagio. Da un po’ per le strade non c’erano più nemmeno gli ubriachi e l’aria fredda della notte si era attaccata come un lenzuolo sulle mie gambe nude. Mi guardai intorno in cerca di un taxi, ma le vie erano vuote e la piazza deserta, fatta eccezione per la luce che saliva come schiuma sulla superficie dell’acqua nelle due fontane ai lati della colonna.
Presi di nuovo il telefono, pensando di chiamare mio padre e chiedergli di venirmi a prendere. Poi con la coda dell’occhio vidi qualcosa brillare. Balzai in piedi e per poco non mi cadde il cellulare; con il cuore in gola scandagliavo la piazza cercando di distinguere il più piccolo movimento.
Niente. Scossi la testa e cercai di calmarmi. Sarà stato un piccione. Con le dita intorpidite dal freddo iniziai a comporre il numero di casa, ma ogni secondo sollevavo lo sguardo nella speranza che il respiro rallentasse.
Invece no, qualcosa si era mosso davvero.
Un’ombra era schizzata fuori da una delle enormi fontane, troppo in fretta perché i miei occhi potessero riconoscere una figura. Eppure nella piazza non c’era nessuno. Alcuni piccioni spaventati si alzarono in volo. Scossi di nuovo la testa, premendomi il cellulare all’orecchio. La linea gracchiò e suonò debolmente; saltava in continuazione.
Battei il piede impaziente. «Dai…» Un’occhiata al display: c’era campo.
Continuavo a osservarmi intorno mentre il telefono squillava a vuoto. Il mio sguardo si fermò sulla Colonna di Nelson che si stagliava per decine di metri sulla piazza. I riflettori che ne illuminavano la cima sfarfallavano come fiamme scosse dal vento, poi la luce tornò stabile e intensa come prima.
Un altro brivido, non di freddo questa volta. Pregavo che qualcuno rispondesse, ma la linea gracchiò ancora una volta e, dopo un ultimo pietoso squillo, cadde. Fissai il telefono con gli occhi spalancati, infine l’adrenalina cominciò a scorrermi nelle vene e l’istinto prese il sopravvento. Mi sfilai una scarpa con il tacco, lo sguardo incollato alla colonna, osservando incredula l’ombra che avevo visto pochi istanti prima sfrecciare al di là della statua per poi svanire all’improvviso così come era comparsa. Armeggiai con il cinturino dell’altra scarpa e mi tolsi anche quella, le presi entrambe tra le mani e cominciai ad avanzare. Dopo appena qualche passo, però, mi bloccai.
Un gruppo di uomini, tutti in soprabito marrone e con in mano lunghi bastoni da passeggio appuntiti, stava scendendo i gradini alla base della colonna. I loro volti erano scuri e segnati dalle intemperie, pieni di cicatrici, avevano tutti un’espressione tesa e risoluta. Si avvicinavano a passi pesanti, battendo una marcia irregolare che mi rimbombava nelle orecchie.
Ero sbalordita. Indietreggiai nell’oscurità, accucciandomi in silenzio dietro alla panchina. Non osavo nemmeno respirare. Cercavo di farmi più piccola possibile per non essere vista, e intanto guadagnavo il limite della piazza.
L’uomo alla testa del gruppo abbaiò qualcosa e gli altri si sparpagliarono, disponendosi in una linea che si allungava da una fontana all’altra, occupando l’intero diametro della piazza. Dovevano essere almeno una trentina. Si fermarono davanti alla colonna, quasi fossero una cosa sola, immobili, con i soprabiti che si sollevavano e si gonfiavano al vento.
Dagli alberi non arrivava nemmeno un fruscio di foglie. Ognuno di loro guardava dritto davanti a sé, concentrato e risoluto, in attesa. Lanciai un’occhiata alla sommità della colonna, ma la statua era illuminata come al solito; le uniche ombre erano quelle degli uomini e degli alberi sotto cui mi ero riparata. Qualche foglia fluttuò languida per poggiarsi sulla panchina accanto a me.
Poi accadde.
Una serie di movimenti frenetici, e d’un tratto la piazza prese vita. Qualcosa spuntò fuori da dietro gli alberi, levandosi in volo e schizzando alta sopra la mia testa. Atterrò sulla pietra dura vacillando appena, a una decina di metri da me. Battei le palpebre: non riuscivo a credere che quanto avevo appena visto potesse essere una persona, ma prima che potessi guardare meglio, quella cosa, qualunque cosa fosse, scomparve.
Colti di sorpresa almeno quanto me, gli uomini indietreggiarono di qualche passo, impauriti. Quelli alle due estremità della linea si spostarono verso l’interno, finché colui che credevo essere il capo non ristabilì l’ordine alzando una mano. Tirò fuori dal soprabito un bastone d’argento, un’estremità affilata in una punta letale. Con una torsione del polso lo allungò del doppio. Lo brandì in aria un paio di volte, quasi volesse ammirare il modo in cui brillava catturando la luce. Le sue labbra si incresparono in un sorriso soddisfatto, poi rimase immobile, ancora una volta in attesa.
Il capo era alto, magro e piuttosto giovane, vent’anni al massimo; diversamente dai suoi uomini non aveva cicatrici sul viso. I capelli corti erano così chiari da sembrare quasi bianchi, in netto contrasto con la lunga giacca di pelle e la carnagione scura. Il suo sorriso si allargò e gli occhi fiammeggiarono verso la figura che era atterrata a poca distanza da me. Trattenni il respiro. Ero sicura che si sarebbe accorto della mia presenza. Invece no, la sua attenzione era tutta per l’uomo che emerse da dietro le fontane.
No, non era un uomo, ma un ragazzo, non molto più grande di me. Aveva gli occhi infossati, la carnagione di un pallore cinereo, quasi traslucido, e la pelle tesa sulle guance scavate. Anche lui era alto e da sotto la maglietta stretta riuscii a scorgere il profilo dei muscoli. Le braccia erano bianchissime come il resto, ma coperte di macchie rosse, come se si fosse scottato al sole, e le labbra avevano un vivo color rosso sangue, lo stesso dei capelli arruffati, che gli stavano dritti sulla testa.
Il tempo di battere le palpebre, ed era sparito. Setacciai la piazza con lo sguardo e vidi apparire altri simili a lui, tutti pallidi e con lo stesso sguardo tirato. Circondarono il gruppo che occupava il centro della piazza, i volti segnati da un misto di divertimento e disprezzo. Sembravano saltare fuori dal nulla, sfrecciavano da una parte all’altra a velocità sovrumana per poi svanire e ricomparire un istante dopo. Mi stropicciai gli occhi: probabilmente ero solo stanca e non riuscivo a mettere bene a fuoco. Non potevano muoversi così velocemente.
Il ragazzo con i capelli rosso fiamma apparve di nuovo e si appoggiò alla fontana come se fosse il bancone di un bar. Accanto a lui vidi un altro tizio con i capelli biondo-sabbia, mi sembrava lo stesso che aveva spiccato il salto dietro di me.
Erano cinque in tutto, e quasi involontariamente stavano radunando al centro della piazza, come fosse un gregge, il gruppo di uomini con le lunghe giacche marroni. I loro volti scuri erano trasfigurati in un’espressione di paura e odio; ruppero i ranghi, indietreggiando di qualche passo con i bastoni abbassati. Solo il capo rimase immobile, e il suo sorriso si trasformò in un ghigno. Strinse il bastone al corpo e alzò la testa.
Improvvisamente vidi un uomo precipitare dalla colonna – dalla cima, ossia da oltre cinquanta metri. Cadeva sempre più veloce verso terra, verso una morte certa. Invece lo osservai atterrare dolcemente sulle pietre della piazza, davanti al capo della banda. Ero senza parole.
Tutto era immobile, poi per la prima volta il capo dei trenta uomini ebbe una reazione. «Kaspar Varn, che piacere rivederti» disse con un accento che non riuscii a riconoscere.
L’altro, Kaspar, si rizzò in piedi, l’espressione assente e imperscrutabile. Era alto quanto il suo interlocutore, ma aveva un fisico più muscoloso e robusto, tanto da far sembrare l’altro uomo molto più basso.
«Il piacere è tutto mio, Claude» rispose Kaspar in tono freddo, lanciando un’occhiata a destra e a sinistra e rivolgendo un cenno veloce del capo al ragazzo dai capelli color sabbia.
Osservai Kaspar con più attenzione. Come gli altri aveva una pelle bianchissima e con sfumature giallastre, ma perfettamente uniforme, senza alcun accenno di rossore. I capelli scuri, quasi neri, avevano riflessi castani; una ciocca gli ricadeva sulla fronte. Se possibile sembrava ancora più stanco degli altri, il viso ancora più ombroso, come se non dormisse da giorni.
Forse perché non dorme mai, mormorò una voce dentro di me. Non appena quel pensiero mi attraversò la mente, lui sembrò fissare un punto oltre il ragazzo dai capelli color sabbia. Inarcò un sopracciglio e io trattenni il respiro: stava guardando me. Anche se mi aveva visto, però, preferì lasciar perdere. Si girò di nuovo verso il capo, ritrovando la stessa espressione impassibile di prima.
«Cosa vuoi, Claude? Non ho tempo da perdere con te, né con il clan Pierre» disse il tipo coi capelli scuri rivolto agli altri.
Claude sorrise e fece scivolare un dito sulla punta affilata del bastone. «Eppure sei qui.»
Kaspar liquidò il commento con un gesto della mano. «Eravamo a caccia. Non è poi così lontano, dopotutto.»
Rabbrivid...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. A cena col vampiro
  4. Io amo un vampiro