L'amore è servito (Life)
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L'amore è servito (Life)

E se il supermercato fosse il posto migliore dove trovare l'anima gemella?

  1. 377 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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L'amore è servito (Life)

E se il supermercato fosse il posto migliore dove trovare l'anima gemella?

Informazioni su questo libro

Ci sono posti in cui, di notte, tutto appare diverso. Come il supermercato aperto ventiquattr'ore su ventiquattro dove Andrea, quarant'anni e un matrimonio fallito alle spalle, passa quasi ogni sera, rincasando tardi dal lavoro al giornale, per rimediare una busta di farro pronto. Perché Andrea in cucina è un vero disastro: già, non basta essere affascinanti e somigliare a un famoso chef della tv per essere dei maghi ai fornelli… Tra le corsie del supermercato è facile fare nuovi incontri, basta qualche parola per far scattare la complicità, ritrovarsi con un invito inaspettato e, magari, un piacevole dopo cena: c'è la giovane e affascinante studentessa con il complesso di Edipo, l'escort di lusso in vena di chiacchiere o la quarantenne separata che tenta di rifarsi una famiglia. E poi c'è Sophie, la ragazza sfuggente e misteriosa che lavora alle casse automatiche, e che sembra solo un'amica e una confidente fidata... La vita di Andrea è però sul punto di cambiare: la Direttora del giornale gli ha affidato una rubrica per cuori solitari e, tra consigli e risposte brillanti che regala ai lettori, anche lui forse inizia a capire qualcosa di se stesso. Non sarà che sotto quell'immagine di seduttore incorreggibile si nasconde un inguaribile romantico che vuole tornare a credere nell'amore?

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Informazioni

Sei mesi prima…

1

«Arturo, mi raccomando: il farro che ti ho ordinato prima fallo assolutamente perfetto. È per il nostro Andrea, capito?»
«Maria, certe cose non devi nemmeno dirmele, lo sai. Il farro di stasera è buono e basta. Nelle due ore di bollitura, sono stato lì a coccolarlo come fosse un bambino. Puoi tranquillizzare il ragazzo: come sempre, uscirà da qui soddisfatto come se avesse mangiato da sua mamma. Anzi, meglio.»
Le voci di Maria e di Arturo rimbalzano tra la piccola sala da pranzo della Latteria e l’ancor più minuta cucina. Come ogni sera, i sei tavoli del «miglior segreto nascosto» della gastronomia milanese sono stracolmi, e fuori dalla porta a vetri ci sono almeno dieci persone che aspettano un tavolo. In Latteria non si può né prenotare né pagare con la carta, ma da trent’anni la gente fa la fila lo stesso per assaggiare i piatti della casa, cucinati e serviti dalla coppia più fedele della Brera che mangia. Da sempre Arturo prepara cose semplicissime ma straordinariamente buone, Maria gestisce ordinazioni e conversazioni, mentre il figlio, dietro al bancone, si occupa di caffè, bevande e conti.
Ai tempi dell’università, per Andrea la Latteria era una specie di luogo sacro, un posto in cui si ritrovava con gli altri almeno un paio di volte alla settimana. Lì dentro si respirava un’aria diversa, quasi neutrale: politica e casini degli anni Ottanta non varcavano mai la tenda verde a fettucce che divideva la soglia dal mondo esterno. Da lì, dopo aver mangiato bene e tanto, finivano quasi sempre a bere e sparare cazzate al Tumbun, praticamente centro metri più avanti sullo stesso marciapiede di via San Marco. I muri del ristorante, quasi completamente ricoperti da quadri tanto brutti e kitsch quanto perfetti, sono da sempre una lavagna piena di ricordi. I due ritratti dei padroni di casa in perfetto stile Pollaiolo che uno studente di Brera, un po’ come faceva il giovane Picasso, regalò tanti anni fa a Maria e ad Arturo per pagare i molti pasti che non aveva potuto saldare, sono anche loro ancora lì, appesi nello stesso posto. In vent’anni qui dentro non è cambiato nulla, nemmeno il mitico tegamino d’oro in cui Arturo prepara le migliori uova all’occhio del pianeta.
Adesso, nelle serate in cui al giornale Andrea non finisce troppo tardi, la Latteria è ancora un appuntamento fisso, oltre che un ottimo incentivo per chiudere prima la rubrica: chi arriva dopo le dieci, da queste parti, non mangia neppure se si offre di lavare i piatti per tutta la settimana successiva.
«Eccolo qui, Andrea, il tuo farro fatto come Dio, anzi scusa, come l’Arturo comanda» annuncia Maria posando un piatto fumante davanti a lui.
Da quando il corpo di Andrea ha cominciato a impazzire per una serie di intolleranze, il farro, così come altri alimenti di cui prima nemmeno sospettava l’esistenza, è entrato di prepotenza nella sua dieta. Alla fine si è quasi rassegnato, anche se continua a pensare che ci sia molto di meglio; purtroppo per lui, gran parte di quel «molto» è ormai divenuto intoccabile, un po’ come la kryptonite per Superman, a meno che in preda a un momento di autolesionismo, non voglia procurarsi una bella reazione allergica. Con in mente le più turpi fantasie culinarie (tipo addentare una croccante focaccia di Recco col formaggio, altra cosa per lui ormai da tempo off limits), Andrea osserva con attenzione il piatto che gli è stato servito, da cui sale un profumino goloso. Poi comincia a mangiare, senza quasi respirare tra un boccone e l’altro.
«Niente male, Maria, davvero. Però adesso mi devi dire come fa l’Arturo a renderlo così saporito. È diverso, non sembra neanche farro, a dire la verità. Com’è che quando lo cucino io sembra becchime?»
«Perché il tuo problema, tesoro, non è imparare come renderlo saporito, ma imparare a prenderti cura di lui. Per prima cosa devi trovare il modo e il tempo per bollirlo, che significa non abbandonarlo a se stesso, stare lì a mescolarlo, guardare che l’acqua non sia troppo poca…»
«Sì, e magari parlargli anche un po’, come con le piante.»
«Esatto. Ci parli, Andrea, con le tue piante?»
«Non mi hanno mai capito. Sono morte tutte, da almeno cinque anni. Figurati se posso parlare col farro.»
«Sei sempre il solito.» Scoppia a ridere, poi fa finta di rabbuiarsi. «Però è ora che impari. Oppure che ti trovi una brava ragazza che sappia cucinare, così il farro te lo fai bollire da lei.»
«Bell’idea. E allora, Maria, diciamo che riesca a trovare una che mi ama così tanto da stare a casa a girare il mestolo per qualche ora, o che me lo prepari addirittura a casa sua e poi me lo porti in dote. A quel punto, che cosa faccio per arrivare a questo?» E indica il contenuto del suo piatto.
Lei sospira e sorride paziente: «Ti compri una bella ricottina, meglio fresca, ma va bene anche quella confezionata da supermarket. La metti in un pentolino con un po’ d’olio e l’ammorbidisci per qualche minuto, senza farla bruciare. Prendi una padella – perché ce l’hai una padellina in casa, vero? – e ci fai rosolare la pancetta a cubetti. Poi metti tutto insieme al farro, mescoli e mangi. Piatto ideale per uno come te che si fa tante storie con le proteine, la dieta, i grassi. Lì dentro c’è tutto, è perfetto».
«E tu mi assicuri che viene così, come questo.»
«Be’, proprio così sarà difficile, a meno che non ti porti a casa l’Arturo. Ma io non te lo mollo per niente al mondo!»
«Da quanti anni siete sposati?»
«Eh, da una vita, ragazzo mio. Comunque puoi cavartela anche senza di lui. E se poi non riesci a memorizzare neppure una ricetta così semplice, allora siamo davvero messi male e sono quasi trent’anni, se non sbaglio, che te lo dico, Andrea mio. Ma la tua mamma, santa donna, non poteva almeno spiegarti un paio di rudimenti? Almeno le basi, dico io. Così, giusto per permetterti di sopravvivere.»
«Eh, Maria, la santa donna non è poi così santa. Mi ha mandato per il mondo senza nemmeno insegnarmi a fare un risotto. Sono figlio di una donna senza cuore» ribatte Andrea, sospirando teatralmente.
«Ma finiscila. È una santa donna comunque, con un figlio disgraziato come te. E pensare che ai tempi della Statale ero già sicura che avresti fatto il giornalista, tanto per restare in tema di disgrazie. Che mestiere, che ti sei scelto» lo incalza.
«Sempre meglio giornalista che cuoco, no?»
Maria ridacchia: «Sì, anche se con quei capelli… Sai che sembri proprio uno di quegli chef della TV?» aggiunge, e adesso lo scruta seriosa.
«Ti prego, non dirlo anche tu. Abbi pietà, Maria: è la mia persecuzione. Al giornale ci sono un paio di segretarie invasate di cucina che non fanno che ripetermelo. Eh, come mi vedresti a gestire un due stelle Michelin?»
«Male, anzi malissimo. E secondo me lo sanno anche le tue segretarie. Non t’illudere: se lo immaginano che non sei proprio il re dei fornelli. Ti chiamano così solo per quella bella fronte alta, quello sguardo che taglia in due e la barba incolta, ma le donne lo capiscono subito se non sai cucinare. Magari non si accorgono se le tradisci, ma su questo hanno una specie di sesto senso. Figurati che io all’Arturo, la prima volta che l’ho visto, gli ho chiesto subito se mi preparava una pasta e fagioli» dice, sorridendo a modo suo.
«Povero Arturo, che inizio triste» la prende in giro Andrea. «Per non parlare della fine che ha fatto: tuo prigioniero qui da una vita…»
«Come osi, mascalzone che non sei altro!» Maria parte con una finta sberla che finisce sul viso di Andrea trasformandosi in carezza.
«Piuttosto, vorrei parlare a quattr’occhi con una di quelle che ti porti in giro la sera, magari con quella bionda, la danese, quella che prima veniva qui con il marito avvocato e poi, come se niente fosse, per un po’ ti ha seguito come un cagnolino. Oppure con la polacca, quella magra magra che avrebbe tanto bisogno di mangiare. Di solito quel tipo di donna, quella del Nord, sa cucinare poco e male e impazzisce per l’uomo latino bravo in cucina, ma siccome non mi sembra proprio il tuo caso, vorrei chiedere a queste signorine cosa ci trovano in uno che non sa nemmeno aprire una busta di 4 salti in padella.»
«Maria, sottovaluti le mie altre possibili doti» le fa lui, alzandosi per pagare al bancone e per cercare di troncare subito la conversazione prima che diventi imbarazzante. Maria, che da anni lo tratta quasi come un figlio adottivo, come tutte le mamme ogni tanto tende a travalicare i limiti della privacy e a dare consigli saggi, di cui però Andrea farebbe volentieri a meno.
«Be’, se quelle cercano i soldi» prosegue infatti, continuando a sorridere maliziosa, «con te mi sembra proprio che abbiano sbagliato mira.»
«Infatti, quando parlavo di altre possibili doti, intendevo qualcosa di molto diverso dal conto in banca, cara la mia dolce “tenutaria” del desco sublime.»
«Mi piace quando sei poetico» gli dice, prendendolo sottobraccio.
Alla fine, tra una chiacchiera e l’altra, Andrea è rimasto l’ultimo cliente e Maria lo congeda accompagnandolo fino alla porta, come fa solo con i veri habitué. Un ultimo saluto e lui si avvia verso lo scooter. Mentre attraversa la strada, sente alle sue spalle il rumore di ferraglia della serranda che si abbassa: lo stesso rumore di venticinque anni prima.

2

«Aspettate, vengo a sbloccarvi il terminale.»
La voce di Sophie si leva sopra il brusio della zona delle casse automatiche e raggiunge alle spalle due clienti fermi davanti alla macchina.
«Intanto magari, per far prima, togliete la spesa dal sacchetto…» aggiunge con tono piuttosto sbrigativo.
I due ragazzi, però, non danno segno di reagire; anzi, restano lì a fissarla con aria interrogativa.
Per Sophie è stata una giornata pesante: dentro al supermarket è capitato davvero di tutto, e l’unica cosa che vorrebbe in questo momento è essere già a casa, imbustata nel suo letto, davanti alla puntata registrata di Scandal, il telefilm per cui impazzisce. Le sue energie e il sorriso da brava ragazza sempre disponibile che indossa ogni giorno all’inizio del turno sono ormai pressoché esauriti, e i due giovani rischiano di essere la goccia che fa traboccare il vaso.
In realtà, il contatto diretto con i clienti è la parte del lavoro che le piace di più: adora poter guardare come le persone si vestono, si muovono, si atteggiano: la incuriosisce cercare di capire con chi ha a che fare di volta in volta partendo dall’aspetto.
A Sophie non sfugge niente. Quasi niente. Osservare è uno dei suoi passatempi preferiti, nonché la sua più grande abilità. Su molti dei clienti che le passano davanti, soprattutto su quelli che si ritrova ad aiutare, compie quello che le piace chiamare il reality check: una specie di radiografia silenziosa che dura quei pochi secondi che intercorrono tra la richiesta del suo servizio e lo sblocco del terminale. In quel lasso di tempo variabile tra i quaranta secondi e i quattro minuti, osservando la persona che ha di fronte, Sophie cattura la sua istantanea ad alta definizione e archivia dettagli: dalla marca degli occhiali alla linea del naso, dalla forma degli orecchini a quella delle mani, e poi ancora il taglio di un vestito, un accento straniero, il colore dei lacci di un paio di scarpe, una borsa sdrucita o la foto di un bambino che spunta da un portafoglio aperto.
Dai dettagli, poi, ama giocare a ricostruire identikit, come una profiler dei polizieschi. Ci sono indizi ovvi: se nel cestello il cliente ha cibo per gatti o latte in polvere basta fare due più due. Ma ci sono anche delle strane combinazioni, più complesse da decifrare, e sono quelle che la intrigano di più. Ad esempio, si ricorda di un esemplare femmina sulla sessantina, vestita con abiti di alta sartoria ma sciatta nella cura personale (ricrescita bianca e ciocche selvagge, senza trucco, unghie rovinate e perfino sporche), che dal cestello aveva tirato fuori, in sequenza: tre microscopici pezzettini di altrettanti formaggi di altissimo livello che da soli arrivavano a un totale di quaranta euro, un pacco di lamette da barba usa e getta, un flacone di Diavolina liquida e nove bottigliette del deodorante più economico (e terribile) che esista in circolazione. Sophie aveva verificato e non c’era nessuna offerta speciale su quella porcheria, così per settimane aveva continuato a fare congetture su cosa ci avesse fatto quella donna con tutta quella roba. Soprattutto col deodorante. Era rimasto un mistero inestricabile.
A fine turno, comunque, è troppo stanca per giocare al detective e diventa tutto più difficile. Questi due tizi, ad esempio, continuano a restare lì imbambolati come se non avessero sentito e, nonostante la sua pazienza quasi infinita, Sophie per un attimo ha voglia di mandarli a quel paese.
«Scusate, potete togliere la spesa dal sacchetto, per favore?» ripete, scandendo la frase come se stesse parlando a un bambino, e indicando la loro busta di plastica.
Le casse automatiche danno spesso dei problemi, non tanto perché non funzionino, quanto perché la gente non riesce proprio a capire come si usino; e dire che non si tratta di operazioni complicate: sul display appaiono chiare le istruzioni, passo per passo. Insomma, sono le persone, non le macchine, che si inceppano: a sera nessuno ha più tanta voglia di pensare, e allora si incartano su passaggi che anche un gorilla vagamente addestrato supererebbe facilmente. Questi due, oltretutto, sono pure giovani: se riescono a usare un cellulare, perché non ce la fanno con una cassa?, pensa Sophie, che per esperienza sa che è soprattutto per questo motivo che il check out automatico resta sempre mezzo vuoto: la gente preferisce stare in fila per venti minuti e lasciar fare a una cassiera, anche a una scorbutica, e non affrontare uno scanner come ostacolo conclusivo di una giornata di lavoro.
Scartando di lato i due ancora piantati lì, Sophie passa il suo badge sul lettore accanto allo schermo, annulla l’operazione, e poi rivolge di nuovo lo sguardo ai clienti. Sta per ripetere a pappagallo la solita frase che usa almeno trenta volte al giorno: «Adesso potete ripassare tutti gli articoli sul lettore», ma si ferma per un istante a osservarli, perché hanno qualcosa di particolare e non passano certo inosservati.
Quello di destra, capelli neri tirati indietro col gel, occhiali da vista con montatura di tartaruga Persol, viso incorniciato da una barba lasciata andare ma non troppo, dopo qualche secondo fa un cenno quasi imbarazzato all’altro. Anche lui sembra uscito dalla vetrina di Antonia uomo, il negozio dove si vestono i metrosexual milanesi. Quello con gli occhiali ha una giacca blu corta sui fianchi, da cui spuntano un cardigan beige bordato di bianco e una t-sh...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prologo
  6. Sei mesi prima…