1
Alla corte del Re Cremisi
L’uomo vestito di rosso abbassò lentamente la mano guantata, congedando i due funzionari venuti a perorare la causa degli abitanti delle antiche Fonderie, il quartiere più povero della Capitale, soffocati dalle ceneri. Non c’era nulla che potesse fare, e i postulanti aumentavano di giorno in giorno, ognuno con un problema da risolvere, una sofferenza, un’emergenza. Il re li congedava con una preghiera, un gesto della mano, un’esortazione ad avere coraggio e confidare nell’armonia del divino, in cui tutto si rigenerava.
Sotto il velo cremisi che lo copriva del tutto, Re Bannin cominciava a sentire la stanchezza. La corona d’oro premeva in modo fastidioso contro la pelle. Il velo incantato che celava il suo aspetto al mondo gli permetteva di vedere tutto senza essere visto.
Si rivolse al consigliere. «Sakrate, avvicinati.»
Sakrate obbedì, trascinandosi dietro le lunghe vesti da cerimonia.
«Dite, Maestà.»
«Congeda tutti. Per oggi non riceverò più nessuno.»
Sakrate annuì. Si voltò verso i postulanti e sollevò entrambe le mani per avvertire del termine dell’udienza.
«Il re si ritira. Salutate il re!»
Immediatamente, e senza alcuna protesta, chi rimaneva nella sala si inginocchiò sul pavimento di pietra. Poi tutti iniziarono a sciamare verso l’uscita.
Bannin si alzò dal trono di ossidiana lucida, ricoperto di cuscini cremisi come le sue vesti.
«Mi ritiro nei miei appartamenti. Non voglio essere disturbato, a meno che non si tratti di Daliha» disse il re, percorrendo la lunga navata verso l’uscita. L’ingresso alla sala del trono era sempre aperto, tranne in rari casi, a simboleggiare la costante disponibilità del re verso i suoi sudditi. Antiche tradizioni che avevano perso ogni sostanza: quella porta restava aperta solo per dare l’illusione che nulla fosse cambiato.
Un lungo corridoio curvo collegava la sala del trono al resto di Victad’ove, la cittadella in cui la famiglia reale aveva da tempo preso residenza, lontana dai fumi della Capitale e praticamente inespugnabile. Il re si incamminò verso la parete ovest, che si apriva sulla vista mozzafiato della vallata dei Fiordi. Sulla destra, porte e corridoi si perdevano dentro la roccia in cui era scolpito il Palazzo Reale.
Superò una porta, sbucando in un secondo e immenso corridoio che si perdeva oltre la roccia, verso nord. A sinistra un immenso colonnato lasciava entrare sole e aria, ma la vista era comunque circoscritta: gli bastava alzare il viso per incontrare con lo sguardo la volta scura di lava solidificata.
Si affacciò alla grande balconata, respirando a pieni polmoni l’aria frizzante di fine ottobre. Il sole era sbucato dalle nubi, lambendo con i suoi raggi l’immenso castello di pietra. Bannin desiderava più di ogni cosa di potersi togliere il velo e sentire il sole sul volto, ma come molto altro nemmeno quello gli era concesso.
Alle sue spalle udì il passo pesante delle guardie che sorvegliavano il corridoio. Si voltò di scatto. «Fermi» ordinò.
I due soldati si arrestarono sull’attenti, rigidi e imbarazzati nelle divise di cuoio nero e acciaio brunito ornate dalle insegne cremisi della Corona. Bannin si avvicinò con lentezza, lo sguardo invisibile puntato sulla pistola alla cintura di uno dei due.
«Fammi vedere questa… novità» disse, allungando le mani e facendosi consegnare l’arma. La canna misurava almeno quaranta centimetri e l’impugnatura era di legno lucido; nel tamburo di materiale trasparente si scorgevano gli ingranaggi d’ottone che componevano il meccanismo di sparo. Al termine della canna era fissata una lama corta e sottile, utile per affrontare un corpo a corpo.
«Funziona sempre a polvere?» chiese, soppesandola e riconsegnandola. La guardia scosse la testa, ipnotizzata da quella voce senza volto, ma fu lesta a ricomporsi.
«No, Maestà, è un prototipo al plasma.»
«Quando è stata brevettata?»
«Non più di una settimana fa» rispose il soldato, con malcelato orgoglio. «Ce l’hanno in dotazione solo le Guardie Reali. Per la sicurezza di Vostra Maestà.»
«Bene. Potete andare.»
Le guardie chinarono la testa quasi all’unisono, poi ripresero la marcia.
Il Cremisi si voltò, tornando sui suoi passi. La tecnologia progrediva rapidamente nel settore bellico, ma il resto della ricerca era fermo ormai da tempo controllato dall’amministrazione della Capitale, principale responsabile dello sviluppo economico di Layenna, e dai monaci di Plasyum. Di rado le legioni di inventori nascosti nelle stanze del Ministero dell’Innovazione producevano macchine utili a migliorare le condizioni di vita dei sudditi del regno.
Bannin tornò nelle sue stanze e finalmente riuscì a respirare. Si tolse il velo dal volto, scosse i lunghi capelli candidi e andò verso la finestra, dove una gabbia appesa a una trave pendeva nel vuoto. Al suo interno stava appollaiata una grande aquila nera come la pece.
«Muninn…» sussurrò all’animale, che sembrò capire, inclinando appena la testa.
Il Cremisi aprì la gabbia, e con un rapido batter d’ali l’uccello andò a posarsi su un trespolo accanto alla scrivania di legno massiccio. Bannin prese dal tavolo un foglio di carta e scrisse in fretta poche righe, poi assicurò il messaggio alla zampa destra dell’aquila.
«Portalo a Ephy, la Maestra del Nord. Lei saprà cosa fare.»
L’aquila annuì con un guizzo, ma non si mosse.
Bannin trasse da un cassetto un’ampolla che conteneva una polvere biancastra. Se ne versò qualche pizzico sul palmo della mano e la sparse nell’aria intorno all’animale, poi aprì la finestra. L’aquila spalancò le immense ali e in pochi attimi sparì alla vista, protetta dalla magia che la rendeva invisibile.
Bannin osservò per un po’ le nuvole che cambiavano forma e si rincorrevano, mosse dalla corrente. Il cielo di Layenna non gli era mai sembrato cupo come in quel momento. All’improvviso sentì un peso gravargli sul petto, e si massaggiò quel lembo di pelle, come se il gesto potesse influire sullo spirito.
Un colpo alla porta richiamò la sua attenzione. Bannin richiuse la finestra.
«Entrate» disse, coprendosi il viso col velo.
Sulla porta si affacciò la sua domestica personale, l’unica in cui avesse fiducia, la donna che l’aveva cresciuto. Il Cremisi avrebbe giurato che non fosse invecchiata nemmeno di un giorno, anche se i capelli scuri erano ormai striati di grigio, e gli occhi neri e profondi contornati da una ragnatela di rughe.
«Cosa succede, Daliha?»
La donna accennò un inchino.
«Vostra madre chiede di vedervi» sussurrò, a voce così bassa che Bannin dovette sforzarsi per carpire le parole. Avrebbe voluto ritirarsi, ignorare l’ordine celato nell’invito, ma non poteva.
«Grazie, Daliha. Puoi riferire che sarò da lei tra poco.»
«Subito, mio signore.»
La domestica si congedò, chiudendosi la porta alle spalle.
L’ennesima convocazione imperiosa, la solita conversazione carica di rimprovero. Bannin percorse a ritroso il corridoio, superò la sala del trono e salì la scala che conduceva alla Torre della Madre. Salì in fretta le scale a spirale, reggendo con una mano l’ampia veste per evitare di inciampare nei gradini.
La stanza all’ultimo piano aveva una pianta a cerchio perfetto, con ampie finestre curve che si aprivano sui quattro punti cardinali. Il tappeto al centro era di morbida lana e profumava di gelsomino.
«Volevi vedermi?» domandò Bannin alla donna in piedi accanto alla vetrata. Era alta, di una bellezza glaciale, lo sguardo fiero, il viso incorniciato da lunghi capelli ramati.
Bannin si scoprì nuovamente il volto, fissandola in attesa.
Lei ricambiò lo sguardo per un momento, poi gli si avvicinò, facendo ondeggiare la veste dorata.
«A chi hai mandato l’aquila?» chiese, secca.
Il Cremisi sentì salire dentro di sé un odio feroce e si sforzò di mantenere la calma. Era difficile per lui controllare le espressioni del volto: abituato all’invisibilità, faticava a ricordare quando poteva essere visto.
«Quale aquila?»
«Non provare a mentire, mi hanno riferito di averti visto aprire la finestra. L’aquila non c’è più, quindi l’hai mandata a qualcuno. Voglio sapere a chi.»
«Perché dovrei dirtelo?»
«Tutti i messaggi che entrano ed escono dal palazzo devono essere approvati. Non puoi inviare l’aquila a chiunque.»
«Non prendo ordini da te.»
La regina tentò di ammorbidire il tono, simulando tenerezza materna.
«Bannin, noi cerchiamo solo di proteggerti. Sono pur sempre tua madre.»
Bannin cercò di sorridere.
«Certo. Ne sono consapevole.»
«Richiama quell’aquila. Voglio sapere a chi hai scritto.»
«A nessuno in particolare, madre. Di tanto in tanto do mie notizie ai miei vecchi precettori, persone di specchiata reputazione e assoluta fedeltà al regno.»
La regina madre lo scrutò con sospetto, e Bannin dovette fare ricorso a tutte le sue capacità di dissimulazione per mantenere lo sguardo innocente che sapeva di aver avuto fino a poco tempo prima, lo sguardo di chi non ha mai conosciuto la vita e si fida senza discussioni di chi gli sta intorno.
«Puoi andare» disse infine la regina.
Bannin accennò un baciamano, si calò di nuovo il velo sul volto e si ritirò. La sua Muninn era in viaggio verso Niase, protetta dall’incantesimo.
I tempi sono quasi maturi, pensò.
2
Dunter Steel
Buio. Dunter Steel voleva stare al buio.
Si massaggiava le tempie con movimenti circolari, cercando di alleviare il mal di testa dovuto alla confusione di idee che gli affollavano la mente. Forse non sarebbe stata una cattiva idea bere qualcosa di caldo. Si alzò dalla sedia e raggiunse il cucinino, mise il bollitore sul fuoco e poi controllò la pendola.
Aveva un orario da rispettare, e doveva prepararsi per la missione.
Si riempì i polmoni con l’aroma di tè che iniziava a spandersi nell’aria, prima di berlo in pochi sorsi e chiudersi in camera. Se tutto fosse stato come era scritto nel rapporto, non avrebbe dovuto faticare molto, ma gli imprevisti, in quei casi, erano molto probabili. Si legò i capelli lunghi e bianchi con un laccio nero, scoprendo il viso liscio, pallido, e gli occhi rossi che l’avevano più volte aiutato a scacciare presenze non desiderate, e che fin dai tempi dell’Accademia, quando aveva appreso le arti magiche, erano un’arma irresistibile con le donne.
Indossò abiti leggeri e morbidi e una cintura con le fondine, e fece passare attorno al torace gli spallacci che contenevano i caricatori. Si infilò la giacca meno appariscente che possedeva, in fustagno marrone e senza ricami, lasciando a malincuore nell’armadio la bellissima tunica con ampie maniche ricamate che aveva appena acquistato. Il suo stipendio di Vegliante non gli concedeva molti lussi, ma i vestiti erano il suo unico vizio. Aveva più volte respinto l’offerta di una casa più grande e sontuosa, e viveva con poco.
Appena fu pronto uscì di casa, camminando come se stesse andando al mercato e facendo attenzione che la giacca non lasciasse intravedere le armi. La discrezione era la prima regola quando andava risolto un caso del genere.
Sbucò in un cortile chiuso, dove trovò ad attenderlo i due capitani dei plotoni delle Guardie Reali della Capitale. Misa Verres, trent’anni, risoluta e fredda come il ghiaccio e valida combattente, e Clarinne Anelie, ottima stratega dalla mente rapida. Dunter aveva lavorato con loro in altre occasioni, ma mai per una faccenda così importante.
«Sei in ritardo» sussurrò Misa, portandosi indietro i capelli rossi.
«Lo so, ma dovevo finire di sbrigare delle faccende. Dov’è la casa? È questa?» Dunter indicò l’ingresso, che dava sul cortile interno di un palazzetto diroccato, che aveva l’aria di essere abbandonato da almeno dieci anni.
«Sì, qui dentro.»
«Fatemi un quadro.»
Clarinne gettò uno sguardo preoccupato alle finestre dell’edificio. «Si pensa che sia al terzo e ultimo piano. Annidato nella camera da letto padronale. Non ha punti di luce, tutte le finestre sono state murate quando la famiglia che ci abitava è sparita nel nulla, quindi per i demoni è il luogo ottimale in cui vivere» spiegò, e Dunter annuì.
«Puoi usare la magia per bloccarlo?» domandò Clarinne.
Dunter si strofinò il mento con le dita, meditabondo. Difficile richiamare gli Spiriti durante un combattimento: avrebbe avuto bisogno della giusta copertura.
«Se fossimo di più sarebbe molto più semplice» rispose.
«Il governatore ha ritenuto che noi tre saremmo bastati.»
«Il governatore dovrebbe cambiare mestiere. Le sue decisioni strate...