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La radiosveglia scattò con un crepitio, che si fuse a una chitarra sommessa ma abbastanza insistente da impedirgli di ignorarla. Michael Stipe cantava della fine del mondo.
Hesediel allungò il braccio, tastò il comodino, urtò l’apparecchio e abbatté la mano sul pulsante.
Un mugolio prolungato alle sue spalle lo fece sorridere.
Si stropicciò gli occhi, godendosi gli ultimi istanti in cui poteva starsene affondato tra i cuscini, al caldo sotto il piumino. Maledetto febbraio.
Lo stesso mese in cui era tornato in vita, un anno prima. Per finire braccato dagli angeli che volevano farlo fuori una volta per tutte.
«Vado io, tranquilla» mormorò, mettendo a tacere quei pensieri. Si mise seduto e cercò le pantofole, grattandosi la nuca, poi si alzò e procedette sbadigliando verso la cucina in fondo al corridoio, con i capelli che gli solleticavano la schiena e la pelle d’oca perché indossava solo i pantaloni. Nel buio, bucherellato solo da pallidi raggi di luce azzurrina che filtravano dalla tapparella, Hesediel riempì la caffettiera e accese la fiamma bluastra. Dalla camera gli giunse il fruscio lieve delle coperte, il cigolio dell’anta dell’armadio. Allora ricordò di accendere la luce.
Non voleva certo far capire a Veronica che lui vedeva anche al buio, no?
«Buongiorno» mormorò lei spuntando dal corridoio. Si stringeva in una vestaglia bianca e rabbrividiva, con i capelli arruffati tenuti indietro da un cerchietto scolorito. «Quel cavolo di riscaldamento non si è acceso neanche oggi? Brrr.» Si stropicciò gli occhi: non si era struccata la sera prima e sulla pelle aveva buffi aloni scuri, come bizzarre occhiaie colate via.
«Dopo richiamo il tecnico. E se non viene vado a prelevarlo io.»
«E minaccialo di torture indicibili.»
«Naturalmente.»
Hesediel mise sul tavolo le tazze rosse che Veronica aveva comprato per Natale. Lei si allungò in punta di piedi per raggiungere qualche recesso nascosto di uno degli armadietti. Si stava riattivando e già non riusciva a star ferma. «Uffa» brontolò. «Quando cambiamo cucina non voglio ripiani che superino il metro di distanza dal pavimento.»
«Ti aiuto» si offrì lui, ma Veronica lo precedette.
«Fatto.» Andò al tavolo con i biscotti cacao e vaniglia, i suoi preferiti. «Che fai oggi di bello?» gli chiese, sedendosi sulla panca davanti a una delle tazzone fumanti. Mentre masticava un biscotto si sporse verso l’altra estremità del tavolo, prese il telecomando e accese su Rai News.
«Le solite cose.» Hesediel sedette di fronte a lei e lasciò che il calore della ceramica gli scaldasse le dita. «Ho un paio di pezzi da consegnare entro sera.»
Non era un lavoro che gli consentisse di arricchirsi, scrivere per magazine online pagato in nero. Ma almeno gli permetteva di campare senza rubare e senza far emergere quel piccolo dettaglio: i suoi documenti erano falsi, perché era morto e tornato. Non guadagnava granché, però contribuiva all’affitto. E anche se mentiva – sempre, inevitabilmente – quando Veronica gli chiedeva perché non cercasse di meglio, lui se la cavava. Se la cavava bene. Meglio di quanto avrebbe creduto possibile un anno prima, dopo il massacro in chiesa.
Meglio, rispetto alla sua prima vita?
Bevve un sorso di caffè. Gli mancava Milano: per quanto grigia e fredda, era pur sempre la sua città. Gli mancavano i palchi che non aveva più tentato di calcare. Non le eterne corse, però, né gli straordinari in ufficio a sbrigare pratiche di cui non gli fregava niente, o l’appartamento dove aveva vissuto con Elena e dove lei gli aveva dato il benservito, spaventata a morte per il mostro che era diventato.
Hesediel osservò Veronica, con il viso sottile nascosto dalla tazza che pareva troppo grossa per le sue mani, e sorrise.
Andava tutto bene.
«Tardi!» esclamò Veronica, saltando in piedi con un ultimo biscotto tra i denti. Corse in camera: ante sbattute, imprecazioni contro le calze smagliate, la porta del bagno aperta con tanta foga da far tremare il vetro e scrosci d’acqua a descrivere la complicata tiritera del “prepararsi a uscire”.
Lui scosse la testa e riordinò la tavola, sciacquò le tazze, sollevò le tapparelle. Appoggiò un braccio allo stipite della porta-finestra e la fronte sul braccio, scostando le tende con l’altra mano: il cielo era grigio-azzurro, nuvoloso oltre i tetti irregolari di Trastevere. I giardini del Gianicolo erano sfiorati da una lieve foschia che confondeva le cime degli alberi. Se non si fosse messo a piovere magari sarebbe andato a fare un giro alla Passeggiata, quel pomeriggio, quando si fosse rotto le scatole di stare davanti al Mac. Avrebbe fatto un po’ di spesa per far trovare la cena pronta a Vero.
No, Milano non gli mancava poi così tanto.
Doveva vestirsi anche lui, accendere il computer. Hesediel lasciò ricadere la tenda e prese dal tavolo il telecomando per zittire il chiacchiericcio delle novità mattutine.
E si fermò.
Lo schermo mostrava i giornali che il conduttore aveva sparso sulla scrivania durante la rassegna stampa, con i titoli evidenziati in verde. Quello principale del quotidiano inquadrato più da vicino si riferiva al solito scandalo politico.
Accanto, un titolo più piccolo, ma molto più inquietante. Almeno per lui.
Terzo omicidio a Milano, le vittime uccise con lame roventi.
«Chris, passi tu a pagare la luce?»
Veronica turbinò in cucina senza notare la sua posa rigida e aprì il frigo per prendere una bottiglietta d’acqua da cacciarsi in borsa.
«Sì.» Hesediel si schiarì la voce, spense la TV, sperò di riuscire a sorriderle.
«Che hai?» Veronica si fermò sulla soglia. In tailleur nero e con i capelli tirati su e fermati da uno spillone di legno, sembrava ancora più esile. Non la magrezza nervosa di Elena che non assumeva più di mille calorie al giorno, perché Veronica mangiava come un lupo. Solo che non stava mai ferma e bruciava tutto.
«Niente» le rispose. «Ero distratto.»
«Ricordati, per favore. Ci vediamo stasera!» Veronica si sollevò in punta di piedi per dargli un bacio, poi corse via. «Se chiama Elisa, ti scongiuro, trova una scusa per evitarci quella cena!» lo implorò con un’ultima occhiata. Un attimo dopo si chiuse alle spalle la porta dell’appartamento.
Hesediel si voltò verso lo schermo, ora nero e muto.
«Non preoccuparti» mormorò. «Sono bravo a inventare storie.»
Cinque minuti dopo, Hesediel imprecava contro la connessione lenta e cercava su Google News gli articoli più recenti sulle morti di Milano. Un secondo caffè fumava accanto allo schermo e lui si rosicchiava le unghie. Il posacenere accanto alla tastiera era vuoto, salvo che per i cadaveri di un paio di chewing gum scoloriti.
Quanto avrebbe voluto una sigaretta, cazzo.
Ecco. Sette cadaveri in tre notti, urlava un primo titolo tutto in maiuscolo. Il giorno prima era domenica: avevano dormito fino a tardi, non avevano nemmeno acceso la TV né il computer, tra il pranzo dai genitori di Veronica e la cena fuori. E sabato probabilmente non era stato dato molto risalto al primo omicidio. Un barbone ritrovato lungo i navigli. Un’unica ferita poco sotto il cuore.
Non vuol dire niente.
Hesediel si morse le labbra.
Che fai, menti anche a te stesso?
In due degli articoli si accennava anche a persone “scomparse”. In quelle stesse tre notti. Sparizioni denunciate, almeno. Ma chi contava i senzatetto?
Hesediel spense lo schermo.
Per mezz’ora fece rimbalzare sul palmo della mano la vecchia palla da tennis che gli serviva da antistress, mentre andava avanti e indietro nello studio di Veronica, dove sei mesi prima, quando si era trasferito da lei, avevano aggiunto una scrivania e un Mac per lui.
Sei mesi. Sei mesi dolci e amari.
Christian, le aveva detto, presentandosi al loro primo incontro, nel bar della stazione dove si erano messi a chiacchierare davanti a due caffè schifosi. Christian, come quand’era vivo. Il cognome invece era falso: quello vero stava a Milano, inciso su una lapide a cui probabilmente nessuno portava un fiore.
Da quando aveva conosciuto Veronica, Hesediel si era inventato episodi mai vissuti, amici inesistenti, una famiglia alternativa, mescolandoli a qualche ricordo reale. Non avrebbe voluto mentirle così, ma non aveva scelta. Era per lei che aveva posto fine al suo viaggio senza meta e si era fermato a Roma, era per lei che aveva ricominciato a vivere. E non voleva rischiare di perderla solo per scrupoli di sincerità. Si era già giocato le sue chance una volta con Elena. E anche se una parte di lui voleva disperatamente credere che con Veronica sarebbe stato diverso, che lei lo amava davvero, che la verità non avrebbe cambiato nulla… no, non voleva rischiare.
E ormai la persecuzione degli angeli era finita. Non contava niente che lui non fosse più tecnicamente umano.
Hesediel si strofinò gli occhi, raccontando a sé stesso per l’ennesima volta quello che proprio non riusciva a scordare. Un angelo lo aveva ucciso per incarnarsi in qualche neonato chissà dove, rubandogli il diritto a esistere. Lui si era ritrovato a fare lo spirito con le alucce finché un’antica divinità a cui preferiva non pensare nemmeno aveva restituito a tutti quelli nella sua situazione il loro corpo. E gli angeli rimasti puri ne avevano approfittato per cercare di sterminarli, finché lui e gli altri «ibridi» non erano riusciti a farli cadere, costringerli a diventare di carne. E ammazzandoli con lo stesso fuoco angelico.
Già, proprio semplice da spiegare alla donna con cui sperava di passare il resto della vita. O almeno finché Veronica non si fosse accorta di tutto quello che era strano in lui.
Hesediel incespicò nella cesta dove Veronica teneva le vecchie riviste e soffocò un’imprecazione. Non sarebbe mai stato in grado di capire qualcosa nel caos in cui lei sguazzava: in un angolo c’era il piano da stiro con la solita pila di roba in attesa; davanti alla finestra lo spazio di Veronica, con i raccoglitori impilati accanto al tavolo e una quantità di fogli sparsi e post-it colorati appiccicati ovunque: numeri di telefono, appuntamenti, note e sigle incomprensibili, che lei usava per memorizzare elenchi e dati dei clienti. Davanti, attaccate a un pannello di sughero con una miriade di puntine di tutti i colori, cartoline, foto di amici, parenti, colleghi. La sua scrivania, in confronto, era paurosamente vuota: il Mac, un posacenere inutile, un pacchetto di gomme e qualche penna in un barattolo. Nient’altro.
In quel momento probabilmente Veronica stava sbucando dalla metro, dalle parti della Fontana di Trevi, per correre in ufficio.
E a Milano la gente moriva.
Senza motivo, a Hesediel tornò in mente il vecchio spolverino che quel matto di Haniel gli aveva incendiato un anno prima.
Ignora tutto. Non ti riguarda. Tu sei qui.
Il cellulare squillò.
La palla antistress gli sfuggì di mano, rimbalzò e colpì l’orso di peluche che Veronica teneva sulla p...