La frontiera invisibile
eBook - ePub

La frontiera invisibile

Sull'Himalaya. In inverno. Senza corde. Bisogna correre o morire.

  1. 223 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La frontiera invisibile

Sull'Himalaya. In inverno. Senza corde. Bisogna correre o morire.

Informazioni su questo libro

"Se non sogniamo, siamo morti." Questo è il motto di Kilian Jornet, il giovane skyrunner catalano che il 21 agosto 2013 ha stabilito il nuovo record di salita e discesa del Cervino: 2 ore e 52 minuti per toccare il cielo e tornare indietro. Per Kilian la montagna rappresenta il sogno più grande ma, come ha imparato tragicamente, può anche trasformarsi nel peggiore degli incubi. Durante una traversata del Monte Bianco, infatti, Kilian ha perso il suo maestro, il suo idolo, il suo migliore amico. E il suo mondo è andato in pezzi. Nel periodo che è seguito, fatto di tante domande, dubbi e interrogativi su ciò che stava facendo, ha elaborato un nuovo progetto, studiato per mettersi alla prova ancora una volta, per sondare il confine tra coraggio e incoscienza, per capire davvero se stesso e il senso delle sue imprese. Il progetto prevede di scalare una delle vette più alte dell'Himalaya, il Gosainthan, al confine tra Cina e Nepal. Sono solo in tre, per un'avventura impossibile. Una spedizione invernale, senza corde, armati solo di un paio di sci, qualche provvista e una tenda. Questo libro racconta quel viaggio, che è allo stesso tempo una ricerca, una fuga, un momento di conoscenza, un incontro con luoghi e persone lontane e con gli angoli più profondi di sé. In queste pagine di una sincerità toccante, Kilian Jornet ci invita a seguirlo nel suo viaggio, ad andare oltre noi stessi, a oltrepassare le frontiere. Perché, come ama ripetere prima di ogni nuova sfida, "il sogno non è arrivare in cima, ma tutto il percorso che hai fatto fino a lì".

Domande frequenti

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Informazioni

Print ISBN
9788891507228
eBook ISBN
9788865971567

1
Sulle nuvole

Senza ombra non esiste la luce,
e senza luce non esiste l’ombra.
Sylvain Tesson, Nelle foreste siberiane
Da bambino pensavo che non potesse succedermi niente; non conoscevo ancora il dolore. E poi, senza rendertene conto, mentre sei lì che giochi (a un, due, tre, stella, a scegliere gli studi, a renderti indipendente, ad avere una macchina, una ragazza, a pagare un mutuo, a lavorare, ad avere una moglie, dei figli, a essere responsabile…), un giorno, all’improvviso, senza che tu te ne accorga, ti ritrovi grande. Ti alzi, vai a lavarti il viso, ti guardi allo specchio e davanti a te c’è un adulto.
Forse è per la paura che, se non riesco a tornare, la neve faccia sparire le mie tracce che ho sentito il bisogno di scrivere i miei pensieri.
O forse, non fidandomi della mia memoria, voglio raccontarti ciò che vedono i miei occhi per non dimenticare i dettagli al mio ritorno. O forse la prospettiva di un mese e mezzo senza elettricità, e quindi senza le distrazioni che mi offrono la tecnologia e i suoi giocattoli, mi ha fatto giungere alla conclusione che scrivere questo quaderno sarà il passatempo più emozionante che potrò trovare.
Il quaderno è un Moleskine largo tredici centimetri e lungo ventuno, con la copertina cartonata e duecentoquaranta pagine di quel giallino quasi impercettibile tipico della carta riciclata. L’ho comprato all’aeroporto di Ginevra. Mentre aspettavo il volo QR 325 per Katmandu, facevo un giro nei negozi della zona transiti e sono entrato in una libreria a dare un’occhiata ai libri e alle riviste. Era l’unico quaderno rosso su uno scaffale di taccuini neri, di vari spessori e grandezze, ma tutti neri. Perché ho scelto quello rosso? Forse per far vedere che, nonostante la mia timidezza, mi piacerebbe essere più estroverso. Forse per la bandiera del Paese in cui entreremo clandestinamente. O forse perché era l’unico rosso e inconsciamente ha ricordato alla mia vena punk uno dei libri che più mi hanno segnato da giovane, Confessioni di un serial climber, di Mark Twight: «Se ti guardi in giro e sul tuo cammino vedi gente intorno a te, vuol dire che stai sbagliando qualcosa». Metto il quaderno nella tasca superiore dello zaino insieme a una penna Bic e a un portamine per quando il freddo congelerà l’inchiostro della biro.
È coraggio o vigliaccheria quello che sento? Sono nervoso mentre aspetto di imbarcarmi sull’aereo, di scendere a Katmandu e di partire per le montagne. Ma sono anche impaziente di tornare, di ritrovare ciò che lascerò dietro di me.
È coraggio perché vado ad affrontare montagne sconosciute, abbandonando ciò che conosco a menadito e che faccio alla perfezione? O è vigliaccheria perché sto fuggendo dalle cose che conosco e che stanno assumendo dimensioni che da una parte mi spaventano e dall’altra mi sorprendono, e temo ancor più di perderle al pensiero che, mentre io sono lontano, resteranno ad aspettarmi così come le lascio, al culmine del loro splendore, rimandando dunque il momento in cui cominceranno, seguendo il loro corso naturale, a tramontare?
Mi piacerebbe raccontarti questa storia dall’inizio, ma non saprei da dove cominciare. Credo che, come tutte le storie, la mia non abbia né un principio né una fine: la prendi in un punto qualsiasi, un giorno la incontri e, senza saperlo, quella diventa la tua storia, o magari ci fai un pezzo di strada insieme prima di incrociarne un’altra e andare via con lei. A volte la cerchi, altre volte la inventi, in certi casi la trovi già quasi bell’e finita e, in altri, ci inciampi. Non saprei dirti né come né quando questa storia è diventata la mia; se si è trattato solo di fatti venuti uno dietro l’altro nel tempo e nello spazio, come le gocce di pioggia che cadono senza un ordine preciso sul parabrezza della macchina, e che un giorno, a distanza di tempo, potrò collegare, oppure se questa storia è una matassa di filo che ho srotolato e che mi ha portato fino a oggi.
La vita di certe persone è una linea continua, con i suoi alti e bassi, ma continua. La vita di altre persone, invece, è un susseguirsi apparentemente incoerente di fatti, e quella di altre persone ancora è un istante. Questa è, forse, l’anatomia del mio istante.
Sai, mi piacerebbe finire questa storia dicendo «E scomparve, come scompare il sole quando tramonta dietro le montagne in una calda sera d’agosto sui Pirenei», ma non succede mai così, le cose sono sempre più complicate. Comincerò a raccontarti questa storia, la mia storia, dal giorno in cui presi il telefono e composi il numero di Stéphane. Mentre sentivo la musichina d’attesa all’altro capo della linea, ero sempre più nervoso. Riaggancio? Stéphane era, ed è ancora, il mio idolo. Quando cominciai a correre e a sciare in montagna con un numero attaccato a una gamba, lui era Dio. Non era solo il migliore in tutte le competizioni, ma incarnava il carisma, la personalità, la tecnica portata alla perfezione in ogni movimento e la tattica più adatta a ogni gara. Mentre i miei compagni di scuola ricoprivano le cartelline di foto del Che, di Bob Marley, di Springsteen o di qualche giocatore del Barça, sulla mia c’era la foto di Stéphane.
Si era ritirato dall’attività agonistica da diversi anni e adesso ero io a vincere le gare su cui lui aveva impresso la sua firma e forse ora era la mia la foto attaccata sulla cartellina di qualche ragazzo. Lui però continuava a essere Dio. Mentre pensavo se ero stato troppo audace a comporre il numero di telefono di Dio, dall’altro capo del filo sentii: «Allô? Ciao! Come va?».
«Bene, bene; la stagione sta finendo, ma c’è ancora un sacco di neve in montagna e riesco ad allenarmi… E a te come vanno le cose?»
«Insomma. L’inverno è stato molto buono, non mi posso lamentare, anche se ho potuto sciare solo nel week-end. In questi mesi ho lavorato un sacco, e quando fai il rappresentante, macini un casino di chilometri in macchina e pochi sugli sci…»
«Ho parlato con Pierre e mi ha detto che anni fa cercavi di convincerlo a fare la traversata del massiccio del Monte Bianco con gli sci… Sei sempre dell’idea?»
E così, con una manciata di frasi, cominciò un’epoca in cui parlavamo attraverso le linee che tracciavamo sulle mappe, attraverso il vento che ci sferzava il viso mentre ci allenavamo per riconoscere qualche tratto del cammino, o attraverso il sudore che ci seccava la pelle mentre facevamo la lunga traversata degli Aravis. Da idolo Stéphane diventò mentore. E attraverso i silenzi – i silenzi delle parole non dette su un crinale roccioso in un giorno di vento, i silenzi degli occhi che guardano una cartina, i silenzi della forte respirazione quando si sale su una cima – diventò un amico.
Idolo, mentore, amico; io e Dio imboccammo di corsa le strade di Les Contamines, all’estremità più occidentale del massiccio del Monte Bianco, con lo zaino e gli sci in spalla, una mezzanotte di inizio giugno, sotto un cielo opaco senza luna, in cui le stelle illuminavano ogni cristallo di ghiaccio dei giganti bianchi che ci aspettavano.
Il progetto consisteva nell’attraversare il massiccio del Monte Bianco per tutta la sua lunghezza, da ovest a est, senza fermarci, passando per la sua cresta e salendo fino alle sue cime principali, equipaggiati solo con i nostri sci leggeri e uno zaino con un paio di barrette energetiche, una piccozza, dei ramponi, un giubbetto e mezzo litro d’acqua.
Andare avanti. La respirazione forte accompagnava il ritmo metronomico dello scricchiolio degli sci che rompevano il sottile strato di neve congelatosi durante la notte, mentre salivamo lungo il ghiacciaio verso i Dômes de Miage e le stelle ci stavano a guardare con la serenità di chi scruta due animali selvatici che tentano di passare più inosservati possibile nelle strade di una grande città in cui le case hanno già tutte le finestre sprangate. Tutt’intorno era buio e solo il bagliore delle stelle che rischiarava il manto di neve ci faceva godere dell’immenso spettacolo di una notte fra quelle cime bianche. Davanti, dietro, a destra e a sinistra, le pareti di neve e ghiaccio ci riempivano gli occhi, e la bellezza della natura addormentata entrava dentro di noi impregnando tutti i sensi. Lo scricchiolio della neve, il profumo dell’aria fresca e pura, gelata; il silenzio, che ci dava la sensazione di accarezzare la pelle vellutata di una dea dormiente.
Il risveglio del giorno, con i verdi e i rossi del cielo dell’aurora, ci sorprese mentre scendevamo la cresta di roccia e neve che porta dai Dômes de Miage al Col de Miage, qualche centinaio di metri più a valle. I nostri corpi si muovevano con scioltezza, cercando e trovando, a volte facilmente e altre con difficoltà, il passaggio più semplice tra i massi nascosti da una spessa coltre di neve. Oltrepassammo il valico e, senza fermarci, cominciammo a risalire i pendii di neve che, inclinandosi sempre più, ci portavano al crinale di roccia che dovevamo scalare per raggiungere la cima della bellissima Aiguille de Bionnassay, quasi mille metri più in alto. La vetta è un crinale affilato come una lama di coltello rivolta verso il cielo, che disegnando curve perfette, a destra e a sinistra, e riapparendo più avanti a destra in un punto determinato a 4.052 metri di altitudine smette di salire, come se si fosse stancata di tracciare curve nel cielo, e inizia a scendere allo stesso modo nella direzione opposta. Sul versante settentrionale, aveva grandi cornici rocciose che precipitavano verso il vuoto, su una ripida parete di roccia e ghiaccio blu. Quando lasciammo l’ultimo pendio di neve e cominciammo a cercare la nostra via tra le rocce, il sole fece timidamente capolino a est, come atto di presenza, sopra la lunga catena montuosa che all’orizzonte si estendeva a perdita d’occhio. La sua luce dorata dava alla neve dei riflessi rosa e gialli che sembravano rubati a un acquerello di Van Gogh; ci tingeva di arancio il viso e le mani scoperte, donando loro una forza fuori dal comune, salute, allegria. Allora ci sentivamo invincibili. Eravamo nel posto perfetto, nel momento perfetto, e il ciclo quotidiano del sole intorno alla Terra aveva, in quell’istante, il potere di trasformarci in esseri unici al mondo.
Devo riconoscere che ogni volta che scalando una montagna vedo il sorgere del sole, quel suo corso imperturbabile che va dall’oscurità al verde, dal verde al rosso, ai primi raggi di luce che spuntano nel cielo e scendono ad accarezzarti il viso, a darti quel poco di calore che cambia tutto, che illumina e ti fa sentire vivo, istante breve ma meraviglioso… devo riconoscere, dicevo, che sento sempre che il sorgere del sole è speciale, magico, che quel suo ciclo che non riesco a decifrare ha in sé qualcosa che mi fa impazzire. Forse è per questo che continuo a tornare in montagna, per cercare di scoprire cos’è quella forza sconosciuta che mi strappa dalle viscere quei palpiti di totalità. E mi costa ammettere che, nonostante queste emozioni, la pigrizia mi trattiene sempre a letto mentre il sole si sveglia e, una volta in piedi, quando già governa il cielo, mi prende la sensazione di aver perso una parte importante, essenziale, di ciò che avrei potuto fare, del giorno che, purtroppo, non appartiene più al futuro, ma, in parte, già al passato. È per questo che il sole mi incanta più nel suo sorgere che nel suo tramontare.
Il crinale era più difficile di quanto sembrasse in un primo momento; dopo aver provato invano a salire direttamente da uno sperone, trovammo una cornice che tra lamine di roccia e neve dura ci portava alla parte settentrionale, fino a una stretta goulotte di neve e ghiaccio. La cosa si faceva interessante. Interessante e pericolosa al punto giusto, per poter esprimere al massimo le nostre capacità tecniche e fisiche, ma con il rischio legato alla consapevolezza che non c’era alcun margine d’errore, che non c’era una seconda possibilità. La goulotte non era molto ripida, questo va detto, e si poteva sempre trovare un po’ di neve dura tra il ghiaccio blu: con due piccozze per uno e dei ramponi d’acciaio sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ma avevamo solo una piccozza ciascuno, per giunta d’alluminio come i ramponi. Prudenti, cominciammo a testare ogni passo, esaminando il ghiaccio e la neve e la solidità della roccia, senza fidarci della nostra attrezzatura di metallo. Prima timidamente e poi senza correre, ma con un buon passo, iniziammo a risalire lo stretto canale di ghiaccio e neve che si apriva sopra le nostre teste, con una mano alla piccozza piantata nel ghiaccio e le dita dell’altra nel buco che facevamo parallelo alla lama dell’attrezzo. Un’ora dopo, con la difficoltà ulteriore di dover avanzare sprofondando fino alle ginocchia, arrivammo alla vetta dell’Aiguille de Bionnassay e cominciammo la discesa con gli sci giocando con le forme dell’affilato crinale. Ci restavano solo mille metri per raggiungere la cima del Monte Bianco, il Tetto delle Alpi, il centro dell’alpinismo, ai cui piedi è nata la passione per ciò che facciamo. Lì generazioni di alpinisti hanno sognato di scalare quelle pareti, per le vie più facili nel Seicento, lungo i crinali più impressionanti nell’Ottocento e, nel secolo scorso, per le pareti più complesse, con gli sci, in parapendio, correndo o scalando o nei modi più inimmaginabili. I paesi alle sue pendici, Chamonix e Courmayeur, sono stati la culla degli alpinisti più famosi. Francesi e italiani. Inglesi, americani, scandinavi, sportivi di tutto il mondo sono venuti alle sue falde per scoprire i segreti della sua roccia prima di spiccare il volo verso le montagne più lontane. È tra questi crinali che Lionel Terray scoprì quello che siamo veramente noi che viviamo tra le mappe e sogniamo cime aguzze: siamo I conquistatori dell’inutile, l’immagine più bella della storia, e che Terray scelse come titolo del suo libro. Perché scalare le vette non ha nessuna utilità secondo l’ottica commerciale che oggi governa il mondo: lassù non troviamo niente di materiale, ma a livello spirituale troviamo tutto, assolutamente tutto. Per questo realizzare quella prima traversata no-stop del massiccio del Monte Bianco rappresentava un passo necessario, persino mitologico, prima di esplorare nuove montagne.
Io e Stéphane eravamo saliti sul Monte Bianco diverse volte negli ultimi giorni e ci eravamo ambientati bene. Insieme percorrevamo i crinali del massiccio, a volte con più difficoltà, con i piedi pesanti, e altre invece con la forza del vento, correndo come bambini che giocano nel cortile di casa, instancabili, senza nessuna cognizione del tempo e dello spazio, solo con il sorriso della gioia dell’istante presente.
Vetta del Monte Bianco. A mezzogiorno, con il sole a picco sulle nostre teste e un vento forte che ci sferzava il viso. Eravamo nel punto più alto, l’equatore del nostro viaggio. Ciò nonostante, ci restavano ancora più di tremila metri da salire e cinquemila da scendere; visto da lassù, era tutto più facile, semplice. Per cominciare, avevamo davanti a noi duemila metri di discesa! Duemila metri per goderci l’adrenalina della velocità sugli sci che filano sulla neve, duemila metri per goderci i movimenti del corpo che danza opponendosi alle forze centrifughe, centripete e d’inerzia, duemila metri per goderci il sorriso di un amico che sta facendo ciò che desidera.
Ma più giù, dopo l’eccitazione di una lunga e gioiosa discesa, ci aspettava un duro colpo: il caldo. Non perché ci disidratasse o ci tormentasse il corpo, ma perché ammorbidiva la neve molto velocemente. La neve dura e il ghiaccio che avevamo incontrato fino ad allora si trasformavano a marce forzate in una poltiglia simile a quella delle pescherie nei supermercati. E con la neve molle, mentre salivamo lungo il ghiacciaio di Talèfre verso il Col des Droites, cominciavano a essere sempre più frequenti piccole slavine e colate di neve sui due versanti della valle. Davanti a noi, un’ampia e ripida lingua bianca, che si riduceva a uno stretto corridoio nella parte finale, aspettava immacolata che il peso dell’acqua prodotta dalla neve sciolta fosse sufficiente per catapultare in fondo alla valle, in pochi secondi, tutte le tonnellate di neve accumulate durante l’inverno. Sempre che, chiaramente, il peso di qualche altro oggetto – io e Stéphane – non accelerasse il processo catapultando anche noi tra le tonnellate di neve. Restammo fermi ai piedi della parete a osservarla, quasi sperando che succedesse qualcosa, come per miracolo, e la neve cambiasse direzione mentre si scioglieva. Naturalmente la neve e il sole erano indifferenti alle nostre preghiere e cominciammo a valutare altre alternative, per esempio cambiare strada, visto che cercare di attraversare in qualche punto il crinale che avevamo di fronte era un suicidio vero e proprio. Non c’era nessuno sperone di roccia o corridoio abbastanza ghiacciato per poter passare inosservati durante le due o tre ore di cui avevamo bisogno per arrivare in cima alla cresta. E sicuramente la discesa che ci aspettava dopo non sarebbe stata in condizioni migliori. L’altra possibilità era tentare di scendere e passare dai corridoi di Oreilles du Lapin fino a Grands Montets prima di risalire di nuovo dall’altro lato del crinale. Tuttavia, anche se nella prima parte la mancanza di neve ci avrebbe dato la sicurezza di un terreno solido, le condizioni non sarebbero migliorate più avanti: avremmo solo rinviato il momento di affrontarle. Continuare, in ogni caso, era come passeggiare per circa sette o otto ore su un campo minato. E in montagna, se compri molti biglietti della lotteria, prima o poi il tuo numero uscirà.
Avevamo due possibilità per non rischiare la vita. Potevamo scendere a Chamonix attraverso la valle e tornare a casa: tenendo conto che era metà pomeriggio, saremmo arrivati per cena. Pensandoci bene, quel che avevamo fatto fino ad allora era già una buona traversata e un buon allenamento. Oppure avremmo potuto restare a dormire lì, nel rifugio di Couvercle, e aspettare che le basse temperature notturne restituissero alla neve la solidità di quel mattino rendendola di nuovo sicura.
Bastarono poche parole e uno sguardo per constatare che la seconda opzione era l’unica possibile una volta arrivati a quel punto. Alle sei del mattino, dopo alcune ore passate a cercare di addormentarci, ci mettemmo in cammino verso il Col des Droites, stavolta con una neve dura come la pietra sotto i nostri piedi. Due ore dopo, con i primi raggi di sole che riscaldavano la neve sul versante a nord-est, eravamo finalmente sul crinale, sulla cima di Les Courtes, e ci preparavamo a lasciare la nostra firma con gli sci. Il versante nord-nord-est di Les Courtes, la gola da cui dovevamo scendere, è un’iniziazione allo sci estremo: una discesa ripida di circa quarantacinque gradi di pendenza, molto regolare per tutti i suoi settecentocinquanta metri di dislivello. Su un terreno come questo il diritto all’errore è pari a zero: cadere su una discesa così può finire solo in un modo. Dopo averla osservata per un po’, Stéphane cominciò a fare una grande diagonale per verificare le condizioni della neve e, nell’eventualità di un grande accumulo o di una placca a vento, tagliare la valanga e farla scendere prima che potesse travolgerci.
A metà della diagonale si lanciò giù compiendo delle grandi virate, e gridando un «Yiiiiiiiihaaaaaaa» sempre più sfumato man mano che la velocità aumentava. La neve era fantastica, sufficientemente dura per non temere che si rompesse sotto gli sci e con una superficie friabile di tre o quattro centimetri di spessore, che permetteva agli sci di aderire facilmente. Era perfetta. Mentre le ampie virate di Stéphane si susseguivano sempre più in basso e il suo urlo svaniva, mi lanciai cercando di seguirlo.
Dopo un’incredibile discesa, mentre riprendevamo fiato per le emozioni vissute negli ultimi minuti, cominciammo a salire verso l’Aiguille d’Argentière, l’ultima vetta della catena guardando verso oriente. Ci restavano solo mille metri di salita, e poi una lunga discesa fino a Champex, all’estremità più occidentale del massiccio. Era fatta! Andavamo avanti spediti, sicuri, con i piedi che, appena sfiorata la neve, già iniziavano il passo successivo.
Era facile, era veloce e non ci costava fatica, una fatica diventata sempre meno gravosa man mano che ci avvicinavamo alla cima. Con poche nuvole nel cielo e il vento fresco sul viso, raggiungemmo la vetta, ci fermammo un momento per guardare dietro di noi tutte le cime e le valli dove avevamo lasciato le impronte dei nostri passi, il nostro segno. Uno stormo di corvi cominciò a giocare con il vento sopra le nostre teste, cercando di prendere al volo qualche briciola della barretta che stavamo mangiando. Era una danza silenziosa, una comunione totale tra il nostro spirito realizzato e il gioco della natura. Era perfetto.
Sai che cos’è la felicità? La felicità pura? Non si prova nel momento in cui si riesce in qualcosa, quando è già iniziato il processo di assimilazione. No, la felicità pura si prova nell’istante prima di raggiungerla, quando ti rendi conto che stai per farcela. È l’istante in cui le labbra di un adolescente si avvicinano per baciare la persona che forse amerà per il resto della sua vita; l’istante in cui un matematico ha un’illuminazione e vede chiaramente come formulare quella teoria che il mondo scientifico insegue da anni; è quell’istante in cui un maratoneta alle Olimpiadi vede l’...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. 1. Sulle nuvole
  6. 2. Sotto il sole
  7. 3. Thomas
  8. 4. Tu
  9. 5. Katmandu
  10. 6. In viaggio verso le montagne
  11. 7. L’eredità
  12. 8. Kyanjin
  13. 9. Jolly Roger
  14. 10. La vita
  15. 11. Il ritorno