1
La strada per l’insuccesso (e come evitarla)
Una scuola superiore «sotto sorveglianza»
Nadine Burke Harris, figlia di due colti professionisti giamaicani di Kingston che si erano trasferiti nella Silicon Valley quando lei aveva quattro anni, ha trascorso l’infanzia a Palo Alto, in un ambiente privilegiato. Da ragazza si sentiva spesso un’estranea, una dei pochi studenti neri della sua scuola superiore, frequentata perlopiù da bianchi ricchi e dove le alunne piangevano nella caffetteria se per il sedicesimo compleanno non ricevevano in regalo l’auto dei loro sogni.
Elizabeth Dozier è invece cresciuta poco fuori Chicago in condizioni più modeste. Nata dall’improbabile e illecita storia d’amore tra un detenuto del carcere di Joliet, nell’Illinois, e una suora che visitava la struttura per recare conforto religioso ai prigionieri, è stata allevata solo dalla madre, che insegnava nella scuola cattolica del posto e d’estate lavorava come cameriera in un motel per arrotondare il magro stipendio.
Nadine ed Elizabeth hanno alle spalle due storie molto diverse, che le hanno portate però a perseguire il medesimo obiettivo: aiutare i giovani, soprattutto quelli più svantaggiati, a raggiungere il successo. La prima si è iscritta alla facoltà di medicina, è diventata una pediatra e ha aperto una clinica nella zona più povera di San Francisco; la seconda ha iniziato come insegnante e in seguito è diventata preside lavorando in alcuni dei quartieri più poveri di Chicago. Le ho incontrate, separatamente, un paio d’anni fa, e ciò che mi ha spinto a volerle conoscere non è stata soltanto l’intensa vocazione umanitaria che le accomunava, ma anche quella sorta di frustrazione più profonda che sembravano condividere. Entrambe erano da poco giunte alla conclusione che neppure i migliori strumenti offerti dalle rispettive professioni potevano essere all’altezza delle sfide che dovevano affrontare ogni giorno: si trovavano a un punto di svolta nelle loro carriere e nelle loro vite, erano alla ricerca di nuove strategie o, meglio, di un sistema completamente nuovo.
Nell’agosto del 2009, la Dozier venne nominata preside della scuola superiore Christian Fenger, proprio mentre l’istituto stava attraversando un momento di crisi (che si protraeva da almeno vent’anni). La scuola era stata fondata più di ottant’anni prima nel cuore di Roseland, nel South Side di Chicago, una zona un tempo prospera e oggi tra i quartieri peggiori della città sotto quasi ogni aspetto: povertà, tasso di disoccupazione, livello di criminalità, e un generale senso di vuoto e desolazione che aleggia per le strade. Dove una volta sorgevano case e fiorenti attività commerciali, oggi ci sono terreni incolti, invasi dalle erbacce. Roseland si trova molto dopo l’ultima fermata della ferrovia sopraelevata, ed è quindi isolata dal punto di vista geografico e segregata da quello razziale: in una metropoli dove la popolazione è divisa grossomodo in parti uguali fra bianchi, afro-americani e latino-americani, Roseland è per il 98 per cento nera. E come la maggior parte delle grandi scuole superiori pubbliche dei quartieri poveri, la Fenger vantava una triste serie di record: punteggi sempre bassi nei test scolastici, scarsa frequenza alle lezioni, problemi cronici di disciplina e un alto tasso di abbandono.
Le scuole come la Fenger hanno spesso alle spalle storie di negligenza, sono istituti lasciati ai margini con studenti dimenticati e ignorati dai burocrati locali e di Washington. La Fenger, però, occupa una posizione atipica in questo quadro, perché al contrario, nel corso degli ultimi due decenni è stata al centro di diverse riforme, ambiziose e ben finanziate, portate avanti da alcuni dei più illustri filantropi ed esperti governativi di educazione del Paese. In questo istituto è stata messa alla prova, in una forma o nell’altra, quasi ogni strategia che sia mai stata elaborata per fronteggiare il problema dell’alto tasso di abbandono nelle scuole superiori pubbliche.
La storia recente della Fenger iniziò nel 1995, quando il sindaco di Chicago, Richard M. Daley, ricevette dall’assemblea legislativa dell’Illinois l’incarico di occuparsi delle scuole della città. In linea con il suo approccio prettamente imprenditoriale, Daley decise che il funzionario a capo del sistema scolastico non sarebbe più stato chiamato «sovrintendente» bensì «CEO» (Chief Executive Officer, amministratore delegato). Come primo CEO scelse il suo responsabile del bilancio, Paul Vallas, un uomo ambizioso che si concentrò subito sul miglioramento della Fenger e di altre scuole superiori che presentavano risultati scadenti. Vallas creò un sistema di valutazione che classificava gli istituti in base alla quantità di aiuti di cui avevano bisogno, e pose la Fenger nella categoria più disperata: doveva essere tenuta sotto stretta sorveglianza.1 Lui stesso, da adolescente, vi aveva studiato per due anni, e forse fu proprio questo il motivo che lo spinse a convogliare lì i suoi sforzi. Introdusse un piano di ristrutturazione che includeva l’assunzione di un esperto che avrebbe formato i professori nelle tecniche di insegnamento della lettura e della scrittura;2 istituì nella scuola un’associazione riservata agli studenti appena arrivati, che copriva un intero piano dell’edificio, dove i ragazzi avrebbero ricevuto una particolare attenzione per tutto il primo anno.3 Nel 1999 creò un’accademia di matematica e scienze, dotata di un laboratorio scientifico da 525.000 dollari sponsorizzato dalla NASA.4 Due anni dopo trasformò la Fenger in un polo magnetico dell’istruzione di Chicago, una scuola specializzata nella tecnologia.5
Tuttavia, nonostante le continue riforme di Vallas, per gli studenti della Fenger le cose non sembravano mai migliorare davvero. Lo stesso deludente risultato si ottenne anche con il suo successore, Arne Duncan. Grazie a lui, nel 2006, la Fenger fu scelta come una delle scuole pilota per un esperimento di collaborazione su vasta scala tra il sistema scolastico di Chicago e la Fondazione Bill e Melinda Gates,6 un programma chiamato «Trasformazione della scuola superiore» a cui la fondazione aveva destinato un finanziamento iniziale di 21 milioni di dollari (dopo tre anni, il bilancio complessivo per il progetto a livello cittadino sarebbe salito a 80 milioni).7 Quando l’iniziativa venne annunciata, Duncan disse che era «un giorno storico, non solo per la città di Chicago e le sue scuole pubbliche, ma per l’intero Paese».8 Poco più di due anni dopo, però, di fronte ai dati che indicavano che la trasformazione della scuola superiore non stava producendo i risultati sperati, la Fenger venne destinata all’ultimo programma di riforma di Duncan,9 la «Ristrutturazione della scuola superiore», che prevedeva il licenziamento del preside e di almeno metà del corpo docente di una scuola e l’assunzione di una squadra completamente nuova. Nel 2009, la carica di preside fu affidata quindi a Elizabeth Dozier.
È importante ricordare che Vallas e Duncan non sono burocrati che si cimentano per la prima volta con il sistema scolastico, ma due dei più famosi esperti di educazione del Paese. Dopo aver lasciato Chicago, Vallas ha guidato le scuole di Philadelphia e si è distinto a livello nazionale come il responsabile della ricostruzione e della trasformazione del sistema scolastico di New Orleans dopo il disastro dell’uragano Katrina. Per quanto riguarda Duncan, la sua carriera dopo Chicago è stata ancora più gloriosa: nel 2009, il presidente Obama lo ha scelto come ministro dell’Istruzione. Ciononostante, a dispetto di tutte le riforme tentate dai due uomini a Chicago, mosse da ottime intenzioni e spesso molto costose, i dati statistici della Fenger erano rimasti più o meno identici a quelli del 1995: fra la metà e i due terzi dei nuovi iscritti di ogni classe abbandonava la scuola prima della fine dell’ultimo anno. Inoltre, anche gli studenti che giungevano al diploma non avevano poi quasi mai successo all’università: nel 2008 (l’ultimo anno di Duncan a Chicago), meno del 4 per cento degli allievi della Fenger raggiungeva o superava gli standard nei test statali per valutare la preparazione al college, affrontati il terzo e l’ultimo anno. Durante il mandato di Duncan, la scuola non fece mai gli «adeguati progressi annuali» richiesti dalla legge federale «No Child Left Behind» («Nessun ragazzo venga lasciato indietro»). Nel 1995, Vallas aveva definito la Fenger come una scuola da tenere «sotto sorveglianza» pensando che si trattasse di uno stato temporaneo di emergenza, ma questa designazione è diventata una realtà costante per l’istituto: nel 2011, la scuola è stata messa sotto sorveglianza per il sedicesimo anno di fila.
Al suo arrivo alla Fenger, Elizabeth Dozier era un’ambiziosa e determinata trentunenne, convinta che fra gli strumenti fondamentali del riformatore educativo moderno ci fosse già tutto il necessario per risollevare le sorti della scuola e dei suoi studenti: aveva seguito per un anno un programma di formazione per presidi molto competitivo, che ruotava attorno all’idea che un dirigente dinamico sarebbe stato in grado di far salire il rendimento dei ragazzi a livelli elevati a prescindere dalle loro situazioni socioeconomiche, alla sola condizione di poter contare sull’impegno di un personale motivato. La Dozier fece subito grandi pulizie alla Fenger, sostituendo diversi amministratori e la maggior parte del corpo docente: al nostro primo incontro nel suo ufficio, poco più di un anno dopo il suo insediamento, tra i settanta membri dello staff solo tre insegnanti lavoravano lì da prima della Ristrutturazione. La maggior parte dei nuovi professori erano giovani, ambiziosi e non di ruolo, cosa che rendeva più facile rimpiazzarli nel caso non si fossero mostrati all’altezza dei suoi standard.
Nel nostro colloquio, però, la Dozier mi ha rivelato che l’esperienza alla Fenger l’ha spinta a cambiare idea sulla gestione scolastica: «Prima pensavo che se una scuola non andava bene, doveva essere per colpa di un cattivo preside o di insegnanti incapaci» mi ha spiegato. «In realtà, però, la Fenger è una scuola di quartiere e noi siamo soltanto un riflesso della comunità: non possiamo aspettarci di risolvere i problemi della scuola senza tener conto di ciò che avviene nella comunità.»
Man mano che conosceva meglio i suoi studenti, la Dozier non ha potuto fare a meno di rimanere impressionata dalla gravità dei problemi che dovevano affrontare a casa: «La maggior parte di loro» mi ha riferito «vive in povertà, e fa fatica ad arrivare alla fine del mese. Molti abitano in zone dove impazzano le bande giovanili. Non saprei fare neanche un nome di uno studente di quella scuola che non debba fronteggiare qualche seria difficoltà». Mi ha raccontato che un quarto delle studentesse erano incinte o già madri, e quando le ho chiesto di fare una stima su quanti dei suoi allievi vivessero con entrambi i genitori biologici, sul suo volto è apparso uno sguardo perplesso: «Sul momento, non saprei indicargliene nemmeno uno» ha risposto, «ma qualcuno ci sarà di sicuro!».
Sugli studenti della Fenger sembrava poi incombere sempre la minaccia della violenza. Il tasso di omicidi a Chicago è pari al doppio di quello di Los Angeles e più del doppio di quello di New York. La presenza di gang giovanili è più diffusa e letale a Chicago che in ogni altra grande città americana, e poco prima dell’arrivo della Dozier alla Fenger, nel 2008, c’era stato un picco nella violenza a mano armata fra i giovani: in città erano stati uccisi ottantatré adolescenti in età scolastica e più di seicento erano sopravvissuti a uno scontro a fuoco.10
La nuova preside era consapevole che la ristrutturazione della Fenger non sarebbe stata una passeggiata, ma non era certo preparata a ciò che accadde durante il suo sedicesimo giorno di lavoro, nel settembre del 2009, quando a pochi isolati dalla scuola scoppiò una grossa rissa tra una cinquantina di adolescenti, perlopiù suoi studenti. Non c’erano pistole o coltelli, ma alcuni ragazzi avevano raccolto delle traversine dei binari e avevano iniziato a brandirle come mazze. Un alunno di sedici anni che si era gettato nella mischia, Derrion Albert, venne colpito alla testa e quindi preso a pugni in faccia; il ragazzo perse conoscenza e cadde a terra, ma altri giovani continuarono a tirargli calci in testa fino ad ammazzarlo.
Quella morte non era affatto diversa dalle dozzine di altre uccisioni avvenute quell’anno fra gli studenti delle superiori di Chicago; la rissa e l’omicidio del ragazzo, però, erano stati filmati da un passante, e quell’autunno il video diventò un fenomeno su YouTube e venne poi trasmesso ripetutamente nei notiziari, richiamando sulla Fenger l’attenzione dei media locali e nazionali. Per settimane, la scuola rimase assediata dai camion della tv satellitare e di fronte all’istituto si tennero diverse veglie di preghiera e manifestazioni di protesta; anche il ministro della Giustizia statunitense, Eric Holder, andò a incontrare gli studenti. Poco tempo dopo, a ottobre, la Fenger tornò di nuovo sulle prime pagine dei giornali quando su tre piani diversi della scuola scoppiarono contemporaneamente tre violenti scontri fra bande: arrivarono decine di auto della polizia, cinque studenti furono arrestati e l’intero edificio venne isolato per ore.
In seguito a queste risse, la Dozier adottò una politica di tolleranza zero nei confronti non solo della violenza, ma anche di quei comportamenti che avrebbero potuto in qualche modo incoraggiarla: bastava, per esempio, che gli studenti si scambiassero i saluti o le tipiche strette di mano delle gang nei corridoi dell’istituto perché si beccassero dieci giorni di sospensione. Se venivano alle mani, la preside chiamava la polizia e li faceva arrestare, dopodiché faceva tutto il possibile per espellerli definitivamente dalla scuola. Quando ho iniziato a recarmi alla Fenger, più di un anno dopo la morte di Albert, nei corridoi sembrava regnare una certa tranquillità, anche se la situazione non era certo rientrata nella normalità: i locali scolastici erano sempre pattugliati da guardie armate fino ai denti, gli studenti non potevano girare senza il loro tesserino d’identificazione appeso al collo e quando un ragazzo aveva bisogno di andare in bagno durante una lezione doveva esibire un pass largo più di mezzo metro, di un giallo brillante. Negli intervalli, gli altoparlanti nei corridoi trasmettevano la colonna sonora di Un piedipiatti a Beverly Hills: gli studenti sapevano che dovevano raggiungere la classe successiva prima che suonasse l’ultima nota. Nonostante le regole ferree, però, c’erano ancora dei momenti di scompiglio: quando sono arrivato per la prima intervista con Elizabeth Dozier, siamo stati interrotti due volte dalle urla provenienti dal corridoio e lei ha dovuto correre fuori per sedare la rissa.
Verso la metà del suo secondo anno come preside, la Dozier mi ha confidato che iniziava a sospettare che i metodi educativi più importanti che poteva mettere in campo non avessero molto a che fare con l’insegnamento nelle aule. Dopo l’omicidio di Derrion Albert, Holder e Arne Duncan offrirono uno stanziamento federale di 500.000 dollari per l’istituzione di alcuni corsi di doposcuola sulla gestione della rabbia e il superamento dei traumi, e la scuola iniziò a indirizzare il servizio di assistenza psicologica non solo agli studenti ma anche alle loro famiglie. La Dozier iscrisse venticinque dei suoi ragazzi più problematici a un programma intensivo di supporto. Era alla ricerca di qualunque tipo di intervento in grado di risolvere quella che ora vedeva come la crisi più urgente alla Fenger: non i deficit scolastici dei suoi studenti (che pure rimanevano gravi e angoscianti), ma una serie di problemi più profondi che nascevano dalla loro vita familiare, tormentata e spesso traumatica, e che facevano sì che per questi giovani fosse difficile andare avanti. «All’inizio non davo peso a domande come “Da che tipo di famiglie provengono i ragazzi?” e “Che effetto ha la povertà sui bambini?”» mi ha spiegato la preside una mattina. «Ma da quando ho iniziato a lavorare alla Fenger, ho cambiato idea.»
Una pediatra in lotta contro la povertà
«Che effetto ha la povertà sui bambini?» era la domanda che, dall’altra parte degli Stati Uniti, si stava ponendo anche Nadine Burke Harris; essendo però una dottoressa e non un’educatrice, se lo chiedeva dal punto di vista della salute fisica dei suoi pazienti. Dal 2007 era la primaria di pediatria del Bayview Child Health Center nel quartiere di Bayview-Hunters Point di San Francisco, una squallida area industriale nascosta nell’angolo sud-orientale della città, che ospita alcuni dei più grandi e violenti quartieri popolari. Quando Nadine aveva fondato la clinica, dopo essersi da poco laureata alla Harvard School of Public Health, era una giovane idealista assunta dal California Pacific Medical Center, una ricca catena di ospedali privati, per portare avanti una missione non ben definita ma dall’apparenza nobile: identificare le disuguaglianze in tema di sanità a San Francisco e porvi rimedio. Queste difformità non erano certo difficili da individuare, soprattutto a Bayview-Hunters Point: il tasso di ricoveri per scompenso cardiaco, per esempio, era cinque volte più alto di quello registrato nel Marina District, a pochi chilometri di distanza. E prima dell’apertura della clinica di Nadine Burke Harris c’era un solo studio pediatrico privato a servire una comunità con più di diecimila bambini.
La Burke Harris aveva studiato la questione delle disuguaglianze in tema di sanità a Harvard e conosceva la ricetta tradizionale seguita dalla sanità pubblica per far fronte al problema: migliorare l’accesso all’assistenza sanitaria per le famiglie a basso reddito, in particolare attraverso i medici di base. Quando l’ambulatorio aprì i battenti, la dottoressa si concentrò sui punti dove le disparità tra i bambini ricchi e quelli poveri erano più evidenti e meglio conosciute – la gestione da casa delle patologie asmatiche, la nutrizione e le vaccinazioni per la difterite, la pertosse e il tetano – e, nel giro di pochi mesi, ottenne notevoli progressi: «Far salire i tassi di vaccinazione e far scendere quelli dei ricoveri per l’asma si dimostrò molto più facile del previsto» mi ha detto al nostro primo incontro nella sua clinica. «Avevo però l’impressione che non stessimo davvero combattendo le radici degli squilibri» ha continuato. «Cioè, per quanto ne so, nessun bambino della nostra comunità moriva di tetano da moltissimo tempo, ormai.»
La dottoressa si trovava così in una situazione molto simile a quella di E...