438 giorni
eBook - ePub

438 giorni

L'incredibile storia vera di un uomo sopravvissuto all'oceano

  1. 264 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

438 giorni

L'incredibile storia vera di un uomo sopravvissuto all'oceano

Informazioni su questo libro

La storia di Salvador Alvarenga è di quelle che non si dimenticano. Il 18 novembre 2012, insieme al compagno Ezequiel Córdoba, lascia le coste del Messico con una barca di sette metri per una battuta di pesca, ma una terribile tempesta li sorprende spingendoli fin nel cuore dell'oceano Pacifico: senza possibilità di comunicare, senza rifornimenti e con il motore rotto. Córdoba muore durante il viaggio e Alvarenga resta per 14 mesi in mezzo al nulla (il periodo più lungo conosciuto in cui qualcuno è sopravvissuto in mare), rischiando di perdere la ragione fino a pensare di darsi in pasto agli squali.
Jonathan Franklin, attraverso le parole del protagonista, restituisce in maniera vivida e indimenticabile questa vicenda affascinante, intricata e con molti punti oscuri, raccontando l'ingegno e la determinazione di un uomo che riesce a sopravvivere a una sfida grande quanto l'oceano.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a 438 giorni di Jonathan Franklin in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Desarrollo personal e Viajes. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
BUR
Anno
2022
Print ISBN
9788817162067
eBook ISBN
9788831807500
Categoria
Viajes
1

Cacciatori di squali

Il suo nome era Salvador e aveva i piedi sanguinanti. Disse che cercava un lavoro – qualsiasi lavoro, per cominciare – ma a quelli che lo videro arrivare sembrò un uomo in fuga.
Salvador Alvarenga aveva camminato per sei giorni sugli scogli della costa messicana prima di raggiungere il villaggio di Costa Azul. Aveva soltanto un piccolo zaino e i suoi vestiti erano logori. Quando arrivò, nell’autunno del 2008, provò subito un grande senso di sollievo. Le paludi di mangrovie, i campi di grano, la laguna protetta dall’oceano gli ricordavano la sua casa di El Salvador, ma qui nessuno voleva ucciderlo. Soltanto poche centinaia di persone vivevano nella comunità sulla spiaggia, densamente popolata da stormi di uccelli migratori, molti dei quali compivano ogni anno il viaggio di tremila chilometri dalla California. Migliaia di tartarughe marine deponevano le uova nella sabbia e migravano, alcune nuotando per quasi ventimila chilometri attraverso l’oceano Pacifico fino alle coste della Cina. A metà tra un paradiso ecoturistico e un villaggio senza legge del selvaggio West, Costa Azul era il luogo ideale per un uomo che voleva sfuggire al proprio passato e costruirsi una nuova vita.
Con il sorriso sulle labbra e la mano tesa, la faccia rotonda e la pelle chiara, Alvarenga arrivò senza un visto o documenti di lavoro, fingendo di essere messicano. E confermò questa versione a chiunque gli chiedesse da dove veniva. Una volta, quando un poliziotto messicano lo fermò perché sospettava che fosse straniero, cantò una strofa dell’inno nazionale messicano:
Guerra, guerra senza tregua, a chi tenti
di macchiare i blasoni della patria!
Guerra, guerra! I patri pennoni
nelle onde di sangue inzuppate.
Alvarenga era terribilmente stonato, ma il fervore patriottico con cui intonò quelle parole convinse il poliziotto, che lo lasciò andare.
Costa Azul si trova in un angolo sperduto del Chiapas, lo stato più povero del Messico, una regione in cui i migranti tendono a non fermarsi quando l’attraversano nel loro lungo viaggio verso gli Stati Uniti. Ma il trentenne Alvarenga non pensava alla terra bensì al mare, come faceva da quando, a undici anni, aveva abbandonato la scuola per vivere sulla spiaggia con gli amici. A Costa Azul non cercava una casa, ma una base da cui partire per le sue spedizioni di pesca lungo le coste messicane.
Protetta dalla furia del Pacifico da un’isola lunga oltre un chilometro che forma una laguna naturale, circondata da foreste in cui i taglialegna non si sono mai avventurati, l’incantevole costa era popolata da migliaia di pesci, che avrebbero scoperto troppo tardi il loro fatale errore finendo nel becco acuminato di un airone blu o tra le fauci di un coccodrillo. Come gli uccelli migratori, Alvarenga era stato attratto dalla laguna e dai suoi sterminati banchi di pesci. Da lontano riluceva come un rifugio, con le mangrovie che offrivano riparo dalle violente tempeste che a volte infuriavano per intere settimane. Come l’occhio di un ciclone, la bellezza di Costa Azul mascherava l’imminente pericolo.
«Uscire in mare aperto sembra semplice, ma è un mostro con cui devi fare i conti» spiega un compagno di Alvarenga noto come El Hombre Lobo, “L’uomo lupo”. «Quando affronti il mare, devi essere pronto a tutto, il vento, le tempeste o un grosso animale che ti vuole ingoiare. Le piccole crociere non hanno nulla a che vedere con l’oceano. Per conoscerlo davvero bisogna spingersi centoventi chilometri al largo. Sulla spiaggia la vita è confortevole e la gente dorme sonni tranquilli, ma là fuori è un’altra cosa. La paura ti opprime il petto e anche il cuore batte in modo diverso.»
Alvarenga aveva raggiunto Costa Azul camminando sugli scogli e attraversando le paludi, e non, come fanno quasi tutti, dalla stretta strada costiera che si diparte dalla Highway 200 messicana. La strada di dieci chilometri si biforca sul lungomare di Costa Azul, offrendo due opzioni. A destra ci sono i resort a cinque stelle che propongono insipidi cibi messicani, margarita a dodici dollari ed escursioni che soddisfano la passione dei turisti per il birdwatching. Le spiagge di sabbia bianca orlate di palme allettano i villeggianti con la loro promessa di privacy, incontaminati scenari naturali, colibrì, spatole rosa, falchi pescatori e decine di altre specie di uccelli che volteggiano indisturbate tra la folta vegetazione. Ma i camerieri non mettono in guardia i turisti contro i pericoli in agguato, come i giganteschi coccodrilli che popolano la laguna. La maggior parte delle ville disseminate tra gli alberghi sono di proprietà di uomini d’affari e politici locali, che hanno investito sulle potenzialità turistiche della regione, nella prospettiva futura di un riscatto del Messico dalla sua reputazione di sanguinoso narco-stato dove i bar vengono dati alle fiamme e i camerieri decapitati.
Sul versante sinistro, invece, ci sono una fila di fatiscenti capanni di pescatori e un molo con una decina di barche a forma di canoa e lunghe sette metri, alcune alimentate da una coppia di motori fuoribordo Yamaha da 75 cavalli capaci di raggiungere gli 80 chilometri all’ora. È in questa parte della città che arrivò Alvarenga. Era da dieci anni che faceva il pescatore e sperava di trovare un patrón che gli consentisse di realizzare il suo sogno di diventare capitano di una piccola imbarcazione. Ma non doveva accelerare i tempi.
I visitatori che si avventurano in questo quartiere di dubbia fama sono sempre guardati con sospetto e ricevono domande inquisitorie: Chi sei? Cosa vuoi?
Come in un pub irlandese o in certi ristoranti italiani nel North End di Boston, a Costa Azul gli uomini sono legati tra loro da una sorta di lealtà tribale. Nessuno si avventura per caso in questi quartieri.
Così spiega questa diffidenza un pescatore locale: «Se vuoi capire cosa succede realmente nel Chiapas, basta andare al largo dell’isola alle due di mattina, quando le barche dei narcotrafficanti risalgono a nord lungo la costa. Ogni notte muovono due milioni di dollari di cocaina. Tutti i poliziotti dello stato di Oaxaca [a nord del Chiapas] sono corrotti».
Alvarenga non era un narcotrafficante, e non voleva nemmeno arricchirsi trasportando di tanto in tanto un carico di coca. Al largo della costa del Messico aveva visto il triste destino dei pescatori che si lasciavano allettare dal business della droga e diventavano schiavi dei signori del cartello. Una volta aveva cercato di trainare una barca semiaffondata con lo scafo crivellato di pallottole. Non c’era più nessuna traccia dell’equipaggio. Essere divorati vivi dagli squali è la morte meno violenta che ci si possa aspettare. Gli squali, almeno, non ti torturano.
Quando arrivò a Costa Azul, ad Alvarenga non servirono molte parole, bastarono i gesti. Trovò una scopa e prese a spazzare le strade raccogliendo l’immondizia, e poi si costruì una capanna sotto un albero. Quando la gente del posto cominciò a conoscerlo, il suo entusiasmo, la sua generosità nell’aiutare i pescatori e la cura con cui ripuliva la parte turistica della città gli valsero l’ammirazione di tutti. «Senza che nessuno gli dicesse cosa fare, si rimboccava le maniche per dare una mano agli altri. È così che si ottiene la fiducia della gente» osserva Jarocho, un vecchio pescatore di Costa Azul. Alvarenga sembrava troppo pulito e metodico per essere un vagabondo, ma non parlava volentieri del suo passato. Quando si sbottonava, si trasformava in uno splendido narratore, capace di incantare il pubblico con le sue avventure marinare.
Un capo locale pagò il corpulento e muscoloso nuovo arrivato perché lo aiutasse al molo. Poi gli diede qualche banconota da cinquanta pesos [circa quattro dollari] e dopo nemmeno un mese lo assunse come aiuto pescatore. «Il lavoro di fissare le lenze è noioso, ma lui era un perfezionista» ricorda Jarocho. «Diceva: “Capo, capo, questa ha perso venti ami”. E se le reti non venivano piegate per bene, le stendeva e le ripiegava di nuovo, precisando: “È così che si guadagna, un amo perso qui e là ti fa pescare di meno”. Era sempre molto attento ai particolari.»
Alvarenga voleva unirsi al centinaio di pescatori del clan di Costa Azul. La laguna li proteggeva dalla furia dei venti stagionali dell’Atlantico e del mar dei Caraibi, che per una bizzarria geografica soffiano più violenti sul versante Pacifico del Messico. Le tempeste hanno origine nel golfo del Messico e poi scendono a sudovest, dove sono incanalate attraverso uno stretto passo tra i monti della Sierra Madre. Questo collo di bottiglia raddoppia o triplica la loro velocità, e così ai Caraibi una fresca brezza si può trasformare in una tempesta da 90 chilometri all’ora, che i meteorologi chiamano wind jet.
Il turbinoso tunnel del vento sfocia nel golfo di Tehuantepec, poco al largo di Costa Azul. Alvarenga aveva pescato per anni più a sud – vicino al confine con il Guatemala – ma sapeva quante barche erano state affondate e quanti pescatori dispersi da quelle tempeste. Aveva ascoltato a lume di candela le storie di coloro che erano rimasti intrappolati da quei venti che i locali chiamavano semplicemente Norteño. Gli uragani erano talmente frequenti che i notiziari locali non si preoccupavano nemmeno di dare loro un nome, come Katrina o Sandy, ma li citavano soltanto come l’ennesima perturbazione, invitando i pescatori a non uscire in mare.
Questo tunnel del vento è così famoso e segnato sulle carte nautiche, che le barche a vela spesso deviano centinaia di chilometri al largo per evitarlo. “Nei mesi invernali […] quasi ogni giorno ci si può aspettare una burrasca […] i venti a 50/60 nodi non sono infrequenti” scrive l’autorevole guida di viaggi online Roads Less Traveled. “Ogni anno innumerevoli imbarcazioni, grandi e piccole, si ritrovano in balia dei venti che soffiano nei trecento chilometri del golfo. Anche le navi più grosse non riescono a resistere alla loro forza e alle onde impetuose che sollevano. Le imbarcazioni non hanno altra scelta che virare sottovento e tenere duro per una lunga e spaventosa deviazione di tre-quattrocento chilometri a sud in mare aperto, dove gli effetti dei venti di Tehuantepec iniziano a svanire.”
Se c’era un posto dove non ci si doveva avventurare con una piccola barca, era proprio quello. Ma nel Chiapas il lavoro scarseggiava. La pesca intensiva aveva decimato la fauna ittica lungo interi tratti delle coste del Messico e dell’America centrale. Le specie più pregiate – quello che resta di loro – sono migrate più al largo. E i pescatori le hanno seguite. Per riempire le stive si sono spinti anche a centocinquanta chilometri al largo del Chiapas. Dopo una pericolosa traversata di cinque ore, sbattuti dalle onde, spengono i motori e calano le lenze, che arrivano ad avere fino a settecento ami, sperando che abbocchino tonni, lampughe, pesci spada e squali. Questi ultimi sono la preda più ambita. A differenza di alcune nazioni dove si vendono soltanto le pinne, in Messico la bistecca di squalo è presente nei menu di tutti i ristoranti. Nonostante i tentativi di proteggere la specie, la cui popolazione è drammaticamente calata, ogni anno migliaia di tonnellate di squali vengono pescate nelle pericolose acque del golfo di Tehuantepec.
Malgrado i rischi, i pescatori sono pagati il minimo salariale, rappresentano l’ultimo anello dell’economia globale: un trancio di tonno, che nei ristoranti di Costa Azul costa venticinque dollari, a loro frutta soltanto quaranta centesimi. Ma quando il pesce abbonda e un turno di sessanta ore può farti guadagnare duecentocinquanta dollari, non ci sono limiti ai pericoli che puoi scegliere di correre. I pescatori di Costa Azul erano una banda di reietti, accomunati da uno spirito tribale e dai codici e dagli istinti primordiali dei cacciatori professionisti. Così spiega la loro filosofia El Hombre Lobo: «La povertà ti fa fare strane cose. Per mangiare i poveri sono disposti a tutto. Se non hai altro lavoro che pescare nell’oceano, quale scelta ti resta?».
Come per i pescatori di tutto il mondo, anche per quelli di Costa Azul le prospettive non sono rosee: o cambiano mestiere oppure, di anno in anno, devono adeguarsi alla realtà dello sfruttamento selvaggio delle risorse ittiche spingendosi sempre più al largo. Alvarenga scelse la seconda opzione. Non lo considerava nemmeno un rischio. Preferiva il mare. Nei suoi primi trent’anni la vita sulla terraferma gli aveva procurato tanti problemi quanti piaceri – alcuni quasi fatali, come testimoniavano le due profonde cicatrici sulla testa e sulle braccia.
La rissa al bar era stata in parte colpa sua – quella sera a El Salvador Alvarenga era ubriaco e in cerca di guai – ma quattro uomini contro uno? O erano in sei contro due? A ogni modo, non aveva alcuna possibilità di uscirne bene, e infatti, non contenti di avergli fatto sbattere la testa sul pavimento del bar, i suoi aggressori lo avevano trascinato fuori e pugnalato ripetutamente, lasciandolo in fin di vita sulla strada. Quando la madre lo aveva trovato, si era messa a pregare e aveva chiamato un prete, convinta che sarebbe morto. Ma Alvarenga non si era dato per vinto. Non aveva mai perso coscienza e aveva rassicurato la madre dicendole che non se ne sarebbe ancora andato.
Aveva ricevuto undici pugnalate, aveva tre costole rotte e una commozione cerebrale. I suoi ricordi di quella tragica notte erano confusi, sapeva soltanto di essersi svegliato in una camera d’ospedale coperto di bende. I medici erano sorpresi che fosse sopravvissuto. Tre settimane più tardi, quando tornò a casa nel piccolo villaggio di Garita Palmera, subì un altro shock. In sua assenza, qualcuno aveva tagliato la gola a uno dei suoi assalitori, dando il via a una catena di vendette in cui Alvarenga sembrava essere il prossimo della lista. A El Salvador il tasso degli omicidi è più alto che a Baghdad e Kabul. E Alvarenga, che conosceva bene il detto spagnolo Pueblo chico, infierno grande, “Piccola città, grande inferno”, temeva di essere ucciso prima della fine dell’anno. Gli amici lo incitavano ad andarsene, dicevano che sarebbe stato uno stupido a restare solo un giorno di più. Lui cercò di resistere, ma la tensione era sempre più alta. Così alla fine decise di fuggire, non solo dalla città ma dal Paese. Fece sosta in Guatemala, dove visse sotto falso nome, quindi emigrò in Messico. Si era lasciato alle spalle tutta una vita, compresi i genitori, la fidanzata e Fatima, la figlia di un anno.
Golfo di Tehuantepec
Trovò rifugio in mare perché sulla terraferma non si era mai sentito al sicuro, come se un pianeta che ruotava nello spazio fosse soltanto un’illusione. La sua casa era una barca in movimento, lontano dalla spiaggia e dalla sua falsa stabilità. In mare si sentiva libero.
Nei quattro anni trascorsi a Costa Azul, Alvarenga cambiò spesso capo alla ricerca di un equilibrio ideale tra indipendenza, salario e trattamento. «Sono molto protettivo con la mia famiglia, ma lo invitavo a mangiare a casa nostra perché mi sembrava una persona perbene. Gli offrivo anche un’amaca perché restasse a dormire da noi» dice Jarocho. Alla fine Alvarenga ottenne il raro privilegio di vedersi offrire un alloggio dal suo datore di lavoro.
Vari patrones cercarono di sottrarlo al suo capo, allettandolo con l’offerta di una nuova barca, nuove lenze e attrezzature. Ma Alvarenga era contento della sua posizione: guadagnava abbastanza per soddisfare i suoi modesti bisogni e, a differenza che a El Salvador, in Messico la violenza era tutta concentrata attorno al traffico di droga e ai suoi molteplici tentacoli. Se si fosse tenuto alla larga da quel mondo, avrebbe potuto condurre una vita tranquilla nell’anonima semplicità di Costa Azul.
Alvarenga era libero di lavorare tanto duramente o sporadicamente quanto il suo spensierato stile di vita gli permetteva. Nei quattro anni a Costa Azul di rado fu coinvolto in risse o in altri spiacevoli incidenti. Il suo vecchio compagno di pesca Ray spiega: «Non l’ho mai visto litigare con qualcuno, tranne quando dei tizi hanno sfasciato i mobili nel ristorante di Doña Mina. C’era stata una tremenda zuffa con coltelli e catene, e lui se l’era cavata bene. Era bravo a menare le mani, ma voleva soltanto divertirsi e tenere alto il morale della compagnia».
Dopo aver visto tanti colleghi finire nei guai con l’alcol, aveva capito che era più sicuro bere e divertirsi con pochi amici fidati anziché ubriacarsi nelle cantinas dove si radunavano gli altri pescatori. Il suo stile di vita ideale erano quattro giorni di sbronze seguiti da dieci di pesca, o viceversa. I postumi erano irrilevanti, li superava con un’altra bevuta o con due giorni in mare aperto a sudare l’alcol da tutti i pori. Nonostante gli estenuanti turni di trenta, sessanta ore in oceano aperto, non si lamentava mai. Era sempre ottimista. «Anche se pescava soltanto qualche pesce, rientrava sempre al porto con il sorriso sulle labbra» dice Bellarmino Rodríguez Beyz, il suo supervisore a terra, ex collega e amico intimo. «Persino quando tornava a mani vuote, accostandosi al molo urlava: “Ho fatto centro!”.» Ignaro o immune alle disgrazie del mondo, Alvarenga viveva in pace, era il tipo di persona che poteva russare su un autobus affollato, appoggiare la testa sulla spalla dello spettatore accanto a lui al cinema o sognare sotto un albero in un parco.
La scarsa tecnologia e la furia degli elementi mettevano continuamente a repentaglio la vita dei pescatori che non esitavano a sfidare la fortuna. Nessun patrón avrebbe mai ordinat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 438 giorni
  4. 1. Cacciatori di squali
  5. 2. Una tribù burrascosa
  6. 3. Intrappolati in mare
  7. 4. Salvataggio fallito
  8. 5. Alla deriva
  9. 6. Cacciatori raccoglitori
  10. 7. Una lotta per la vita
  11. 8. Nuotando con gli squali
  12. 9. Incontri con la balena
  13. 10. Sulla strada per il nulla
  14. 11. Un anno in mare
  15. 12. Un’altra morte lenta
  16. 13. Il gallo
  17. 14. Chi è quel selvaggio?
  18. 15. Ritrovato ma perso
  19. 16. L’imboscata degli scarafaggi
  20. 17. Il richiamo del mare
  21. Postfazione dell’autore
  22. Il tempo e la mappatura
  23. Traduzioni e imprecazioni
  24. Ringraziamenti
  25. Inserto fotografico
  26. Copyright