SECONDA PARTE
Capitolo otto
Il 31 marzo 1937 la tedesca legione Condor bombardò la città di Durango nella regione dei Paesi Baschi, in Spagna. Scelsero un giorno di mercato, nel bel mezzo del pomeriggio.
Verrian Haviland avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi là, e non disteso su un letto in uno squallido alberghetto parigino a combattere con il residuo di un febbrone. Il giornale che la cameriera aveva portato su insieme al caffè del mattino confermò quello che aveva sospettato negli ultimi giorni trascorsi a Madrid: il teatro di guerra si stava spostando a nord. I fascisti non erano riusciti a conquistare la capitale e stavano prendendo di mira i centri industriali della Spagna. Ma, anche così, colpire la piccola Durango non aveva alcun senso.
Verrian lo aveva già sostenuto in un dispaccio spedito da Madrid il 9 marzo. Aveva battuto a macchina la copia all’indomani di un raid aereo e lo aveva trasmesso via telegrafo, molto tardi, per l’edizione del mattino successivo. A un certo punto della notte il suo editore, che si dà il caso fosse anche suo fratello Jack, aveva ricevuto l’articolo e vi aveva aggiunto il suo tocco creativo.
Tre giorni dopo si era scatenato l’inferno.
Verrian allungò un braccio abbronzato per vedere se le ferite si erano chiuse. Non del tutto, ma non facevano più male. In più, riusciva a serrare il pugno e contare quante dita era in grado di muovere. Sapeva, a giudicare dalla voglia disperata che aveva di fumare una sigaretta, di aver superato il punto critico della febbre. Si lavò nel lavandino del bagno comune e andò a caccia di una camicia pulita, ricordandosi poi che aveva solo quella con cui era arrivato.
Quel pensiero gli riportò alla mente un incubo al rallentatore. Si lasciò cadere di nuovo sul letto e rivisse l’istante in cui un poliziotto repubblicano spagnolo aveva sbattuto un suo amico, Miguel Rojas Ibarra, contro il muro di un ufficio governativo… gli aveva preso una mano… l’aveva sollevata come fosse un bersaglio… il rumore che era seguito si era radicato nel corpo di Verrian in profondità, come le schegge di intonaco schizzate via dalla parete. Miguel era stato trascinato via e la polizia era venuta a prendere lui. Aveva lottato per fuggire dall’edificio, tagliato per vicoli e stradine laterali e si era rifugiato nella cripta di una chiesa. Solo, in quel posto buio e umido, aveva ricostruito l’accaduto. Aveva spedito la copia nell’innocenza più totale, accertandosi che giungesse alla sede londinese del «News Monitor» quando suo fratello faceva il turno di notte. Jack aveva pubblicato il pezzo nell’edizione del mattino successivo ma, prima, aveva modificato alcune parole per allinearle ai suoi personali pregiudizi politici. Le autorità spagnole dovevano averne ricevuto notizia intorno al 13 di marzo, e avevano reagito con una rapidità feroce.
Verrian era rimasto nascosto nella cripta per una settimana: usciva nelle strade bombardate solo per prendersi da mangiare in qualche caffè, e non poteva tornare al suo albergo per il rischio che le pattuglie di polizia lo stessero cercando. Alto e con gli occhi azzurri, non si sarebbe confuso con la folla di Madrid, e giacca e camicia macchiate di sangue lo avrebbero tradito subito.
Alla fine, per il timore di morire assiderato e in preda a un’ansia disperata per Miguel, aveva lanciato qualche moneta a un tassista e si era fatto portare all’aeroporto più vicino. Non ricordava molto del viaggio o dei blocchi stradali. Doveva essere riuscito a inventare qualche scusa per superarli. Attingendo alle ultime forze aveva attraversato di corsa la spianata di cemento dell’aerodromo di Albacete, raggiungendo la fiancata di un Avro Anson proprio mentre si preparava al decollo. Quanto al volo… non si era mai sentito così male. L’avambraccio e il dorso della mano, con cui si era riparato il volto dall’esplosione dello sparo, erano ustionati fino alla carne viva e non riusciva a cancellare dalla mente la scena: Miguel piegato in due e, dietro di lui, scaffali pieni di risme di carta bianca tinti di rosso, perché gli avevano sparato nel magazzino di una cartoleria. Verrian ricordava di essere atterrato all’aeroporto di Parigi Le Bourget e di aver preso un taxi fino all’albergo. A un certo punto aveva chiamato Londra, pregando Jack di smuovere cielo e terra per aiutare Miguel visto che tutto quell’orrore era accaduto per colpa sua.
Aveva cercato di stare calmo. Era partito bene. «Quel mio pezzo che hai pubblicato…»
«“Il nostro uomo nel fango. Topi, sotto l’assalto di ombre rapaci.”» La risata bassa di Jack aveva spogliato il commento di ogni lusinga. «Volevi vincere il Robbie Burns Prize per la poesia?»
Verrian si ricacciò in gola una risposta irritata. Non c’era tempo da perdere con i giochetti compiaciuti di Jack. «Ho descritto il bombardamento in cui mi sono ritrovato coinvolto. La frase finale era: “Ciò che oggi accade a Madrid potrebbe forse domani accadere anche a Londra, Oxford o Parigi?”. Tu hai tagliato quella frase e l’hai sostituita con un rigurgito di propaganda fascista.»
«Ah sì? Be’, me la dovrai spiegare, vecchio mio.»
«Hai aggiunto una frase, e suggeriva che il governo spagnolo deruba le chiese per comprare armi dalla Russia dei Soviet.»
«È la verità» ribatté tranquillo Jack. «I repubblicani spagnoli sono rossi fino all’osso. Là, a Madrid, non si può fare un passo senza incappare in un compagno. Dovrebbero aspettarselo, che l’opposizione reagisca con un paio di bombardamenti.»
«Immagino che la vita a Fleet Street e i fine settimana trascorsi a passeggiare con il cane nelle colline del Sussex ti abbiano reso un esperto in guerre incendiarie, vero?» La reazione di Jack, che voleva addolcirlo con un «Su, su, andiamo…» aveva ottenuto l’effetto opposto. Verrian mollò i freni e lasciò sgorgare la rabbia. «Ho passato dieci mesi a mandare corrispondenze dal fronte di Madrid, sforzandomi di rimanere neutrale mentre mi sparavano addosso e mi sganciavano bombe sulla testa, a parlare con le truppe, a mangiarci insieme, e a scavalcare i cadaveri. I repubblicani mi hanno permesso di accedere ai campi di battaglia perché si fidavano di me. Si fidavano. Modificando il mio articolo e aggiungendo quella frase hai distrutto tutto quello che avevo costruito! Il dipartimento della stampa governativa ha incolpato i suoi addetti alla censura per quelle parole e un poveraccio ne ha pagato lo scotto.»
Il poveraccio era Miguel Rojas Ibarra, un impiegato del livello più basso all’ufficio censura, con cui Verrian aveva fatto amicizia per via di una passione condivisa per il jazz e le opere di Cervantes. Descrisse com’era stato punito l’amico, ignorando la preghiera di Jack di risparmiargli dettagli tanto orrendi la mattina presto. «Devi smuovere cielo e terra per aiutarlo. Cielo e terra, Jack, o io tornerò a Madrid e scatenerò un putiferio. Non lascerò morire Miguel per le ferite in prigione: ha una famiglia.»
Jack lo accusò di essere un maledetto idiota, troppo coinvolto emotivamente. Però accettò di fare quello che poteva e promise anche di spedire a Verrian il fondo spese che non aveva ancora ricevuto, così che potesse trasferirsi in un albergo decente. «Avrai bisogno di raderti e lavarti, se sei stato clandestino per una settimana. Resta un po’ a Parigi, renditi di nuovo presentabile e civile, e io mi rimetterò in contatto con te quando, o meglio, se avrò qualcosa da dirti. Adesso, però, c’è una cosa che tu potresti fare per me…
«… per me e per quelli per cui lavoro in Russia». Verrian rammentava vagamente di aver accettato di fare qualcosa, ma non riusciva a ricordare cosa. Aveva lasciato il ricevitore del telefono lì a penzolare mentre veniva colto da un’ondata di nausea. Ricordava di essersi trascinato di sopra, in camera sua, usando il corrimano della scala come fosse una corda di salvataggio. Era crollato sul letto, con la pelle che pareva prendere fuoco. Se l’era sognato, che qualcuno gli posava panni freddi sulla fronte? E che gli faceva bere un liquido amaro?
Non sapeva se Jack avesse cercato di mettersi in contatto con lui mentre giaceva nel letto, madido di sudore, o se Miguel fosse stato rilasciato. Doveva chiamare Londra e scoprirlo.
Un treno merci che partiva dalla Gare du Nord fece ondeggiare il paralume e Verrian prese un’altra decisione. Un nuovo alloggio. Per quanto fosse riconoscente a Laurentin, il padrone dell’albergo, preferiva passare la sua vacanza forzata a Parigi in una stanza che non tremasse. Purtroppo, a quanto pareva sarebbe rimasto bloccato lì, almeno per il futuro prossimo, visto che aveva lasciato passaporto e permesso per la stampa a Madrid. Ci sarebbe voluto del tempo per rinnovarli.
Quando Verrian gli comunicò la sua decisione di andarsene, Laurentin si limitò a un’alzata di spalle. «Prova alla Butte de Montmartre, lì di treni non ce ne sono. Ti va un cognac, mentre ti preparo il conto? Vuoi pranzare? Ti presto una camicia?»
Verrian rispose in modo affermativo per il pranzo e la camicia e chiese una sigaretta e il permesso di fare una telefonata internazionale. Mentre componeva il numero, un altro ricordo gli tornò alla memoria. Una centralinista che gli parlava di nebbia e vino invecchiato. Il tono oscillava tra senso di superiorità e ilarità e aveva l’impressione di averle chiesto, nell’annebbiamento della febbre, di sposarlo.
Questa volta fu una donna più anziana a dargli la linea.
«Dove diavolo sei finito?» furono le prime parole di Jack. «Ti aspettavano in Rue du Boccador giorni fa. C’erano un ufficio e una scrivania per te. Il personale era tutto schierato, pronto a stringerti la mano, e tu non ti sei fatto vedere!»
Ci vollero un paio di secondi perché Verrian capisse a cosa si riferisse il fratello. L’edizione francese del «News Monitor» aveva la sede in Rue du Boccador, non lontano dagli Champs-Élysées. In cambio dell’aiuto di Jack a Miguel doveva aver accettato di scrivere per il giornale mentre si trovava a Parigi: suo fratello non faceva mai niente per niente. «Hai tirato fuori dal carcere il mio amico?»
«Sì. La tua riconoscenza è data per scontata.»
Verrian si accasciò contro la parete. “Grazie a Dio ho fatto una cosa giusta”. «Te ne sono grato. È ancora in Spagna… Miguel?»
«Solo se ha veramente voglia di morire. Gli è stata fornita ogni possibilità di partire, insieme alla sua famiglia. Ma ora parliamo di te, e della tua promessa di essere il mio inviato da Parigi per la politica.»
«Ascolta, Jack…» La linea si spezzettò in quegli echi tossicchianti che sovente s’impossessavano delle chiamate internazionali. Resistette alla tentazione di urlare «Pronto! Pronto!» e dare colpi al ricevitore, cosa che non sarebbe servita a nient’altro che a sfogare la frustrazione. «Jack! Ci sei ancora?»
«Più o meno.»
«Appena posso tornerò in Spagna. Sono un corrispondente di guerra. Non c’entro niente, qui.»
La risata di Jack risuonò metallica, come fosse uscita dalla slot-machine di una fiera. «Sei il nostro nuovo uomo a Parigi, Verrian. Hai dato la tua parola in cambio della vita del tuo amico Miguel…»
Un clic indicò che la linea era caduta.
Verrian studiò il conto che Laurentin aveva depositato accanto al posacenere, contando i giorni trascorsi dal suo arrivo. Santo cielo: era stato malato per quasi due settimane. L’ultima volta che era stato sdraiato in un letto così a lungo andava ancora a scuola e aveva avuto la difterite. Laurentin glielo confermò.
«Sei arrivato alle prime ore del mattino, il 21 di marzo. Fortuna che sto aperto per i lavoratori del turno di notte, hein? Hai mangiato qualcosa, hai fatto una telefonata e sei svenuto. Non sapevo cosa farne di te… non avevi documenti.»
«Ti sono grato per avermi permesso di restare qui.»
Laurentin spazzò via le briciole dal tavolo con un tovagliolo. «Ci siamo scambiati qualche parola in francese e poi, di punto in bianco, parlavi spagnolo. Il dottore del quartiere lo parla e ha detto che avevi un incubo e sognavi di morire bruciato. Abbiamo deciso che doveva trattarsi di malaria e ti abbiamo somministrato del chinino. La mia cameriera, Maria, ti ha messo dei panni bagnati sulla fronte.»
Laurentin aprì la porta, la bloccò, e cominciò a disporre i tavoli sul marciapiede per i clienti che venivano a pranzare di buon’ora. Notando il giornale sul tavolo di Verrian, aperto alla pagina del bombardamento su Durango, sospirò: «La tua anima ha bisogno di una vacanza. Goditi quello che offre Parigi».
Venerdì, 2 aprile
La futura suocera di Christine, la duchessa di Brioude, era arrivata in Boulevard Racan dopo la messa della domenica di Pasqua e sarebbe rimasta un po’ più di una settimana. Una donna piacevole, anche se piuttosto soverchiante, ma il suo arrivo aveva gettato nel caos il mondo di Jean-Yves.
Per l’occasione, Rhona aveva assunto del personale aggiuntivo che era sempre tra i piedi. Aveva riempito la casa di fiori che facevano starnutire tutti. E dato che la duchessa non amava i cani di piccola taglia, aveva chiuso Tosca e Figaro nella stanza della musica, dove ululavano senza posa. Quella mattina, Jean-Yves l’aveva presa da parte e le aveva detto: «Mia cara, non c’è molto, qui...