La meta e la via
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La meta e la via

Racconti scelti

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La meta e la via

Racconti scelti

Informazioni su questo libro

Kafka è uno dei profeti dell'animo contemporaneo. In questa antologia che raccoglie alcuni dei suoi più potenti racconti – da Un medico di campagna a La tana, da Un eroismo quotidiano a Un messaggio imperiale – possiamo seguire la voce che ha documentato in modo sorprendente e a tratti profetico la crisi e la speranza dell'uomo di oggi: tutti i toni della cupezza, dell'ossessione e dell'infelicità moderna trovano nella scrittura di Kafka acuta espressione, restituendoci il dramma dell'esistenza umana, costantemente stretta tra i propri limiti e la propria ansia di infinito. Racconto dopo racconto, emerge così da queste pagine il desiderio di reperire una speranza possibile, di trovare una via che finalmente conduca alla meta sempre intravveduta.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817078504
eBook ISBN
9788858674420

LE INDAGINI DI UN CANE

(luglio 1922)

Quanto si è trasformata la mia vita! e quanto, in fondo, è rimasta sempre la stessa! Se ora ripenso al passato e mi richiamo alla mente i tempi in cui vivevo ancora fra i cani miei simili ed ero partecipe di tutti i loro assilli, cane fra i cani, trovo che, a osservar le cose più da vicino, in questa vicenda c’è sempre stato qualcosa che non quadrava, una piccola falla; e difatti un lieve malessere si impadroniva di me nel bel mezzo delle manifestazioni popolari più solenni, anzi, a volte persino mentre mi trovavo in una cerchia di conoscenti; e non solo in certi casi, ma molto sovente la semplice vista di un mio amato consimile, il semplice vederlo sotto un’angolatura in qualche modo inconsueta mi rendeva imbarazzato, spaventato, perplesso e addirittura disperato. Cercavo in qualche modo di calmarmi, e degli amici che misi al corrente della cosa cercarono di soccorrermi; poi vennero di nuovo periodi più tranquilli... Periodi nei quali certamente quelle sorprese non mancavano, ma venivano comunque sopportate con maggiore serenità e venivano inserite con maggiore serenità nella mia vita, rendevano forse tristi e stanchi, ma per il resto mi lasciavano esistere ancora in quanto cane, sia pure un po’ freddo, ritroso, pauroso, calcolatore, ma tutto sommato pur sempre un cane in piena regola. Come avrei potuto raggiungere altrimenti, senza quelle pause distensive, la veneranda età di cui adesso mi rallegro? E come avrei potuto altrimenti conquistarmi la serenità con cui adesso contemplo le trepidazioni della mia giovinezza e sopporto quelle della vecchiaia? Come avrei potuto arrivare a trarre le conseguenze della mia indole infelice, ahimé, o (per esprimermi con più cautela) non proprio felicissima, e a vivere quasi in perfetto accordo con esse?
Appartato, solitario e dedito unicamente alle mie piccole indagini, disperate eppure per me indispensabili: ecco come vivo. Ma non ho perso di vista il mio popolo, sia pure di lontano; spesso qualche notizia giunge fino a me, e di tanto in tanto ne invio anch’io. Vengo trattato con rispetto; non capiscono questo mio modo di vivere, ma non me lo rinfacciano, e persino i giovani cani che ogni tanto vedo passare in lontananza, una nuova generazione della cui infanzia ho sì e no un confuso ricordo, non mi negano il loro rispettoso saluto.
Non bisogna infatti dimenticare che, nonostante le mie stranezze evidenti, io non sono affatto un cane totalmente degenere. A pensarci bene (e per farlo non mi mancano né tempo né voglia né capacità) la razza canina di per sé ha un curioso destino. Oltre a noi cani ci sono tutt’intorno molte specie di creature, poveri esseri spregiati e muti che non sanno emettere se non qualche gridolino; parecchi di noi cani le studiano, han dato loro dei nomi, cercano di aiutarle, di allevarle, di renderle più nobili, eccetera eccetera. A me, purché non tentino di dar noia, sono indifferenti, tanto che le confondo l’una con l’altra e non mi soffermo neanche a guardarle. Una cosa però balza troppo agli occhi perché abbia potuto sfuggirmi: e cioè quanto poco solidali esse siano se confrontate con noi cani, quanto mute indifferenti e sovente persino ostili siano quando si passano accanto, e il fatto che il più vile interesse possa tenerle un po’ unite superficialmente, e che spesso proprio da questo interesse nascano persino degli odi e delle risse. Come siamo diversi invece noi cani! Si può proprio dire che viviamo addirittura in un sol mucchio, tutti quanti, benché siamo tanto diversi fra di noi, per via delle innumerevoli e profonde differenze formatesi con il passare del tempo. Tutti in un mucchio! Ci sentiamo spinti l’un verso l’altro, e niente può impedirci di secondare quell’impulso; tutte le nostre leggi e istituzioni, quelle poche che ancora conosco e le innumerevoli che ho dimenticato, sono il frutto della nostalgia della massima felicità di cui siamo capaci: cioè il tepore dell’essere riuniti. Ma ora vediamo il contro. A quanto io sappia, nessuna creatura vive tanto dispersa come noi cani, nessuna ha così numerose e così vistose differenze di classe, di specie e di occupazione. Noi che vogliamo essere uniti (e ci riusciamo sempre, nonostante tutto, nei momenti di entusiasmo), proprio noi viviamo separati a grandi distanze l’uno dall’altro, intenti a occupazioni singolari e a volte incomprensibili per lo stesso cane che ci sta vicino, attenendoci a prescrizioni che son ben diverse da quelle della razza canina e che, anzi, le sono contrarie. Cose difficili, cose che si preferisce non toccare (io comprendo anche questo punto di vista, lo capisco meglio del mio), cose però alle quali mi son votato corpo e anima. Perché non faccio come gli altri? Perché non vivo in armonia con il mio popolo e non accetto in silenzio ciò che turba l’armonia e non lo trascuro come un piccolo errore nell’enorme computo, e non resto continuamente rivolto a ciò che lega felicemente anziché a ciò che di continuo e irresistibilmente ci trascina fuori dalla cerchia degli altri cani?
Mi rammento di un fatto capitatomi quand’ero giovincello: ero preda, in quel momento, di una di quelle beate e inspiegabili eccitazioni che tutti abbiamo senz’altro vissuto da piccoli, ero ancora un cucciolotto, tutto mi piaceva, tutto mi riguardava, credevo che intorno a me accadessero grandi cose la cui spinta motrice ero io e alle quali dovevo prestar la mia voce, cose che sarebbero state per forza miseramente trascurate se io non correvo per loro e se io per loro non scodinzolavo; fantasie puerili, insomma, che poi scompaiono con gli anni. Allora però erano ben salde, io ne ero completamente incantato; e naturalmente successe quindi anche qualcosa di straordinario che parve dar ragione alle mie attese impetuose. Di per sé, non era niente di straordinario, poiché in seguito ho visto fin troppe volte cose come quelle e persino più strane; allora però il fatto mi colpì lasciando in me un’impressione grande, nuova e indelebile che avrebbe determinato anche molte di quelle successive. M’imbattei infatti in una piccola compagnia di cani, o meglio: non mi ci imbattei, ma fu essa stessa a venirmi incontro. Ero corso per parecchio tempo nel buio, presentendo però grandi cose (un presentimento che naturalmente poteva facilmente trarre in inganno, dato che lo avevo sempre!); ero corso per parecchio tempo nel buio, in lungo e in largo, cieco e muto verso qualsiasi cosa, guidato unicamente da una voglia indistinta, quando tutt’a un tratto mi arrestai con la sensazione di trovarmi nel luogo giusto; alzai la testa; era giorno fatto, anche se restava un po’ di nebbia; un giorno pieno di odori che fluttuavano confusi e inebrianti; io stavo salutando il mattino con guaiti confusi, quand’ecco sbucare alla luce da qualche punto oscuro – come evocati da me – sette cani che facevano un baccano tremendo quale non avevo ancora mai udito. Se non avessi visto chiaramente che erano cani, e che il frastuono veniva proprio da loro (benché non riuscissi a capire come facessero a produrlo) sarei sùbito scappato via; e invece rimasi. Allora ignoravo ancora quasi tutto della musicalità creativa che pertiene solo alla razza canina; essa naturalmente era sfuggita finora alla mia capacità di osservazione che andava sviluppandosi solo gradualmente; infatti, fin da quando poppavo, la musica mi aveva attorniato come un elemento vitale e indispensabile che nulla mi induceva a scindere dal resto della mia vita; ma si era cercato di farmela notare soltanto con allusioni, data la mia intelligenza ancora infantile; tanto più stupefacenti e addirittura sconvolgenti furono dunque per me quei sette grandi musi canti. Non parlavano, non cantavano, in genere tacevano quasi con grande ostinazione, eppure essi facevano sprigionare, come per magia, la musica dal vuoto. Tutto era musica: il modo in cui sollevavano e poi riabbassavano le zampe, taluni movimenti della testa, la loro maniera di correre e di star fermi, le posizioni che essi assumevano reciprocamente, le combinazioni quasi danzate che tra di loro imbastivano quando, ad esempio, uno posava le zampe anteriori sul dorso dell’altro, e poi quando si schieravano in modo che il primo, restando in piedi, reggeva il peso di tutti gli altri, oppure quando con i corpi che quasi strisciavano per terra essi formavano figure intrecciate, senza mai sbagliare; è vero che l’ultimo di loro, che non era ancora del tutto sicuro di sé, stentava a trovare sùbito la congiunzione con gli altri, e in qualche momento appariva tentennante nell’attaccar la melodia; ma insicuro era soltanto in confronto alla straordinaria sicurezza degli altri, e quand’anche fosse stato ancora più insicuro o magari insicuro del tutto non avrebbe potuto rovinar nulla, visto che gli altri, grandi maestri com’erano, erano irremovibili nel tenere il ritmo. Però non si riusciva quasi a intravederli; sì, eran tutti pressoché indistinguibili. Erano comparsi, li si era sa lutati in cuor nostro come cani, si era molto frastornati, a dire il vero, dal fragore che li accompagnava; ma erano pur sempre cani, come me e come te; li si osservava per abitudine, come cani che s’incontrano per strada, ci si voleva avvicinare a loro, scambiare i saluti; ed erano anche vicinissimi, cani certamente molto più anziani di me e non appartenenti alla mia specie che ha il pelo lungo e lanoso, ma neanche poi troppo diversi per dimensioni e per forma, anzi molto familiari; ne conoscevo molti della stessa specie o di una specie simile; ma mentre si era ancora immersi in riflessioni simili, la musica prendeva il sopravvento a poco a poco, ti afferrava letteralmente, ti trasporta va lontano da quei cagnolini concreti, e senza assolutamente volerlo, pur recalcitrando con tutte le forze e urlando come se ti facessero male, non ci si poteva più occupare di altro che di quella musica che veniva da ogni parte, sia dall’alto che dal basso, la quale accerchiava l’ascoltatore, lo inondava e lo schiacciava e al di là di quel suo annientamento risuonava ancora talmente vicina da essere già lontana e continuava a dare fiato, quasi impercettibilmente, alla sua fanfara. E poi si veniva di nuovo lasciati liberi perché si era già troppo esausti, troppo annichiliti e deboli, e si vedevano i sette cagnolini effettuare le loro processioni, fare i loro salti, e per quanto essi sembrassero contrari, si aveva voglia di chiamarli, di chieder loro qualche ammaestramento, di domandar loro che cosa stessero facendo in quel luogo (ero un bambino, e pensavo di poter interrogare sempre chiunque volevo), ma appena cominciavo, appena sentivo il buon contatto a me familiare fra cani, di nuovo la loro musica mi stordiva, mi faceva girare come una trottola, come se fossi anch’io uno dei musicanti, mentre in realtà non ero altro che la loro vittima, mi sballottava di qua e di là per quanto io implorassi pietà; e alla fine essa mi salvò dalla sua stessa violenza sospingendomi in un groviglio di tronchi che sorgevano tutt’intorno senza che finora me ne fossi accorto, e che adesso mi avvolsero saldamente, mi fecero abbassare la testa e, per quanto là fuori la musica continuasse a rimbombare, mi consentirono un pochino di riprender fiato. Veramente, più che dell’arte dei sette cagnolini (che mi era incomprensibile e che al tempo stesso era impossibile per me collegare con qualcuna delle mie capacità) mi stupivo del coraggio con cui essi si aprivano interamente e apertamente al compito che si erano assunti, e della loro forza nel sopportarlo tranquilla mente senza rompersi la spina dorsale. Certo, osservando meglio dal mio nascondiglio, a questo punto scoprii che essi lavoravano non già con tranquillità ma in preda a un’estrema tensione; quelle zampe che essi apparentemente muovevano con tanta sicurezza tremavano a ogni passo con incessanti tremiti d’angoscia, l’uno guardava l’altro come in preda a una disperazione che lo irrigidiva, e la lingua continuamente trattenuta penzolava sùbito di nuovo floscia dalle loro bocche. A metter loro addosso quell’agitazione non poteva essere la paura di non riuscire; chi osava tanto e compiva tali prodezze non poteva aver più paura... Paura di che, in fondo? Ma chi li costringeva a fare ciò che facevano? E non potei più trattenermi, specialmente adesso che mi apparivano così stranamente bisognosi di aiuto, per cui, nonostante tutto quel frastuono, gridai a gran voce e in tono pretenzioso le mie domande. Ma essi (cosa inaudita! davvero inaudita!) non risposero nemmeno, fecero come se io non ci fossi. Cani che a un appello di altri loro simili non si degnan neppure di rispondere: un vero oltraggio alle buone maniere, un oltraggio imperdonabile in ogni caso, sia per il cagnolino più minuscolo che per il cane più grande. Che però non fossero cani? Ma come avrebbero potuto non esserlo, dato che tendendo più attentamente le orecchie adesso udivo persino le esclamazioni sommesse con cui essi si incoraggiavano a vicenda, si segnalavano l’un l’altro alcuni passaggi musicali difficili e si mettevano in guardia contro possibili errori? Non vedevo forse l’ultimo cagnolino, quello più piccolo che era l’oggetto della maggior parte degli incitamenti, sbirciare più e più volte verso di me come se avesse una voglia matta di rispondermi eppure dovesse trattenersi soltanto perché era vietato? Ma perché poi era vietato, perché stavolta doveva esser vietato ciò che le nostre leggi richiedono sempre senza riserve? La cosa mi rendeva indignato, e quasi mi dimenticavo della musica. Quei cani violavano la legge. E quand’anche fossero dei maghi, la legge valeva anche per loro; questo, benché fossi ancora piccolino, lo capivo già benissimo. E da quel momento in avanti notai altre cose ancora. Avevano veramente motivo di tacere, ammesso che tacessero per senso di colpa. Che strano modo di comportarsi, infatti, era il loro! Per via di tutta quella musica finora non m’ero accorto che essi avevano perso ogni pudore; quegli sciagurati facevano la cosa più ridicola e insieme più indecente: camminavano ritti sulle zampe posteriori. Che vergogna! Si scoprivano e ostenta vano sfacciatamente la loro nudità: se ne compiacevano; e quando, per un istante, obbedivano all’istinto sano e tiravan giù le zampe anteriori se ne spaventavano persino come se si trattasse di una svista, come se la natura fosse fatta male, rialzavano immediatamente le zampe, e il loro sguardo sembrava volersi scusare del fatto che si erano interrotti per un attimo nella loro peccaminosità. Il mondo s’era capovolto. Dove mai ero finito? Che cosa era accaduto? A quel punto, per amore del mio stesso essere, non dovevo avere più esitazioni, mi liberai dei tronchi che mi avvolgevano, feci un balzo in avanti e cercai di correre verso i cani; uno scolaretto come me dovette essere il maestro, chiarir loro quel che stavano facendo, trattenerli dal macchiarsi di altre colpe: «Cani così anziani! Cani così anziani!...», mi andavo ripetendo. Ma non appena mi fui liberato e quando ormai mi separavano dai cani solo due o tre balzi, ecco quel fragore che si impadroniva nuovamente di me. Forse nel mio zelo avrei persino saputo resistere al rumore, dato che già lo conoscevo, se in tutta la sua intensità (che era tremenda, ma che io credo si sarebbe potuta combattere benissimo) non fosse echeggiato un suono limpido e austero, sempre uguale a se stesso, come se provenisse, immutato, da molto lontano, forse la vera melodia in mezzo a tutto quel fragore, e non mi avesse invece costretto a piegare le ginocchia. Oh che musica seducente producevano quei cani! Non riuscivo ad appressarmi ulteriormente. Né avevo più voglia di istruirli; che continuassero pure ad allargare le gambe, a peccare e ad indurre gli altri al peccato di starli a guardare in silenzio! Io ero soltanto un cagnolino inesperto; chi poteva pretendere da me cose talmente ardue? Mi feci ancora più piccolo di quanto fossi e cominciai a guaire: se i cani mi avessero domandato il mio parere, forse avrei dato loro ragione. D’altronde la cosa non continuò per molto, ed essi scomparvero, insieme a tutto quello strepito e a quel bagliore, nell’oscurità da cui erano venuti.
Come ho già detto, tutta la vicenda non conteneva nulla di straordinario in sé; nel corso di una lunga vita possono capitare cose che, isolate dal loro contesto e viste con gli occhi dell’infanzia, apparirebbero assai più strane ancora. Inoltre, come si dice secondo un termine specifico, lo si può naturalmente «analizza re» come qualsiasi altra cosa, e allora risulterà che in quel luogo sette musicanti erano venuti per suonare nel silenzio del mattino, che un cagnolino sperduto era finito lì per caso, facendo da molesto uditore che essi avevano però invano cercato di mettere in fuga con una musica eccezionalmente terribile, o sublime. Lui li aveva importunati con le sue domande, e loro, ai quali già la sola presenza dell’intruso aveva dato noia abbastanza, dovevano forse accettare quella nuova seccatura, dovendo per giunta pure rispondere? E anche se la legge ordina di rispondere a chiunque, forse che quel cane così minuscolo sbucato da chissà dove rappresentava qualcuno del quale dover tener conto? E magari non lo avranno capito neppure; forse lui avrà abbaiato le sue domande in maniera incomprensibile. O magari invece lo avranno capito e gli avranno risposto facendo lo sforzo di superarsi, ma lui, il piccolino non ancora avvezzo alla musica, non avrà saputo scindere la risposta dalla musica stessa. E per quel che concerne le zampe posteriori, può darsi benissimo che i sette cani camminassero reggendosi soltanto su di esse in via del tutto eccezionale. È una colpa, d’accordo. Ma erano da soli, sette amici tutti amici fra loro, in un ritrovo riservato e confidenziale; in un certo senso erano fra le quattro pareti domestiche e soli soletti, poiché gli amici non sono un pubblico, e dove manca il pubblico non può certo crearlo da solo un cagnolino randagio pieno di curiosità: in questo caso, non è dunque come se non fosse successo niente? Certo, non è proprio così, ma lo è quasi, e i genitori dovrebbero insegnare ai propri figlioletti ad andare un po’ meno a zonzo, e invece dovrebbero insegnar loro a tacere e a rispettare gli anziani.
Giunti a questo punto, la faccenda è risolta. Però, quello che è risolto per i grandi non lo è ancora per i piccolini. Io correvo di qua e di là, raccontavo e facevo domande, accusavo e investigavo e volevo trascina re tutti quanti sul luogo dove era accaduto il fatto, per far vedere a tutti il punto in cui stavo io e quello in cui si trovavano i sette cani, e dove e come essi avessero danzato e suonato; e se qualcuno invece di mandarmi via e di prendermi in giro mi avesse seguìto, io avrei senz’altro sacrificato la mia innocenza e avrei cercato di rizzarmi sulle zampe posteriori per far vedere precisamente come erano andate le cose. Orbene, a un piccolino si rimprovera tutto, ma poi alla fine gli si perdona anche tutto. Ma io ho conservato quella natura infantile, anche adesso che son diventato un cane attempato. Allora non la smettevo più di raccontare ad alta voce quella vicenda che oggi, del resto, ritengo assai meno importante, di spezzettarla nelle sue varie componenti, di confrontarla con l’atteggiamento dei presenti, senza alcun riguardo per la società in cui mi trovavo, continuamente assorbito unicamente da quella faccenda, che anch’io come tutti gli altri trovavo molesta ma che (e questa era la differenza) appunto per questo volevo risolvere grazie alle mie indagini senza lasciare lati in ombra, per ritornare alla fine a guardare liberamente la comune, tranquilla e felice vita diurna. Esattamente come allora ho poi sempre lavorato anche in seguito, sia pure con mezzi meno puerili – ma la differenza non è grandissima – e neanche oggi sono mutato.
Ma quel concerto costituì l’inizio. Non me ne la mento ; è la mia natura congenita che agisce qui e che sicuramente, se non ci fosse stato quel concerto, avrebbe trovato qualche altra occasione per prorompere. Prima mi addolorava talvolta soltanto il fatto che questo sia accaduto così presto; ciò mi ha privato infatti di una grossa fetta della mia infanzia; la vita beata dei cani giovani che alcuni di loro riescono a prolungare per anni, per me durò soltanto qualche breve mese. Pazienza! Esistono cose più importanti dell’infanzia. E magari nella vecchiaia mi attende, come guadagno di una vita dura, più felicità infantile di quanto non avrebbe la forza di sopportarla un giovincello vero e proprio, forza che allora io invece avrò.
Cominciai in quell’epoca le mie indagini partendo dalle cose più semplici; il materiale non mancava, purtroppo; è l’averne in eccesso a farmi disperare, nei momenti foschi. Cominciai a indagare le cose di cui si nutre la razza canina. Orbene, se vogliamo, non è una questione semplice, essa ci tiene impegnati sin dai tempi primordiali, è l’oggetto principale delle nostre riflessioni, non si contano nemmeno le osserva zioni, i saggi e le opinioni in questo campo; e ne è scaturita una scienza, la quale, per la sua enorme estensione, oltrepassa non solo il potere intellettivo dei singoli ma anche quello di tutti gli scienziati messi insieme e non può essere retta da nessun altro all’infuori della razza canina nel suo insieme, e persino da quest’ultima può esser retta soltanto fra i sospiri e non interamente, e la quale continua a sgretolarsi nella vecchia sostanza che già possediamo da tempo e dev’essere perciò faticosamente completata, senza poi parlare delle difficoltà e delle esigenze quasi sempre vanificate della mia ricerca. Non mi si obietti tutto ciò; so tutto benissimo, come qualunque cane di media levatura; né ho affatto voglia di mescolarmi con la vera scienza; ho per essa tutto il rispetto che le compete; ma per contribuire ad accrescerla mi difettano il sapere, l’assiduità, la calma e (non ultima soprattutto in questi ultimi anni) anche la voglia. Ingurgito, sì, i bocconi che trovo, ma non li reputo degni della minima meditazione agraria sistematica e preliminare. A tale riguardo mi accontento del compendio di ogni scienza, cioè della regoletta con cui le mamme si staccano dal seno i propri piccini e li lasciano affrontare la vita: «Bagna tutto più che puoi!». Non c’è forse veramente quasi tutto in questa massima? Che cosa vi si deve aggiungere di essenziale, a cominciare dai nostri progenitori? Soltanto dettagli, nient’altro che detta gli, e quanto incerti per giunta! Questa regola invece rimarrà finché noi cani esisteremo. Essa concerne il nostro alimento base. Noi abbiamo, certamente, anche altri ausilî; ma, in caso di necessità e quando le annate non son troppo cattive, riusciremmo a campare di questo alimento base che troviamo sulla terra; la terra però ha bisogno della nostra acqua, si nutre di essa e ci fornisce soltanto a questo prezzo il nostro cibo, la cui produzione, d’altronde, può essere sollecitata – non bisogna dimenticare neppure questo – anche mediante determinate formule, oppure mediante canti e gesti. Ma è tutto qui, a parer mio; sotto questo profilo, non c’è proprio nient’altro da dire su quest’argomento. A tale proposito sono anch’io d’accordo con la stragrande maggioranza di noi cani e mi dissocio invece risolutamente da qualsiasi opinione eterodossa esistente in questo campo. Veramente, non mi interessa avere delle posizioni mie particolari, o di avere ragione io; son felice quando posso esser concorde con i miei compagni, e in questo caso è proprio così. Ma le mie iniziative si muovono in altra direzione. L’evidenza mi insegna che la terra, se viene innaffiata e lavorata attenendosi alle norme della scienza, fornisce il cibo, e proprio secondo la qualità e la quantità, i luoghi e le stagioni voluti dalle leggi stabilite in tutto o in parte dalla scienza. Riconosco senz’altro tutto questo, però mi domando: «E la terra donde ricava tutto questo cibo?». È un interrogativo, questo, che in genere si afferma di non comprendere e a cui, nella migliore delle ipotesi, mi viene risposto: «Se non hai da mangiare a sufficienza, te ne daremo del nostro». Si esamini bene questa risposta. Io so che fra i meriti propri di noi cani non c’è sicuramente quello di spartire i cibi una volta ottenuti. La vita è dura, la terra è scostante, la scienza è ricca sì di conoscenza, ma è tanto povera di risultati pratici; chi ha da mangiare, se lo tiene per sé; non è egoismo, questo, bensì esattamente il contrario: è norma canina, è deliberazione popolare unanime, scaturita dal superamento dell’egoismo, poiché i possidenti sono sempre la minoranza. Perciò quella risposta «Se non hai abbastanza da mangiare, te ne daremo del nostro» è un modo di dire corrente, una frase scherzosa, una celia. Non l’ho dimenticato. Ma ancora più significativo per me fu il fatto che, allorquando erravo per il mondo con i miei quesiti, nei miei confronti ci si risparmiava qualsiasi ironia; è vero che si continuava a non offrirmi da mangiare (dove si sarebbe potuto prendere, così su due piedi?), e se per caso ce n’era, nella rabbia della fame ci si dimenticava naturalmente di qualsiasi altra considerazione, ma l’offerta veniva fatta seriamente, e di tanto in tanto io ottenevo effettivamente qualche inezia, se ero abbastanza lesto da arraffarmela. Come mai succedeva che mi si trattasse con quel riguardo speciale? Come mai mi si proteggeva e mi si favoriva? Forse perché ero un cane smagrito e gracile, malnutrito e incurante del cibo? Eppure in giro ci sono chissà quanti cani malnutriti ai quali si toglie di bocca, se si può, persino il cibo più misero, spesso non per avidità ma per principio. Non v’era dubbio: io venivo favorito; non potevo provarlo con esempi spiccioli, ma ne avevo piuttosto la sensazione netta. Erano forse i miei quesiti a far contenti gli altri e ad esser considerati particolarmente saggi? No, essi non divertivano e venivano considerati cretini dal primo all’ultimo. Eppure potevano essere soltanto quei quesiti a valermi l’attenzione altrui. Era come se si preferisse la mostruosità di tapparmi la bocca a furia di cibo (non lo si faceva, certo, ma lo si desiderava), piuttosto che tollerare i miei quesiti. Ma allora si sarebbe potuto piuttosto cacciarmi via e risparmiarsi le mie domande. No, questo non lo si voleva; è vero che non si voleva stare a sentire i miei quesiti, ma non mi si voleva certamente cacciar via a motivo di essi. Per quanto io venissi deriso, trattato come una bestiolina stupida, spinto di qua e di là, quello fu veramente il periodo in cui più mi si portò rispetto; qualcosa del genere non si ripete mai più in seguito: potevo entra re dove volevo, non mi veniva negato nulla, e co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Biblioteca dello spirito cristiano
  4. KAFKA, STRANIERO IN CAMMINO
  5. RAGAZZI SULLA STRADA MAESTRA - (1903-1904)
  6. LA PASSEGGIATA IMPROVVISA - (5 gennaio 1912)
  7. LA GITA IN MONTAGNA - (1903-1904)
  8. LA VIA VERSO CASA - (1907)
  9. LA FINESTRA SUL VICOLO - (inverno 1906-1907)
  10. INFELICITÀ - (agosto-ottobre 1910)
  11. IL NUOVO AVVOCATO - (gennaio 1917)
  12. UN MEDICO DI CAMPAGNA - (gennaio-febbraio 1917)
  13. DAVANTI ALLA LEGGE - (dicembre 1914)
  14. IL PROSSIMO VILLAGGIO - (gennaio-febbraio 1917)
  15. UN MESSAGGIO IMPERIALE - (marzo-aprile 1917)
  16. GLI AFFANNI DEL PADRE DI FAMIGLIA - (fine aprile 1917)
  17. UN SOGNO - (dicembre 1914)
  18. UNA RELAZIONE ACCADEMICA - (seconda settimana di aprile del 1917)
  19. UN DIGIUNATORE - (febbraio 1922)
  20. IL CAVALIERE DEL SECCHIO - (fine anno 1916-1917)
  21. DESCRIZIONE DI UNA LOTTA - Prima stesura (1904-1906)
  22. IL PONTE - (metà dicembre 1916)
  23. IL CACCIATORE GRACCO - (dicembre 1916-inizio aprile 1917)
  24. UN EROISMO QUOTIDIANO - (21 ottobre 1917)
  25. PICCOLA FAVOLA - (fine novembre-inizio dicembre 1920)
  26. LA PARTENZA - (febbraio 1922)
  27. LE INDAGINI DI UN CANE - (luglio 1922)
  28. LASCIA PERDERE! - UN COMMENTO(dicembre 1922)
  29. DELLE METAFORE - (fine del 1922 - primo semestre del 1923)
  30. LA TANA - (novembre-dicembre 1923)
  31. CRONOLOGIA
  32. BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA