Ultimo volo per Caracas
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L’indicatore della temperatura esterna segnava due gradi sotto lo zero. Il parabrezza era ghiacciato, aliti di vapore si dissolvevano nel tempo dell’inspirazione. Il motore si era avviato al primo colpo e girava velocemente per scaldare il suo corpo di lamiere e plastica. Anche la strada era ghiacciata e la luce dei lampioni vi si rifletteva come in uno specchio sporco. Dopo qualche minuto i buchi sotto il getto d’aria calda avevano iniziato ad allargarsi creando due coni puliti nel parabrezza.
Il freddo e la stanchezza suggerirono a Max di andare piano. Uscì dal parcheggio del Crew Briefing Center, la lancetta della temperatura del motore non si era ancora spostata di un millimetro. Aveva sulle spalle dodici ore di volo infernale. Non era riuscito a riposare nemmeno quando era stato il suo turno. In volo, nel bel mezzo dell’oceano, avevano incontrato una turbolenza fastidiosa e il bulk riservato al riposo dell’equipaggio pareva una lavatrice durante la centrifuga.
Allo stop guardò in entrambe le direzioni e poi partì. A quell’ora della notte era normale che le vie fossero deserte. La strada che costeggia la pista dell’aeroporto era una striscia d’asfalto lucido delimitata da un lato dalla recinzione con l’alta tensione, dall’altro dalla brughiera ghiacciata.
Faceva fatica a tenere gli occhi aperti. Attivò per un attimo i tergicristalli per spazzare via la condensa che si stava formando sul parabrezza, ma si rese conto che a offuscargli la vista era un velo di nebbia. Accese gli abbaglianti e il risultato fu un muro bianco. Li spense. Lasciò l’autostrada e prese l’uscita per Somma Lombardo. Abbassò un filo di finestrino e sperò che un po’ d’aria fresca lo risvegliasse dal torpore quel tanto che bastava per farlo arrivare sano e salvo fino a casa. L’aria fredda si impossessò del suo corpo: naso e orecchie prima, tutto il resto poi. Si sentì subito meglio, ora riusciva a vedere la strada ferma davanti a sé. Quella strada dritta che finiva in un pozzo nero, senza fine. Ai bordi solo alberi. Immaginò i boschi umidi e ghiacciati e, come ogni volta che vi passava in mezzo, li associò alle storie di satanismo che avevano come protagonisti quei luoghi. Non c’era da stupirsi che le Bestie di Satana avessero scelto quei boschi per i loro riti di morte.
Scacciò via quel pensiero e si concentrò su Sara. Chissà cosa stava facendo. Guardò il display dell’orologio e trovò la risposta. All’una di notte sicuramente dormiva.
Appena atterrato non le aveva telefonato per non rischiare di svegliarla. Aveva passato anche lei una giornata d’inferno, ne era sicuro.
Le ruote di destra investirono un pezzo di legno che picchiò sotto la pancia dell’automobile. Max sobbalzò e i suoi pensieri si dissolsero in un secondo. Strizzò gli occhi, uno alla volta, con le nocche della mano. Quando li riaprì, in lontananza, nel buio della boscaglia che correva lungo la strada, intravide qualcosa che si muoveva. Una luce, dei riflessi. L’istinto gli fece controllare che la cintura di sicurezza fosse allacciata. La luce era blu, i riflessi catarifrangenti gialli. Un posto di blocco.
Guardò nello specchietto retrovisore, non c’era nessuno. Posò il piede sul freno, voleva diminuire la velocità senza dare nell’occhio. Era l’unico a viaggiare su quella strada. Sapeva che un posto blocco, se non era mirato alla ricerca di qualcuno, aveva termine non appena raggiunto un certo numero di automobili da controllare. Lo avrebbero fermato, ne era sicuro. Gli sbirri avevano meno voglia di lui di starsene al freddo a quell’ora di notte.
Doveva rimanere tranquillo. Uno dei due si sarebbe avvicinato al finestrino, avrebbe notato la divisa dell’AirItalia, il fregio con le ali attaccato al petto, il badge ancora al collo con la sua foto, il numero di matricola e il nome. Magari gli avrebbe chiesto la patente e il libretto e lo avrebbe lasciato andare, augurandogli la buonanotte. Sarebbe andata così. Anche perché, se al contrario gli avessero chiesto di scendere dalla macchina per un controllo approfondito e magari di aprire la valigia con la quale era appena rientrato da Caracas, allora sarebbe stato un problema. Uno di quelli grossi. Mezzo chilo di coca divisa in cinque sacchetti sigillati, ognuno nel fondo di un calzino nella borsa della lavanderia del Tamanaco Hotel. Cinquecento grammi di polvere grezza. Qualcuno l’avrebbe “tagliata” e sarebbero diventati più di due chili. Quei cinque calzini, venduti a cinquanta euro al grammo, avrebbero fruttato più di centomila euro. Ma questo a Max non interessava. Il suo compito era solo quello di portarla in Italia, consegnarla e prendere la sua parte.
Non erano Carabinieri, tantomeno Polizia. Era un posto di bloccò della Guardia di Finanza, e non era una buona notizia. Ai finanzieri non interessa l’assicurazione o il limite di velocità. I Finanzieri sono cani da tartufo. Cercano roba. Di solito roba nascosta, il più delle volte droga. Non si prendono il freddo addosso e l’umidità nelle ossa per controllare il bollo. Se erano lì, cercavano qualcosa o qualcuno.
Si specchiò nel retrovisore, sperando di non trovare paura nel suo sguardo. Aveva occhiaie profonde accentuate dalle ombre della poca luce esterna. I capelli ancora scompigliati dal berretto.
Uno dei due finanzieri aveva fatto un passo verso la strada e stava per alzare la paletta. Non farlo, non farlo, disse a bassa voce Max. Ma quello non avrebbe potuto sentirlo e con un gesto del braccio stava facendo segno di accostare. Valutò la possibilità di accelerare e far perdere le sue tracce. Era pieno di anfratti da quelle parti e Max li conosceva bene. Ma, a quell’ora, se ci fosse stata anche solo un’altra pattuglia in zona lo avrebbero preso di sicuro, e non avrebbe avuto scampo. Sarebbe stato meno rischioso fermarsi e sperare nella buona sorte.
Mise la freccia verso destra e accostò a pochi metri dalla macchina di servizio.
«Sera…» disse abbassando tutto il finestrino, i fregi sulla divisa in bella mostra.
«Buonasera a lei» rispose il finanziere gettando l’occhio al tagliando dell’assicurazione sul parabrezza. Si avvicinò al finestrino e con le dita della mano sfiorò la visiera cappello in segno di saluto.
Max abbassò il volume dello stereo.
«Pilota?»
Quella professione riscuoteva ancora successo nelle persone comuni.
«Magari» disse a bassa voce Max, accennando un sorriso. «No, sono solo uno steward.»
Dalla sua posizione il finanziere gli parve molto alto. Forse era la divisa che lo faceva apparire piazzato, di certo la nove lunga nella fondina contribuiva alla sua serenità, ma non a quella di Max.
«Ne sono già passati altri due prima di lei, pare che a quest’ora giriate solo voi.» L’accento era del Sud, forse campano, ma poteva anche essere siciliano.
«Be’, viviamo tutti qui, intorno all’aeroporto. E a quest’ora atterrano diversi voli…»
L’altro, che fino a quel momento era rimasto vicino alla macchina di servizio, si avvicinò. Riconobbe la divisa di Max.
«Abbiamo preso un altro assistente di volo?» Domanda retorica. Anche questo pareva ben piazzato, ma più basso dell’altro.
«Pare di sì» gli fece eco il collega.
Nuvole di vapore uscivano dalla bocca di tutti e tre. Pareva quasi di sentire il rumore dell’aria che si condensava, tanto era il silenzio a quell’ora di notte. Il finanziere più alto si guardò intorno, a destra e a sinistra, come per vedere se arrivasse qualcuno. Poi, a bassa voce, si rivolse al collega. «Antò, qua se non ne controlliamo nemmeno uno, facciamo mattina. Fa un freddo cane e io voglio andare a casa.»
Era come aveva sospettato Max: dovevano controllare un numero minimo di macchine prima di sciogliere il posto di blocco.
Sentì una goccia scendergli lungo la schiena, o magari era solo una sensazione, un brivido.
«Hai ragione Gaetà, ma facciamo una cosa veloce e mandiamo il signore a dormire che sarà stanco pure lui.»
Antonio e Gaetano: anche l’intuizione sulla provenienza dei due, doveva essere giusta.
Max rimase a fissarli immobile per qualche secondo. Poi risalì.
«Ha ragione, sono stanco morto. Sono in piedi da venti ore. Pensi arrivo da… da…» Stava per dire Caracas. «Da New York.» Meno sospetta.
«Beato lei, noi non ci muoviamo da qui invece. Favorisca patente e libretto, per piacere. Diamo un’occhiata al bagagliaio e la lasciamo andare.»
Il bagagliaio, quello che temeva. Ma avrebbero aperto la sua valigia? Forse no. Eppure le regole le conosceva a memoria: la droga andava nascosta nelle parti più alte della macchina, all’interno del tetto, magari dietro le lampade. Questo era un accorgimento utile in caso di cani antidroga ai quali sarebbe stato più difficile annusare la sostanza in alto. Non accendere sigarette, non farsi beccare con musica reggae, tentare di dare meno nell’occhio possibile. Ma in questo caso Max era tranquillo, tornava da lavoro e la sua divisa era una garanzia.
Gli diede i documenti e fece scattare la serratura del portabagagli. L’uomo con i documenti andò alla radio, l’altro aprì il cofano. La radio, in sottofondo, trasmetteva Too many friends dei Placebo.
Max sentì che aveva spostato la sua valigia e stava alzando la copertura della ruota di scorta. Dal retrovisore non riusciva a vedere altro che buio e qualche ombra. Estrasse una Benson e l’accese saturando in un attimo l’abitacolo della Punto. Si...