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Fu una signora maldestra a svegliarmi, tirandomi la borsetta in pieno volto. Mi ero addormentata su uno strapuntino in corridoio, seduta, il collo in posizione innaturale, la testa ciondoloni come quella dei pupazzi alle fiere e il classico patetico rivolo di saliva che mi colava sul mento. Strizzai gli occhi a lungo – per nascondere la miopia mi ostinavo a non portare gli occhiali – cercando di capire se fossimo già arrivati. Ma dal finestrino non vidi il consueto rassicurante reticolo di travi e pilastri in cemento, né i muri grigi sporcati da mediocri graffiti. Scesi dal treno al volo, un attimo prima che le porte si chiudessero. Fuori, mi trovai circondata da alberi insolenti che svettavano in mezzo a un’ignota campagna.
Quella domenica di aprile, dopo una giornata infinita trascorsa su un improbabile set fotografico a qualche chilometro da Milano, stavo in effetti tornando a casa. O così credevo. Avevo preso di corsa il primo treno per rientrare in città, controllando al volo orario e binario e lanciandomi nel vagone. Una volta scesa, disorientata, mi guardai attorno in cerca del cartello con il nome della stazione e ne vidi uno parzialmente coperto dal pilone di ferro che reggeva la tettoia della pensilina. Riuscii a leggere le ultime tre lettere: «ate». Feci un ripasso lampo dei comuni lombardi compatibili: Gallarate, Galbiate, Tradate. Ma anche Brembate, Seriate, Lentate, Malnate, Arcisate. Ricordavo persino un Vespolate. Il mistero si infittiva: dov’ero finita? Mi avvicinai per leggere bene il cartello: Albizzate.
Il cielo che si oscura per un volo improvviso di cornacchie, un cane che abbaia tre volte mentre a una bambina cade un bicchier d’acqua, un gallo che canta fuori tempo. Secondo le credenze popolari e nei film sono questi, i segnali che qualcosa di sinistro sta per accadere. Nel mio caso, quando sono lì lì per combinare un guaio, è facile che ci sia di mezzo un treno.
«Per Varese la linea è interrotta» mi spiegò vedendomi spaesata un ragazzo con la divisa delle Ferrovie Nord.
«No, ma io dovevo andare a Milano. A che ora passa il prossimo treno?»
«A quest’ora? Di domenica? Non ce ne sono più» mi disse il ragazzo con una punta di sadismo.
Mi scapicollai fuori dalla stazione alla ricerca di un pullman per Milano. Fuori, il deserto. Dopo qualche minuto arrivò un pulmino che raccolse un manipolo di teenager in divisa sportiva e i loro grandi borsoni con la scritta Lonate Ceppino Calcio. Mi aggrappai all’ultimo della fila un attimo prima che salisse a bordo.
«Vi prego, ditemi che andate a Milano, a giocare la vostra partita.»
«No,» mi urlò il conducente, che probabilmente era anche l’allenatore «stiamo andando a Lonate Pozzolo per un posticipo serale.»
In quell’esatto istante cominciò a piovere. Alzai gli occhi al cielo e non per guardare le gocce.
«Ma se vuole la possiamo lasciare all’aeroporto di Malpensa. Da lì sicuramente troverà un collegamento per Milano.»
«Eureka! Idea geniale, Mister.» Schiacciata fra quelle tute in acetato, per il sollievo mi misi a intervistare tutta la squadra. «Allora? Stasera grande sfida contro il Lonate Pozzolo?»
Già che c’ero, osservai con attenzione quei ragazzi in vista del mio ultimo incarico lavorativo: cercare il volto perfetto per la campagna pubblicitaria di un paio di nuovi jeans da uomo.
Il mio cliente più importante mi aveva mandato due sere prima la sua tipica mail da maschio alfa, prepotente e ansiogena: «Alice, ci serve con la massima urgenza un ragazzo, circa trent’anni, riccio riccissimo, lineamenti un po’ esotici, insomma, un po’ indio. Tipo Thyago Alves deragliato, però meno Brasil, eh? Più intenso, più indiano d’America. Personalità e zigomo alto, meglio altissimo. Fisico adeguato. Budget ok. Se hai dubbi, chiama». Leggendo mi ero chiesta: “Ma chi l’ha mai visto, nel mondo, un indiano d’America riccio?”. Nel mio archivio una faccia così, di certo, non c’era.
Non ho buona memoria. Dimentico sogni, nomi, strade. Il mio cervello è come un’enciclopedia cui mancano delle pagine a caso. Confondo frammenti di una conversazione che ho avuto un anno fa con lo speciale sulle piramidi di Quark della settimana scorsa. Però, dei volti della gente mi resta appiccicato addosso ogni dettaglio. Mi incantano da sempre. Mi diverto a cercare le somiglianze con i VIP: il caffè lungo (in tazza grande) senza il quale non saprei affrontare la giornata me lo serve un barista sosia di Al Pacino, con la stessa palpebra triste da seduttore in pensione. In fondo alla strada, ogni mattina uno studente identico a Chris Martin dei Coldplay prende al volo l’autobus delle 7,50. Una volta che l’ho visto un po’ meno di fretta del solito gli ho chiesto perché non puntasse la sveglia dieci minuti prima. «Fare le cose di corsa mi regala il senso della sfida» mi ha detto.
Un giorno che mi sentivo sola sono andata dal fioraio a comprarmi un mazzo di rose. Mentre me le incartava («È per un regalo» gli avevo mentito) l’ho guardato e ho avuto una folgorazione. Sembrava Willy Wonka uscito dalla sua fabbrica di cioccolato.
Mi piace anche chi somiglia solo a se stesso. Trovo belle le spalle strette, le mascelle squadrate, le mani nervose. Le bocche che sanno sorridere infischiandosene dei denti, gli occhi languidi che a osservarli a lungo ti viene da piangere, l’espressione tenera e assieme spietata che hanno a volte i bambini. In giro sono pochi i visi armoniosi. Abbondano gli spigolosi e i sofferenti, alberelli senza foglie che nessuno, nell’inverno del Nord, si preoccupa di mettere al riparo dal freddo.
«Buona fortuna» mi augurarono in coro i lonatesi, interrompendo il flusso dei miei pensieri.
«Eccola arrivata, signorina, stia attenta a non sbagliare treno un’altra volta» mi salutò il Mister.
«Forza, Lonàa Cepin» improvvisai in dialetto, col pugno alzato, andando verso il binario del Malpensa Express, direzione Milano. Prima di salire sul treno chiesi sei volte conferma, per sicurezza.
Non avevo trovato il volto giusto per lo spot, ma grazie ai lonatesi riuscii finalmente a tornare a casa, a tarda sera, sotto una pioggerellina alla Blade Runner. Camminando senza ombrello pensai che Milano è il posto perfetto per vivere, se ti piace il genere Liverpool. Soprattutto nel mio quartiere di periferia, la Bovisa, dove ogni cosa ha l’ansia di riscatto e sogna di diventare diversa da quel che era in origine. I capannoni industriali si trasformano in asili, i laboratori in pizzerie all you can eat destinate a chiudere dopo una stagione; spuntano loft in bioarchitettura dove un tempo venivano prodotte le capsule piatte, in metallo, di certe liquirizie microscopiche, nerissime.
Sono nata negli anni Ottanta e cresciuta con la scorza che serve a proteggere chi il miraggio del posto fisso non ce l’ha nemmeno mai avuto. Avere un lavoro appagante, una casa accogliente arredata con i mobili del colosso svedese, poter contare su qualche buon amico, magari innamorarmi: il breve elenco di quel che mi aspetto dalla vita è un’eredità che porto tatuata su ogni centimetro di pelle.
E così dopo alcune tappe canoniche – fidanzato trombettista jazz, laurea in Psicologia dei processi sociali; fidanzato ballerino di salsa e merengue, una manciata di stage non pagati; fidanzato NO TAV, contratto a progetto a quattrocento euro al mese – ho deciso di fare il grande salto. Sono tornata single e, grazie al regime fiscale dei minimi e a un piccolo aiuto economico della mia generosa nonna, ho fondato Ritratto Urbano, agenzia specializzata nella ricerca di modelli e modelle non professionisti per la pubblicità.
In tempi di crisi, le facce trovate per strada sono il nuovo nero. La gente comune non ha vezzi da star, costa poco, ha reazioni impagabili. «Io, testimonial di una banca online? Sicura? Ho tante lentiggini che sembra che mi abbiano buttato in faccia del letame attraverso una zanzariera.» “Proprio perché le ho viste ti sto chiedendo di posare per me.”
Guardare la gente per strada con insistenza può creare qualche problema anche se hai trent’anni e sei carina. Ogni volta che osservo qualcuno cammino sul sottile confine fra l’instabile e la escort. Nel tempo ho messo a punto le mie statistiche personali: a Roma probabilmente la soglia si alzerebbe, ma a Milano uno sguardo estraneo che si posa su una persona è ben tollerato per un massimo di tre secondi. Cinque secondi equivale a interesse smaccato; sette secondi è grave violazione della privacy. Alcuni si imbarazzano, altri si seccano e mi imprecano contro. Per limitare i danni cerco sempre di tenere un’espressione ferma e professionale. Sguardo gelido, occhio sbarrato tipo pesce al mercato, ciglio che batte una volta al minuto, ai limiti della paresi facciale. “Amen” mi ripeto per farmi coraggio. “Tanto poi questo non lo rivedo più.”
Quando decido che un volto è quello giusto, mi presento spavalda e dichiaro le mie intenzioni. Negli anni ho notato due cose. La prima: un uomo non potrebbe mai fare il mio lavoro, perché lo scambierebbero per uno stalker. La seconda: alla fine, anche chi si rifiuta di posare per me mi ringrazia. Sono contenti. Sentirsi visti e non solo guardati di sfuggita è una sorpresa insolita.
Cercavo l’indio dallo zigomo altissimo ormai da una settimana. Il cliente era importante, il budget cospicuo; anche se esausta, non demordevo. Lasciato il ridente Bovisashire, ampliavo ogni giorno il mio raggio d’azione. Dopo ore di infruttuosa pesca a strascico, tornavo a casa a tarda sera, stanchissima, i piedi gonfi, e per evidenziare le zone già battute appuntavo bandierine colorate su una grande mappa appesa al muro verde acido della mia cucina da single femmina, in fondo non così smaccatamente Ikea. Che lo guardassi da vicino o da lontano, quel groviglio di puntini di plastica più che aiutarmi mi faceva un gran casino in testa. Ma aveva il merito di farmi sentire coinvolta in una missione vitale, tipo detective FBI in caccia di un serial killer, e non nella ricerca di un modello per un frivolo spot. Ho sempre avuto un’immaginazione molto fervida e un’irrefrenabile tendenza ad astrarmi modificando la realtà: una banale spesa al supermercato poteva trasformarsi nel giorno in cui avevo incontrato Lina Wertmüller, e invece era solo la cassiera con la sua stessa montatura di occhiali.
Oltre che le strade di Milano, a caccia del trentenne indio coi capelli ricci avevo battuto decine di bar e ristoranti. Ero stata nei posti di tendenza, nei locali storici, in un paio di centri sociali. Dell’indio riccio nessuna traccia, in compenso per i troppi happy hour in solitaria avevo da giorni un filo di gastrite, il mal di testa fisso e un fiorire di brufoli che neanche a tredici anni. Quel venerdì perciò, un po’ prima della solita ora, mi trascinavo mesta verso casa quando, proprio davanti al mio portone, venni travolta da una bicicletta.
Fu un colpo pazzesco che mi fece volare in aria e poi atterrare di schiena. Come essere scivolata su una buccia di banana gigantesca. Mentre cercavo di capire cos’era successo sentii una voce profonda e preoccupata esclamare: «Scusa! Non vado mai sul marciapiede con la bici, è la prima volta, giuro… e guarda che ti ho fatto».
Stesa com’ero, a terra, all’inizio non me n’ero resa conto: ma avevo battuto la nuca, e perdevo sangue. Attorno a me si era formato un capannello di curiosi, molti con le mani intrecciate dietro la schiena nella classica posa dell’anziano che guarda i cantieri, altri più attivi e desiderosi di aiutare: «Fatela alzare subito» suggerì qualcuno. «No, non fatela alzare, deve stare immobile.» «Chiamate l’ambulanza.» «C’è un medico?» «Copritela. Ha freddo.» «Toglietele la giacca, deve respirare.» «Avete provato la disostruzione delle vie aeree?» «Qualcuno ha un defibrillatore?»
In mezzo a quella confusione cercavo con lo sguardo l’investitore maldestro. Sentivo la sua voce mentre chiamava l’ambulanza, ma la posizione da sdraiata e la miopia mi impedivano di metterlo a fuoco. A un certo punto, però, si chinò su di me e mi sussurrò a pochi centimetri dal volto: «Sta’ tranquilla, sta arrivando la Croce Rosa Celeste».
Assieme al suo odore di ciclista maschio mi piovve addosso una cascata di riccioli, mentre io, immobile, gli occhi rivolti al cielo, riuscii a mettere finalmente a fuoco le proporzioni archetipiche del suo volto. Che sguardo intenso. Che esotismo. Miracolo. Era l’indio riccissimo che tanto avevo cercato.
Non è semplice avviare una trattativa determinante in concomitanza di un trauma cranico, anche se minore. Date le penose circostanze, pensai, se non altro non ero tenuta a rispettare il limite dei tre, cinque, sette secondi, e mi presi il lusso di perdermi in quegli zigomi vertiginosi. Ma come spiegargli che avevo bisogno proprio di lui, cioè del suo viso, per una campagna pubblicitaria? Feci un tentativo. «Senti, ho bisogno di te per…»
«Sì, sono qui, tranquilla, non me ne vado.»
«Grazie, ma intendevo dire che…»
«Per piacere, non parlare. Devi stare tranquilla.»
«Sono tranquilla, è che sto cercando un indio riccio. Per una pubblicità.»
«Ecco, vedi, straparli. Devi stare calma.»
«Lascia che ti spieghi.»
«Guarda, è arrivata la Croce Rosa Celeste.»
Negli attimi di concitazione in cui i soccorritori mi issavano con delicatezza in barella, riuscii a dettare all’indio il mio numero di telefono. Mentre mi caricavano in ambulanza tentai un ultimo approccio disperato. «Inseguo da giorni un viso come il tuo.»
Lui, dal marciapiede, mi urlò: «Comunque sono assicurato. Ti risarcirò i danni».
Pensai che nessun uomo mi aveva mai detto niente di così romantico. Poi, nell’istante esatto in cui i soccorritori mi sigillavano dentro l’ambulanza sbattendo i portelloni, chiusi gli occhi.
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«Dottore, firmo le dimissioni, non importa se rischio l’invalidità permanente. Ho una missione da compiere» proclamai tre ore più tardi all’ortopedico di turno in pronto soccorso. Lui mi guardò con l’aria di chi di gente strana ne vede tanta, poi alzò un sopracciglio e mi cacciò in mano un foglio.
«L’avrei mandata a casa comunque» disse sospingendomi in fretta verso la porta. Feci qualche sforzo per decifrare la grafia incomprensibile tipica dei medici: «Lieve distorsione del rachide cervicale. Prognosi: quindici giorni di collare morbido e riposo».
Mi addormentai tardissimo solo grazie a un potente analgesico che aveva come effetto collaterale la sonnolenza, lambiccandomi con un paio di questioni vitali: come avrei fatto a sopravvivere a due settimane di semi-infermità? E, soprattutto, l’indio riccio mi avrebbe richiamata?
Se del risarcimento potevo anche fare a meno, aver trovato il proprietario delle chiappe che avrebbero riempito i jeans del mio cliente era un miracolo a cui non volevo rinunciare. Preoccupata, sognai tutta la notte un gigantesco cellulare a forma di bicicletta. Squillava, squillava e sul display compariva il nome “Zigomo”, ma ogni volta che cercavo di rispondere cadeva la linea. Fortunatamente, il giorno dopo, la telefonata, quella vera, arrivò.
«Ciao, sono Francesco, il tuo investitore, come stai?»
«Be’, incontrarti è stato un colpo di testa.» Mi pentii all’istante di averlo detto, anche se nel buio della mia stanzetta, poche ore prima, la battuta mi era sembrata fantastica. Un po’ come le ragazze della canzone di Jovanotti, che di notte sembrano tutte belle e la mattina, alla luce, si rivelano inguardabili cofani. Lui, forse solo per gentilezza, fece ugualmente una risatina.
«Quando possiamo vederci?» continuò. «Così mi dai i tuoi dati, per l’assicurazione.»
«Perché non vieni domani a un aperitivo-casting per lo spot a cui ti ho accennato ieri?» Silenzio. «Sai… di mestiere cerco facce per le campagne pubblicitarie, e il tuo viso sarebbe proprio perfetto.» Ancora silenzio. «Pronto? Sei sempre lì?»
«D’accordo, dammi l’indirizzo.»
E così la sera successiva mi ritrovai ad aspettare Francesco sulla terrazza verandata dell’agenzia pubblicitaria. Mangiucchiandomi l’unghia del mignolo sinistro, me ne stavo seminascosta fra gli scomodi, modernissimi arredi in cemento finto legno, le stufe a fungo con testa basculante e una quantità imbarazzante di lampade a energia solare che, sebbene ecologiche e trendy, non facevano luce quasi per niente. Osservavo dall’alto uno spicchio di campi incolti sopravvissuti alla città, in mezzo ai quali, al tramonto, si stagliava la sagoma seducente e spettrale di un gasometro. La Perotti&Cohen&Partners – il cui unico titolare, Giorgio Perotti, si era inventato un socio dal nome altisonante per sembrare internazionale – espulsa causa caro-affitti dalla zona semicentrale in cui aveva avuto se...