L’ultima notte
Buco nel cuore
Goccia lo stinco
reciso
Odio del miele
Il dolce sorriso
La cantilena infinita, una nenia sgraziata e sporca.
Intorno, buio pesto, a grumi spessi.
Æneas vagava nel nero, scorgeva il bambino di spalle. Arricciato e storto come un gomitolo malfatto.
Per quanto veloce camminasse, il bambino era sempre là .
La sua voce picchiettava nel cervello.
Buco nel cuore
Goccia lo stinco
reciso
Odio del miele
Il dolce sorriso
Corse più forte, Æneas, e finalmente il buio accorciò le distanze.
Il bambino ciondolava la testa, Æneas poteva scorgere le coste puntute bucare la pelle. La spina dorsale infuriata. Quando fu a tiro, quello era zitto. Piccolo e lercio, sformato. Toccò la pelle bollente, si volse di scatto.
Ciò che Æneas vide, gli gelò il sangue addosso. Il corpo minuto, il torace percosso. Il bimbo si alzò dritto e la testa era grossa, gigante. Sui piedi due buchi neri, uno per parte: ci passava una gomena.
E c’era passata davvero.
Nel collo uno squarcio di lama, che ancora buttava vermiglio.
Æneas spalancò gli occhi, trattenne il fiato.
Il volto del piccolo lo fece quasi svenire.
Ettore!
Dilaniato, rotto, pestato a sangue.
Ettore, bruciato sulla pira da eroe.
Ettore, erede del Cerchio d’Oro.
Ettore, il campione sepolto.
Se ne stava davanti a lui, come uno zoppo senza bastone.
Braccia e gambe di fanciullo deforme, il capo sgraziato da uomo morto.
«Vattene!» gli urlò.
Sapeva di pino e fiori marci, aveva l’odore dei trapassati d’inverno.
«Vattene ora che sei in tempo, cugino!»
Æneas non riusciva a rispondere. Le mani gelate di sudore, il collo contratto, le gambe solide come roccia.
«Prendi tua moglie e tuo figlio, ma non scordarti i Penati! Fuggi dalla città in fiamme: l’esercito di Ade è qui!»
Æneas cercò di zittirlo, ma quello gridava.
Ebbe un moto di compassione per il suo sangue straziato.
Gli carezzò la guancia lacera: la pelle era fredda e dura.
«Cugino…» sibilò Æneas, le lacrime agli occhi e il ghiaccio nel petto.
«Vattene o crepa!» ringhiò Ettore.
E poi gli affondò i denti nella carne.
Æneas si sveglio di soprassalto, tra le grida impazzite. Il cuore martellava come un fabbro invasato, il corpo lucido di sudori.
Era nudo, e bolliva.
Creusa, sul pavimento, stringeva Ascanio in lacrime. D’istinto Æneas si controllò la mano: non c’erano segni di denti. Era stato solo un maledetto incubo.
Poi alzò lo sguardo e sbirciò oltre la finestra sprangata: il nero dei sogni percolava ovunque.
LÃ fuori Ilio era in fiamme, la gente tramestava folle. Rumore di bronzo e odore di sangue.
La guerra è appena tornata a casa.
Scese in fretta dal paglione, si raggomitolò contro la sua famiglia.
«Siamo morti…» tremolava Creusa.
Il bambino singhiozzava, un vitello da latte.
«Non ancora» strinse i denti Æneas. Poi si vestì da battaglia e si gettò verso l’uscio. «Restate qui, sigillerò la porta dall’esterno. Mando due soldati a far la guardia. Non vi succederà niente, ve lo prometto.»
Creusa annuì, la paura la rendeva docile.
Æneas fu fuori in un lampo e con vecchie assi sbarrò la casa a martellate.
Nessuno badava a lui, la città squagliava, riarsa dalle fiamme.
«Achei bastardi!» urlò un tessitore. Æneas lo conosceva: anni addietro, quando ancora i soldi non servivano soltanto per mangiare, la principessa sua moglie commissionava all’uomo belle tuniche di seta cruda. Era grasso e ricco, a quei tempi. Ora, mentre implorava gli dèi di salvargli la pelle, sembrava un ragazzino che fa lo spavaldo perché muore di paura. «Ci rompono il culo!» gridava.
Æneas non fece in tempo a dargli conforto, che una lama corta gli bucò la schiena. Il figlio di Anchise guardò l’assassino negli occhi: vestiva il bronzo d’Achaja.
E non era solo.
Il principe dei Dardani si lanciò all’assalto: i riflessi da battaglia e la memoria dei muscoli.
Non serviva altro a sopravvivere.
Con un fendente spaccò in due il braccio del nemico. La mano che stringeva la lama, insieme al polso, rimase conficcata nel morto. Il resto sprizzava sangue, aggrappato al superstite.
Vivo per poco.
Æneas gli mozzò il naso con il pugnale che reggeva nella sinistra. Poi gli ruppe il petto a calci, quando fu a terra.
«Achei!» gridavano tutti.
Tempo di volare.
La fuga non fu il primo pensiero.
Eppure avrebbe dovuto.
La follia di un giorno speciale si era tramutata in tragedia. Æneas apprese i particolari da Corebo, un principe frigio fedele al Cerchio d’Oro. Figlio di Migdone, aveva seguito il padre quando la chiamata di Priamo era giunta agli alleati. Si può dire che il ragazzo fosse cresciuto in guerra: fin da piccolo aveva imparato a battersi, per dieci anni non aveva conosciuto altro che sangue rappreso e notti insonni. Ma il suo cuore giovinetto era restato puro, per qualche accidente. Era innamorato della principessa Cassandra, che aveva all’incirca la sua età . Æneas se n’era accorto da come Corebo la guardava durante le lunghe sere a Palazzo, quando i comandanti rendevano conto al re delle imprese del giorno, e accettavano una presa di carne cotta e una tazza di rosso in cambio del proprio valore.
Corebo passava le serate, sognante, a fantasticare sull’azzurro sperso di Cassandra. Ma gli occhi della prediletta di Apollo non guardavano nessuno. Da quando il gemello era scomparso, poi, erano sempre più stanchi, cerchiati di nero. Corebo, però, non si stancava: né di far la guerra né, tantomeno, di sognare. Æneas lo trovò in mezzo alla folla con un manipolo di uomini veri. Frigi come lui, si davano da fare in mezzo al fuoco per salvare donne e bambini. Se incrociavano un maledetto acheo, lo sbranavano come lupi feroci.
Corebo disse a Æneas del disastro, il cuore del figlio di Afrodite si fece piccino.
Per tutta la notte a Troia si era bevuto. Ubriaca di gioia per la pace inattesa, la città aveva dato fondo alle scorte e il re aveva distribuito pane e capretto della sua dispensa. La luna era ancora alta e i Troiani danzavano e ridevano intorno al gigantesco cavallo. L’avevano trascinato fino alla rocca, nel punto più alto della città . Quando tutti avevano lasciato che Morfeo facesse il suo sporco lavoro, però, quando erano crollati vinti dal sonno e dal vino, qualcuno aveva perpetrato l’inganno ferale. Sgusciato invisibile alla base del simulacro gigante, ne aveva spalancato la pancia. Da una botola nascosta fra rami e pece erano sgusciati i guerrieri achei più forti e avevano iniziato la strage. Il traditore che li aveva aiutati aveva anche acceso un fuoco sul sommo della rocca. Il primo di molti, che quella notte avrebbero riarso Troia dalle fondamenta.
Le fiamme erano state avvistate dai cani d’Achaja. La flotta non era tornata a casa come aveva detto Sinone il Falso. Una volta smantellato il campo, si era semplicemente appostata dietro l’isola di Tenedo, in attesa del segnale maledetto. Avvistato il fuoco dalla rocca, Agamennone aveva condotto i suoi mastini assetati di sangue sulla spiaggia. I compagni, da dentro la città , avevano spalancato le Scee e trucidato le guardie. E ora Troia bruciava, serrata nella morsa mortale come il bronzo rovente nella pinza del fucinatore.
Quando Corebo vide Æneas spuntare dal colmo di una via lucente di sangue, gioì e lo abbracciò come un fratello maggiore.
«Dobbiamo scalare la rocca. Il re è in pericolo!» aveva gridato Æneas ai fidi compagni. Il petto di Corebo si era strizzato di un lampo: se una vipera gli avesse masticato il cuore, avrebbe sentito meno male. Nella foga, immerso nel delirio fino al collo, si era scordato della sua amata. La principessa Cassandra era senz’altro ben difesa, a corte, ma i dannati Achei dilagavano ovunque, chissà che ne sarebbe stato di lei se avessero raggiunto le sue stanze. Si fece coraggio e si buttò all’assalto, dietro al figlio di Anchise che correva con un’asta nella destra e la daga a mancina. Svoltato un angolo, una pattuglia d’Achaja li sorprese. L’alba era ancora lontana, i fuochi brillavano ma il fumo avvolgeva ogni cosa. Gli assassini li scambiarono per fratelli.
«Che ci fate qua spersi?» gridò il capomanipolo. «C’è una città da smembrare, una stirpe da uccidere…»
«Principesse da fottere!» ruttò un compagno sguaiato.
Æneas non lasciò a nessuno il tempo di replicare. Gli bastò sentire l’accento d’Achaja nelle prime sillabe per riempire di bronzo la gola dei bastardi.
Corebo e gli altri si avventarono sui nemici e ne fecero scempio. Quando anche l’ultimo fu crepato, Corebo prese per il braccio Æneas. «Spogliamoli» lo incitò, furioso. «Prendiamoci le armi!»
Æneas guardò il ragazzo. «È nostro diritto, ma non c’è tempo. Dobbiamo salire a Palazzo!»
Corebo scosse il capo. «No, mio principe; non sono in cerca di trofei gloriosi. Ma se indossiamo i colori d’Achaja e ci muoviamo veloci, forse potremmo ingannare i nostri avversari. I servi dei Leoni sono ovunque e non c’è tempo di battersi a ogni angolo di strada!»
Gli occhi di Æneas brillarono.
In men che non si dica, i soldati di Æneas erano vestiti da Achei. Sgusciavano veloci per la salita.
Di lontano, la rocca spandeva fiamme alte e fumo.
Superarono il quartiere dei conciatori, dalle vasche di tintura gorgogliava acqua rossa. Una donna, a mollo nel rubino, spuntava per la metà sbagliata.
Lo stratagemma di Corebo parve funzionare, dai tetti non piovevano più sassi sui loro cimieri bordati di fuoco.
Gli Achei si spandevano ovunque, come la cancrena che risale dall’alluce al cuore. In meno di un’ora, i nemici avevano preso l’alto, rovesciavano la morte dai coppi. Il gruppo di Æneas passò inosservato tagliando attraverso i vicoli: sfondavano le porte delle case deserte piuttosto che incrociare le spade. Ma all’imbocco della salita per la rocca, a due passi dal tempio di Atena, il destino li attendeva con la daga sguainata. Una pattuglia di fedelissimi di re Priamo, forse la guardia d’onore in rotta, li travolse credendoli avversari. I dorifori reali non guardavano in faccia, colpivano al cuore. Æneas dovette gridare parecchio per farsi sentire, ma quelli non smettevano. Corebo ferì una spalla, a...