Un amore di carta
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Un amore di carta

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Un amore di carta

Informazioni su questo libro

Agli occhi di Guylain, l'unica cosa importante era leggere. Snocciolava i testi con zelo meticoloso. E ogni volta, la magia funzionava. Staccandosi dalle sue labbra, le parole si portavano via un po' di quella nausea che lo opprimeva all'avvicinarsi della fabbrica. Guylain Vignolles è un invisibile, uno di quegli esseri solitari che nessuno nota. Lavora in una fabbrica di riciclaggio, al servizio di un'impietosa trituratrice di libri invenduti soprannominata "la Cosa". Nient'altro gli dà gioia, se non leggere a voce alta ogni mattina, sul solito treno delle 6: 27, qualche pagina scelta a caso tra le poche che il giorno prima è riuscito a salvare dai denti d'acciaio dell'infernale macchinario. Questo fin quando, un mattino, sul treno trova una chiavetta usb. Rosso granata, che contiene il diario di una giovane donna: settantadue file scritti al computer da una certa Julie, signorina addetta ai bagni di un centro commerciale, pagine su pagine che irrompono come un diluvio nella sua vita sempre uguale. E dalle quali Guylain non saprà trovare riparo. Jean-Paul Didierlaurent ha scritto una storia d'amore al quadrato tra un uomo e una donna che si scoprono legati dalla passione per la lettura e ha dipinto un universo positivo nonostante tutto, perché sopra la coltre grigia di un'esistenza scandita da una routine desolante qualcosa c'é che solleva il cuore e apre lo sguardo: le parole, e le storie che le parole raccontano.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817079242
eBook ISBN
9788858677773

1

C’è chi nasce sordo, muto o cieco. Chi emette il primo grido oppresso da uno strabismo ingrato, da labbro leporino o da una brutta voglia di vino in piena faccia. Altri ancora vengono al mondo con un piede torto, se non con un arto già morto prima ancora di avere vissuto. Guylain Vignolles, quanto a lui, aveva fatto il suo ingresso nella vita sotto il segno dell’infelice calembour che la combinazione del suo cognome e del suo nome suggeriva: Vilain Guignol,1 un antipatico gioco di parole che gli era risuonato nelle orecchie fin dai primi passi nell’esistenza per non abbandonarlo più.
I suoi genitori avevano ignorato i nomi del calendario delle Poste di quell’anno, il 1976, per orientarsi su quel «Guylain» venuto da non si sa dove, senza pensare per un solo istante alle conseguenze disastrose del loro gesto. Stranamente, e benché spesso la curiosità fosse grande, lui non aveva mai osato chiedere la ragione di questa scelta. Paura di mettere in imbarazzo, forse. Sicuramente anche paura che la banalità della risposta lo lasciasse insoddisfatto. A volte si divertiva a immaginare la vita che avrebbe potuto avere se si fosse chiamato Lucas, Xavier o Hugo. Perfino un Ghislain l’avrebbe fatto felice. Ghislain Vignolles, un nome vero dentro cui potersi costruire, il corpo e la mente ben protetti da quattro sillabe inoffensive. Mentre invece gli era toccato attraversare l’infanzia perseguitato da un calembour assassino: Vilain Guignol. In trentasei anni di esistenza, aveva finito coll’imparare l’arte di scomparire, di diventare invisibile per eludere le risate e le prese in giro che puntuali si scatenavano non appena qualcuno lo notava. Non essere né bello, né brutto, né grasso, né magro. Niente più di una figura indistinta ai margini del campo visivo. Confondersi con il paesaggio fino al punto di rinnegare se stessi per restare un altrove mai visitato. In tutti quegli anni, Guylain Vignolles aveva passato il tempo semplicemente a non esistere più, tranne lì, su quella sinistra banchina ferroviaria che calcava tutte le mattine della settimana. Tutti i giorni, alla stessa ora, aspettava il suo treno su quella banchina, i piedi sulla linea bianca che delimitava l’area oltre la quale si rischiava di cadere sui binari. Quella linea insignificante tracciata sul cemento aveva la strana virtù di placarlo. Lì, gli odori di fossa comune che gli aleggiavano costantemente nella testa svanivano come per magia. E durante i pochi minuti che lo separavano dall’arrivo del convoglio la calpestava come per confondercisi, consapevole che si trattava soltanto di una tregua illusoria, che l’unico modo di sottrarsi alla barbarie che lo attendeva laggiù, dietro l’orizzonte, sarebbe stato allontanarsi da quella linea su cui si dondolava stupidamente da un piede all’altro e tornare a casa. Sì, sarebbe bastato rinunciare, tutto qui, ritrovare il proprio letto e raggomitolarsi nell’impronta ancora tiepida che il corpo aveva lasciato durante la notte. Dormire per fuggire. Ma alla fine, il nostro giovane si rassegnava sempre a restare sulla linea bianca, ad ascoltare la piccola folla di habitué accalcarsi alle sue spalle mentre gli sguardi gli si posavano sulla nuca producendo un leggero bruciore che gli ricordava di essere ancora vivo. Con l’andar degli anni, gli altri utenti avevano finito con il testimoniargli il rispetto indulgente che si riserva ai matti. Guylain era una boccata d’aria che, per i venti minuti del viaggio, li strappava momentaneamente alla monotonia dei giorni.
1 Letteralmente, Brutto Pagliaccio. (N.d.T.)

2

Il treno si immobilizzò contro la banchina in uno stridore di freni. Guylain si staccò dalla linea bianca e salì sul predellino. Lo stretto strapuntino lo aspettava a destra della porta. Alla morbidezza dei sedili, preferiva la durezza del ribaltabile arancione. Con il tempo, lo strapuntino era entrato a far parte del rituale. Il gesto di abbassare la seduta aveva qualcosa di simbolico che lo rassicurava. Mentre il treno si avviava, estrasse la custodia di cartone dalla cartella di cuoio che lo seguiva ovunque. La aprì con cautela e sfilò una prima pagina dai due fogli di carta assorbente rosa confetto che conteneva. La velina mezzo strappata e smangiucchiata all’angolo superiore sinistro gli penzolava tra le dita. Era una pagina di libro, formato 13×20. Il giovane la studiò un istante, poi tornò a posarla sulla carta assorbente. A poco a poco nel vagone scese il silenzio. A tratti risuonarono degli «ssst» di rimprovero volti a zittire le poche conversazioni che stentavano a spegnersi. A questo punto, come ogni mattina, Guylain dopo un ultimo raschio di gola si mise a leggere ad alta voce:
“Paralizzato e ammutolito per lo stupore, il bambino non aveva occhi che per l’animale ansimante appeso alla porta del fienile. L’uomo avvicinò la mano alla gola palpitante di vita. La lama affilata affondò silenziosa nella lanugine bianca e un geyser caldo sgorgò dalla ferita, schizzando il polso di goccioline vermiglie. Con le maniche arrotolate fino ai gomiti, il padre tagliò la pelliccia con pochi gesti precisi. Quindi, con mani possenti, tirò lentamente il mantello che scivolò via come un volgare calzino. Allora apparve in tutta la sua nudità il corpo sottile e muscoloso del coniglio, ancora fumante della sua vita spezzata. La testa penzolava, brutta e scarnificata, con i due occhi esorbitati che fissavano il nulla senza l’ombra di un rimprovero”.
Mentre il nuovo giorno veniva a schiantarsi sui vetri appannati, il testo fluiva dalla sua bocca in un lungo rivolo di sillabe, inframmezzato qua e là da silenzi nei quali si insinuava il rumore del treno in corsa. Per tutti i viaggiatori presenti nel vagone lui era il lettore, quel tipo strano che, ogni giorno della settimana, scorreva a voce alta e intelligibile alcune pagine estratte dalla cartella. Erano brani di libri del tutto scollegati gli uni dagli altri. A un frammento di ricetta di cucina poteva seguire la pagina 48 dell’ultimo Goncourt, a un paragrafo di romanzo poliziesco succedere una pagina di libro di storia. Poco importava il contenuto, per Guylain. Ai suoi occhi, l’unica cosa importante era leggere. Snocciolava i testi con zelo meticoloso. E ogni volta, la magia funzionava. Staccandosi dalle sue labbra, le parole si portavano via un po’ di quella nausea che lo opprimeva all’avvicinarsi della fabbrica:
“Infine, la lama del coltello aprì la porta del mistero. Con una lunga incisione, il padre svuotò l’addome dell’animale che vomitò interiora fumanti. Il rosario di viscere sgusciò fuori, come impaziente di abbandonare il torace di cui era prigioniero. Non rimase del coniglio che un corpicino sanguinolento avvoltolato in uno straccio da cucina. Nei giorni che seguirono, un nuovo coniglio fece la sua comparsa. Un’altra palla di pelo bianco che saltellava nel tepore della conigliera, con gli stessi occhi color sangue che osservavano il bambino dal regno dei morti”.
Senza neanche alzare la testa, Guylain passò scrupoloso a un’altra pagina:
“Istintivamente, gli uomini si erano buttati faccia a terra, con un desiderio feroce di fuggire, inabissarsi nel grembo di quella terra protettrice. Alcuni scavavano l’humus a mani nude, come cani rabbiosi. Altri, raggomitolati, offrivano le loro fragili schiene ai frammenti mortali che piovevano da ogni parte. Si erano tutti ripiegati su se stessi in un riflesso uscito dalla notte dei tempi. Tutti tranne Josef, Josef che era rimasto in piedi in mezzo al caos e che con un gesto inconsulto aveva abbracciato il tronco della grande betulla bianca che gli stava di fronte. Dalle fessure che striavano il tronco, l’albero stillava una resina densa, grosse lacrime di linfa che affioravano imperlandone la corteccia per poi sgocciolare lentamente. L’albero si svuotava proprio come Josef, le cui cosce si rigarono di urina bollente. A ogni nuova esplosione, la betulla rabbrividiva contro la sua guancia, sussultava tra le sue braccia”.
Il giovane spulciò la dozzina di pagine rinvenute nella cartella finché il treno entrò in stazione. Mentre sul suo palato la traccia delle ultime parole pronunciate svaniva, per la prima volta da quando era salito osservò i viaggiatori. Come spesso accadeva, sui loro volti scoprì delusione, per non dire tristezza. Giusto il tempo di riscuotersi e il vagone si vuotò rapidamente. Si alzò anche Guylain. Lo strapuntino, chiudendosi, produsse un colpo secco. Il ciak della fine. Una donna di mezza età gli sussurrò all’orecchio un grazie discreto. Guylain le sorrise. Come spiegarle che non lo faceva per loro? Si separò con rassegnazione dal tepore del treno, lasciandosi dietro le pagine del giorno. Gli piaceva saperle lì, comodamente infilate tra la seduta e lo schienale dello strapuntino, lontano dal fracasso devastatore cui erano sfuggite. Fuori, la pioggia era due volte più violenta di prima. Come ogni mattina all’avvicinarsi della fabbrica, la voce aspra del vecchio Giuseppe gli risuonò in testa. «Non sei fatto per questo, ragazzo mio. Tu non lo sai ancora, ma non sei fatto per questo!» Sapeva a cosa si riferiva il vecchio, lui che per avere il coraggio di andare avanti non aveva trovato di meglio della stella rossa. Guylain non gli aveva dato retta, ingenuamente convinto che la routine avrebbe sistemato tutto. Che gli avrebbe pervaso l’esistenza come una nebbia d’autunno e anestetizzato la mente. Ma nonostante gli anni, alla vista dell’immenso muro di cinta sporco e scrostato la nausea tornava puntuale a stringergli la gola. Là dietro si nascondeva la Cosa, ben al riparo dagli sguardi. La Cosa che lo aspettava.

3

Quando lo spinse per entrare nell’area della fabbrica, il cancello d’accesso produsse un gemito che alle sue orecchie suonò sgradevole. Il cigolio distolse il guardiano dalla lettura. A furia di sfogliarla, la riedizione del 1936 del Britannico di Racine che teneva tra le mani assomigliava a un uccello ferito. Guylain si chiedeva se a Yvon Grimbert succedesse mai di lasciare la propria garitta. Il buonuomo sembrava infischiarsene altamente della scomodità di quella baracca di tre metri per due esposta a qualsiasi intemperia, purché la grossa cassa di plastica dove teneva i libri fosse sempre con lui. A 59 anni, l’unico vero amore della sua vita era il teatro classico e non di rado, tra una partita consegnata e l’altra, capitava di vederlo calarsi nei panni di un Don Diego o fasciarsi il busto con la toga di un Pirro immaginario, le lunghe braccia che spazzavano l’aria del suo angusto riparo, lasciando per il tempo di un infiammato monologo quel ruolo senza gloria per il quale lo pagavano una miseria e che consisteva nell’alzare e abbassare la barriera rossa e bianca all’ingresso della fabbrica. Sempre vestito di tutto punto, l’uomo curava con particolare premura i baffi che gli ornavano di un tratto sottile il labbro superiore, e non perdeva occasione di citare il grande Cyrano: «Sì, tutte le parole sono fini quando il baffo è fine». Il giorno in cui aveva scoperto l’alessandrino, Yvon Grimbert se n’era immediatamente innamorato. Servire con fervore e fedeltà il verso di quattordici sillabe era diventata la sua sola missione in Terra. Guylain lo amava per la sua follia. Per questo e forse anche perché Yvon era uno dei pochi che non aveva ceduto alla tentazione di chiamarlo Vilain Guignol.
«Buongiorno, Yvon.»
«Buongiorno, ragazzo.» Come Giuseppe, nemmeno lui era mai riuscito a designarlo altrimenti che con questo sostantivo. «Il grosso e il coglione sono già qui.» Yvon glieli serviva sempre e soltanto in quest’ordine. Il grosso prima e il coglione poi. Quando non parlava in alessandrini, il guardiano usava frasi corte. Non che fosse avaro di parole, ma preferiva riservare la propria voce all’unica cosa che ai suoi occhi valesse veramente la pena: le quattordici sillabe. Mentre Guylain si allontanava in direzione dell’immenso capannone di lamiera, Yvon gli gridò dietro due versi di sua composizione:
«S’abbatte la tempesta violenta e misteriosa
Sferza la garitta una grandine nervosa».
La Cosa era lì, massiccia e ostile, piantata nel bel mezzo della fabbrica. In oltre quindici anni di mestiere, Guylain non si era mai risolto a chiamarla con il suo vero nome, come se il semplice fatto di nominarla equivalesse a riconoscerla, una specie di accettazione tacita che per lui era fuori discussione. Non nominarla mai, era questo l’estremo bastione che era riuscito a erigere tra lei e se stesso per non venderle definitivamente l’anima. La Cosa si sarebbe dovuta accontentare del suo corpo, e del suo corpo soltanto. Il nome inciso sull’acciaio del mastodonte sprigionava un lezzo di morte imminente: Zerstor 500, dal verbo zerstören, che nella bella lingua di Goethe significa distruggere. La Zerstor FünfHundert era una mostruosità di pressoché undici tonnellate uscita nel 1986 dalle officine della Krafft GmbH, nel sud della Ruhr. La prima volta che Guylain l’aveva vista, il colore grigioverde della scocca di metallo non l’aveva granché sorpreso. Niente di più normale di quella tinta guerriera per una macchina la cui unica funzione era quella di annientare. Al primo sguardo avrebbe potuto far pensare a una cabina di verniciatura o a un grosso generatore, se non addirittura, colmo dell’assurdo, a una voluminosa rotativa da tipografia. L’unica pretesa apparente della Cosa sembrava essere la bruttezza. Ma questa era solo la punta dell’iceberg. Nel grigiore del pavimento di calcestruzzo, le fauci spalancate disegnavano un rettangolo scuro di quattro metri per tre che si apriva sul mistero. Lì, al riparo delle tenebre, in fondo a un enorme imbuto di inox, c’era il terribile ingranaggio, un meccanismo senza il quale la fabbrica sarebbe stata un semplice e inutile deposito. Sul piano tecnico, la Zerstor 500 doveva il proprio nome scientifico ai cinquecento martelli grossi quanto un pugno d’uomo disposti a quinconce sui due cilindri orizzontali che coprivano l’intera larghezza della fossa. A ciò andavano ad aggiungersi i seicento coltelli d’acciaio inossidabile ripartiti su tre assi che roteavano alla velocità di ottocento giri al minuto. Ai due lati di questo inferno, una ventina di ugelli formava un’ala d’onore che sparava ininterrottamente un getto d’acqua a centoventi gradi per trecento bar di pressione. Più lontano, i quattro potenti bracci dell’impastatrice riposavano nel loro scrigno di inox. Ingabbiato nella sua prigione di ferro, infine, il mostruoso motore diesel da quasi mille cavalli dava vita al tutto. La Cosa era nata per triturare, spianare, pestare, spappolare, strappare, frantumare, lacerare, stracciare, mescolare, impastare, sbollentare. Ma la definizione migliore che Guylain avesse mai sentito restava quella che il vecchio Giuseppe amava gridare quando il torcibudella che ingurgitava da mattina a sera non era bastato a estinguere l’odio viscerale che nel corso degli anni aveva immagazzinato nei confronti della Zerstor 500: genocida!

4

L’atmosfera di sala da ballo vuota che regnava nella fabbrica a quell’ora del giorno faceva accapponare la pelle. Di quanto era accaduto lì il giorno precedente non rimaneva traccia. Né era possibile scorgere il minimo segno precursore del furore e del fracasso che sarebbero esplosi tra quelle mura nei minuti a venire. Non lasciare indizi. Era una delle ossessioni di Félix Kowalski. Sera dopo sera, il capo faceva pulire la scena del delitto perché quest’ultimo restasse perfetto. Un delitto ripetuto all’infinito tutti i giorni dell’anno, salvo weekend e festivi.
Guylain attraversò il capannone a passo strascicato. Brunner lo aspettava. Nella sua tuta al solito impeccabile, il giovane se ne stava disinvoltamente appoggiato al quadro di comando della Cosa. Le braccia incrociate sul torace, accolse Guylain come sempre, con quello strano sorriso appena abbozzato sulle labbra. Mai una parola di benvenuto, mai un gesto, no, solo quel sorriso pieno di arroganza che gli lanciava dall’alto dei suoi 25 anni e del suo metro e ottantacinque. Brunner passava il tempo a sciorinare le proprie verità a chi volesse ascoltarlo: i funzionari erano tutti sinistroidi fannulloni, le donne buone solo a servire il marito, leggi a spignattare di giorno e farsi ingravidare di sera, i marocco (abbreviazione del termine marocchini, che vomitava più che pronunciare) passavano il tempo a togliere il pane di bocca ai francesi. Senza dimenticare gli sfondati di soldi, i parassiti della società, i politicanti maneggioni, gli automobilisti della domenica, i drogati, i finocchi, i finocchi drogati, gli handicappati, le prostitute. Quel tipo aveva un parere su tutto, un parere irremovibile che Guylain da un pezzo non cercava più di contraddire. Un tempo si era sfiancato di retorica nel tentativo di spiegargli che non era tutto così semplice, che tra il bianco e il nero c’è una gamma di sfumature, dal più chiaro al più scuro dei grigi. Invano. Guylain aveva finito col rassegnarsi all’idea che Brunner era un irrecuperabile imbecille. Irrecuperabile e pericoloso. Lucien Brunner dominava a meraviglia l’arte che consisteva nel fottersene beatamente di te, pur facendoti mille salamelecchi. Dai suoi «signor Vignolles» intrisi di condiscendenza emanava un sordo disprezzo. Brunner era un serpente della peggior specie, un cobra pronto a mordere al minimo passo falso da cui Guylain si sforzava continuamente di tenere le distanze, fuori dalla portata dei denti veleniferi. A coronare il tutto, quel coglione adorava fare il boia. «Ehi! Signor Vignolles, mi lascia mettere in moto, oggi?»
Guylain in cuor suo giubilò. No, il signor Vignolles non gli avrebbe lasciato mettere in moto, oggi. E nemmeno domani o dopo! Il signor Vignolles non era minimamente disposto a offrirgli il piacere incommensurabile che risiedeva nel semplice gesto di far partire quella merda di unità di trasformazione! «No, Brunner. Sa benissimo che finché non avrà tutti i certificati non è possibile.» Guylain adorava questa frase, che gli propinava in tono compassionevole, anche se aspettava con ansia il giorno in cui quel demente gli avrebbe sventolato sotto il naso l’agognato permesso. Quel giorno non era lontano, e allora avrebbe dovuto cedere. Non passava settimana senza che Brunner rilanciasse a Kowalski a tal proposito, affinché il grosso inoltrasse la richiesta alla direzione. Non appena poteva, quell’ipocrita lo tampinava a suon di «Signor Kowalski» di qua, «Capo» di là, e non perdeva mai l’occasione di affacciarsi all’ufficio con il suo muso da furetto per leccargli i piedi. Un beccogiallo sul dorso di un bufalo. E l’altro ci sguazzava. Tutto quel cinema per Kowalski era un massaggio all’ego. Nel frattempo, Guylain si trincerava dietro il regolamento per fare il predicozzo a Brunner, sempre con l’impressione fugace di stuzzicare un cobra con la punta del bastone. Niente patente, niente pulsante!
«Cazzo, Vignolles, cosa aspetta a mettere in moto, che smetta di piovere?» Kowalski, che l’aveva avvistato dall’alto della sua torre d’avorio, era emerso dall’ufficio per venire ad abbaiargli addosso con la voce in falsetto. L’antro vetrato si trovava a poco meno di dieci metri da terra, sospeso sotto il tetto della fabbrica. Da lassù, Kowalski vedeva tutto, come un piccolo dio in ascolto del proprio regno. Il benché minimo allarme, il più piccolo passo falso ed ecco che usciva sul ponte per sbraitare ordini o distribuire rimproveri. E se riteneva che non bastasse, come nel caso specifico, scendeva di volata la trentina di scalini metallici che accoglievano il suo quintale di grasso cigolando per protesta.
«Cristo santo, Vignolles, si dia una mossa! Ci sono già tre TIR che aspettano per strada.» Félix Kowalski non parlava. Abbaiava, urlava, si sgolava, inveiva, ruggiva ma non aveva mai saputo parlare normalmente. Era più forte di lui. Non cominciava mai la giornata senza scaricare una raffica di ululati sul primo che gli capitava a tiro, come se la cattiveria accumulata durante la notte dovesse uscirgli dalla bocca a ogni c...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26