Capitolo diciotto
Cominciai a fare lunghe passeggiate nel parco di pomeriggio. La mia routine quotidiana aveva ormai preso forma: lezioni ai bambini la mattina seguite da un pranzo semplice poco dopo mezzogiorno, quando Isabella ed Eustace chiacchieravano di ciò che catturava la loro attenzione mentre io stavo lì in silenzio, tesa, certa che ogni suono o movimento nella casa annunciasse un terrore inaspettato. Non dormivo bene e la stanchezza mi si leggeva in faccia: ero pallida e tirata. Avevo occhiaie grevi e scure e nel tardo pomeriggio faticavo a tenere gli occhi aperti. Eppure al calar della notte, sfinita com’ero, non riuscivo a mettere insieme più di poche ore di sonno agitato, tanto ero certa che l’entità sarebbe tornata a farmi del male. Dopo pranzo lasciavo che i bambini facessero le loro cose, e nel tardo pomeriggio concludevamo le lezioni. Nelle loro ore libere prendevo il cappotto e lo scialle e m’immergevo nei boschi della tenuta di Gaudlin. L’aria fresca ridestava il mio spirito languente e gli alberi fitti mi davano qualcosa di simile a un senso di protezione.
Faceva bene alla mia anima vagare libera, lasciare che la Hall sparisse tra il fogliame, e quando arrivavo agli spazi aperti oltre il bosco e verso il lago che delimitava la proprietà mi immaginavo di nuovo a Londra, intenta a passeggiare lungo le rive della Serpentine in Hyde Park, pensando solo a ciò che avrei cucinato a mio padre per la cena quella sera o agli esercizi da assegnare alle mie bambine il giorno dopo.
In verità, sebbene fossi giunta a provare un sincero affetto per Isabella ed Eustace, le bimbe che avevo lasciato a Londra mi mancavano. Erano state una parte importante della mia vita. Ero contenta di vedere i loro volti al mattino, anche delle più turbolente. Ero fiera delle lezioni che tenevo e facevo sì che ogni bambina sentisse di avere un suo posto in classe, e che nessuna delle altre avrebbe fatto la prepotente con lei. E sono convinta che anche loro mi volessero bene.
C’era una bambina che mi tornava in mente sempre più spesso quando passeggiavo nel parco di Gaudlin Hall. Si chiamava Clara Sharpe e aveva cinque anni quando era arrivata nella mia classe: una bimba brillante e vivace, ma non cattiva, incline a manifestare un’energia irrefrenabile la mattina e lunghi periodi di malumore nel pomeriggio. (Lo attribuivo alla colazione che consumava prima di uscire di casa, e al pranzo: sospettavo che avessero un effetto negativo sul suo umore.)
Comunque Clara mi piaceva molto e la sua crescita intellettuale mi appassionava, soprattutto quando scoprii che aveva un dono per la matematica. A differenza delle altre bambine, per le quali i numeri non erano altro che una serie infinita di geroglifici, Clara aveva il genere di mente che sa organizzare e razionalizzare senza difficoltà, ed ero convinta che col tempo avrebbe potuto seguire i miei passi nella professione dell’insegnamento. Parlai di lei in diverse occasioni con Mrs Farnsworth, la quale suggerì che con le sue abilità matematiche Clara avrebbe potuto avere un futuro come segretaria di un direttore di banca. Ricordo bene l’episodio perché feci un’osservazione, intesa come una battuta, e dissi che forse avrebbe potuto essere lei a dirigere la banca, un giorno, e Mrs Farnsworth si sfilò gli occhiali e mi guardò sbigottita e mi accusò di essere una rivoluzionaria, accusa che respinsi.
«Non sarete una donna moderna, vero, Eliza?» mi chiese, ergendosi in tutta la sua altezza per guardarmi dall’alto in basso, colmandomi dello stesso timore che provavo quando ero una bambina e lei la mia insegnante. «Non posso tollerare persone moderne alla St Elizabeth. E nemmeno il Consiglio direttivo.»
«No, certo che no» risposi, arrossendo violentemente. «Stavo scherzando, tutto qui.»
«Mmm» commentò lei, poco soddisfatta. «Lo spero. Clara Sharpe direttore di banca! Che idea!»
Eppure, anche se non mi consideravo affatto una persona moderna, sentii che il suo senso di oltraggio era in se stesso oltraggioso. Perché quella bambina non avrebbe dovuto mirare a cose più grandi, dopotutto? Perché tutti noi non dovremmo?
Mrs Farnsworth mi aveva rimproverato con tanta veemenza che sospettavo che volesse invitare mio padre per discutere la questione con lui, e forse avrebbe anche potuto farlo se non avesse capito che bisogna fare una distinzione tra le bambine e i loro insegnanti, e che poteva appellarsi all’autorità dei genitori per controllare le prime ma toccava solo a lei dominare i secondi.
Pensai a Clara perché era finita in una situazione difficile. Suo padre era dedito all’alcol, mentre sua madre faceva quello che poteva per tenere insieme la famiglia, nonostante la miseria che il marito portava a casa per sostentare moglie e figlia. Il poco denaro che l’uomo guadagnava finiva più spesso in birra che in cibo e abiti, e più di una mattina Clara arrivò in classe col volto contuso, e mi sarebbe tanto piaciuto vivere in una società civile in cui avessi potuto indagare su chi aveva prodotto quei lividi e perché. Non che avessi dubbi sulle risposte. Mi spaventava immaginare l’aspetto della madre di Clara, perché sospettavo che il marito maltrattasse la moglie tanto quanto la figlia. Pensai anche di andare alla polizia, ma ovviamente avrebbero riso di me e avrebbero detto che ciò che un inglese fa nell’intimità della sua casa è affar suo.
Ma una sera l’uomo esagerò e aggredì un’incollerita Mrs Sharpe, che prese una casseruola dal forno, si girò di scatto e lo colpì così forte sulla testa che lui cadde a terra, morto. La povera donna, vittima di una violenza ignorata per tanto tempo, fu subito arrestata – perché naturalmente aggredire un marito è un crimine, mentre aggredire una moglie rientra nell’ambito del diritto maritale. A differenza di Santina Westerley, tuttavia, che era chiaramente una creatura squilibrata, Mrs Sharpe non venne condannata a morte. Il giudice, un uomo moderno – Mrs Farnsworth non avrebbe approvato – si convinse che la donna meritasse indulgenza e commutò la sua condanna in ergastolo, una sentenza che, nella stessa posizione, avrei apprezzato molto meno che una settimana di agitata attesa, qualche istante di dolore straordinario e un’eternità di pace, la ricompensa offerta dalla fune. Clara, non avendo altri parenti che si occupassero di lei, finì al ricovero, e persi i contatti con lei. Ma tornò nei miei pensieri una di quelle mattine mentre riflettevo sull’assassinio di Miss Tomlin, su Santina Westerley e sulla violenta aggressione che aveva lasciato il marito in condizioni così spaventose. E m’interrogai sulla mente delle donne che commettono questi atti. Mrs Sharpe dopotutto era stata picchiata e maltrattata; Santina Westerley, non avevo dubbi, era stata amata e le era stata offerta la sicurezza di una casa, del denaro, di una posizione in società e di una famiglia. Mettendo le due donne una accanto all’altra, riflettei che i motivi delle nostre azioni sono una cosa strana.
Era mentre pensavo a queste cose che voltai l’angolo della casa e mi ritrovai davanti al cottage di Heckling: quell’uomo così difficile era lì, accanto a una catasta, intento a spaccare la legna con l’ascia. Nel vedermi posò l’ascia e si asciugò la fronte col fazzoletto, poi mi fece un cenno mentre Pepper, il cane, correva verso di me e mi saltellava sui piedi.
«Istitutrice» disse Heckling, leccandosi le labbra in una maniera disgustosa.
«Mr Heckling» replicai. «Non c’è pace per i malvagi, eh?»
«Sì, be’, se non lo faccio io non lo fa nessuno» borbottò lui. Era proprio un raggio di sole in un giorno cupo.
Mi guardai attorno e notai la porta seminascosta su un lato della casa attraverso la quale Mrs Livermore compiva i suoi viaggi quotidiani su e giù dalla scala che conduceva alle stanze di Mr Westerley. Non l’avevo vista fino al giorno in cui me l’aveva indicata lei, ma adesso che la notavo mi chiesi perché i primi costruttori si fossero sforzati di nasconderla.
«Avete sempre lavorato da solo, Mr Heckling?» chiesi, voltandomi a guardarlo, e lui mi fissò sorpreso.
«Come sarebbe?» domandò.
«Mi chiedevo se siete sempre stato solo, qui nella proprietà. Ad aggiustare le cose, a tagliare la legna, a guidare la carrozza, e il resto. Immagino che in passato ci fosse molto più da fare.»
«Sì, sicuro» disse, evidentemente riluttante a dire troppo del passato. «C’erano degli altri, sotto di me, insomma, ma adesso non servono e così sono stati licenziati. Me mi hanno tenuto per via che il parco ha bisogno almeno di un guardiano. E sono nato qui, ovvio.»
«Siete nato qui?» gli feci eco, sorpresa.
«In quel cottage» disse, accennando alla sua casa. «Mio padre era il guardiano prima di me, sapete. E il suo prima di lui. Io sono l’ultimo.» Sospirò e distolse lo sguardo e per la prima volta vidi che sotto il suo atteggiamento sbruffone c’era un uomo solo.
«Non avete figli, dunque?»
Masticò qualcosa. «Vivi no.»
«Mi dispiace» dissi. Certo; abbiamo tutti la nostra storia.
«Sì.»
Si chinò a prendere il manico dell’ascia, la posò sul ceppo e cercò una sigaretta in tasca.
«Voi vedete tutto, immagino, Mr Heckling» dissi dopo un po’.
«In che senso?»
«Tenete gli occhi aperti.»
«Tranne quando dormo.»
«Avete mai notato degli estranei?»
Strinse gli occhi e inspirò una lunga boccata di fumo, fissandomi. «Estranei?» disse. «E com’è che mi chiedete una cosa simile, istitutrice? Avete visto qualcuno?»
Scossi il capo. «Eustace ha detto una cosa» risposi. «Su un vecchio signore che si vede ogni tanto nel parco. Si sono parlati.»
«Non c’è nessun vecchio signore qui in giro» disse Heckling, scuotendo il capo. «Altrimenti me ne accorgevo. O se ne accorgeva Pepper, e allora peggio per lui.»
«Forse si è sbagliato» dissi.
«Succede. I bambini s’inventano le cose. Dovete saperlo meglio di chiunque altro.»
«Eustace non dice bugie» replicai, sorpresa dal mio stesso tono difensivo.
«Allora è il primo bambino della sua età che non le dice. Quando ero piccolo le bugie mi venivano naturali. Mio padre mi picchiava sempre.»
«Mi dispiace.»
La sua espressione si fece confusa. «Perché?» chiese.
«Be’… dev’essere stato spiacevole.»
Scrollò le spalle. «Me lo meritavo» disse. «Quel ragazzo ha bisogno di una bella battuta se mente sulle cose che ha visto e che non ha visto.»
«Io non ho intenzione di picchiare Eustace» dissi con fermezza.
«Be’, è roba da padri, penso» disse lui, e distolse lo sguardo con un sospiro. «E Mr Westerley non è proprio nella posizione di fare qualcosa per il ragazzo, no?»
Non sapevo se fosse deliberatamente offensivo o se si stesse limitando a constatare un fatto; aveva ragione, dopotutto. È compito dei padri punire i figli, e il padre di Eustace certo non era più in grado di farlo. Scossi il capo; non aveva alcuna importanza, dal momento che non credevo che Eustace stesse mentendo.
«Se in effetti aveste visto un uomo del genere» dissi infine, «un signore anziano, o uno straniero che non abita da queste parti, forse sareste così gentile da dirmelo.»
«O potrei sparargli, e via» disse Heckling. «Dico, se fosse un intruso e tutto.»
«Sì, sicuro» dissi, voltandomi, «potrebbe anche andare così, immagino.»
Un rumore mi costrinse a girarmi di nuovo: e con mia meraviglia vidi nientemeno che Mr Raisin, l’avvocato, che sbucava da dietro il cottage di Heckling. Mi rivolse un sorriso lieto prima di tossicchiare e tornare serio per salutarmi con un inchino cortese. «Miss Caine» disse. «È un piacere vedervi.»
«Altrettanto, Mr Raisin» dissi io, arrossendo un po’, non so bene perché. «Che sorpresa.»
«Sì, be’, avevo delle faccende da sbrigare con Heckling e be’, sono davvero sorpreso anch’io di vedervi. Grazie, Heckling» aggiunse con un cenno all’uomo. «I nostri affari sono conclusi per oggi, va bene?»
«Sì» rispose Heckling; poi raccolse l’ascia e fece un passo indietro, aspettando che ce ne andassimo per ricominciare a tagliare la legna. Io e Mr Raisin ne approfittammo per affiancarci e avviarci verso la casa, dove vidi la sua carrozza in attesa.
«Era per via di certi conti» disse mentre camminavamo. «Heckling è un uomo affidabile e quanto mai onesto, ma quando ha bisogno di qualcosa non fa che ordinarla da un negozio del villaggio, e poi dice di mandare il conto a me. Non gliene voglio per questo, ovvio, so che non prenderebbe mai niente per sé, ma ho piacere di controllare i conti con lui, ogni tanto, così che abbiamo tutti e due le idee chiare sulle spese della proprietà.»
«Immagino che debba essere una faccenda complicata» dissi io.
«Può esserlo» ammise lui. «Ma Gaudlin Hall non è la più bizantina tra la mia clientela. Conosco persone con meno proprietà e molto meno denaro che lo vincolano nei modi più aggrovigliati. Sciogliere i nodi richiederebbe l’abilità di un marinaio di lungo corso. Comunque, Mr Cratchett si occupa di gran parte delle faccende quotidiane per mio conto. Io entro in scena quando le cose sono più complicate. E non è nulla a confronto dei vecchi tempi. Certo, quando mio padre era il legale del padre di James…»
«Santo cielo» esclamai. «In questo paese tutti devono seguire la professione del padre? E farsi carico dei doveri del padre quando viene il momento? Heckling mi stava dicendo la stessa cosa della sua famiglia.»
«È l’ordine naturale delle cose, Miss Caine» osservò lui, un po’ offeso, e io rimpiansi il tono che avevo usato. «E quello della legge è un mestiere rispettabile, sapete. Come lo è fare il guardiano, se è quella la classe in cui si è nati. Così come lo è fare l’istitutrice, se è per quello.»
«Certo, Mr Raisin» dissi in tono di scusa. «Non volevo insinuare nient’altro.»
«Posso chiedere che tipo di lavoro faceva vostro padre?» fu la sua domanda.
«Lavorava al dipartimento di Entomologia del British Museum.»
«Ed è stata la missione di tutta la sua vita, vero?»
«Be’, no» ammisi. «Alla mia età aveva fatto l’insegnante per un breve periodo. In una scuola per bambini piccoli.»
«E prima che veniste da noi nel Norfolk? Ricordatemi che cosa facevate.»
Sorrisi. Per la prima volta da molto tempo, avevo voglia di ridere. «L’insegnante» dissi.
«In una scuola per bambine piccole, certo.»
«Certo.»
«Bene, Miss Caine» disse, fermandosi davanti alla carrozza e levandosi in tutta la sua altezza, il petto in fuori, tutto compiaciuto, «pare che ciò che va bene per noi in campagna funzioni anche per coloro che vivono nella nostra benedetta capitale.»
Fissai il suo volto, quei luminosi occhi azzurri, e ci sorridemmo. Continuammo a guardarci e la sua espressione si fece confusa. Le sue labbra si dischiusero; mi guardò come se volesse dire qualcosa ma non riuscisse a trovare le parole.
«Sì, sì» dissi infine, desiderosa di concedergli la sua piccola vittoria. «Ritenetemi redarguita. Ma ora, Mr Raisin, non ve ne andrete così in fretta, vero?»
«Vorreste che restassi?»
Non avevo risposta. Alla fine sospirò e accarezzò il cavallo. «Mi sono concesso mezza giornata di vacanza, Miss Caine» mi disse. «Pensavo di sistemare la faccenda dei conti con Heckling e poi ritirarmi in casa con un bicchiere di vino rosso e Oliver T...