Bisogna avere i coglioni per prenderlo in culo
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Bisogna avere i coglioni per prenderlo in culo

  1. 350 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Bisogna avere i coglioni per prenderlo in culo

Informazioni su questo libro

Un diario, un atipico romanzo, sicuramente un viaggio, solitario, turistico, sessuale, d'esilio, da Capri a Itaca, dall'Irlanda a Salonicco, dagli slum di Johannesburg al lusso di New York fino al promontorio di Sant'Elena, attraverso isole, istmi e penisole celebri, ignote, disperse. Al centro il Busi-scrittore che come tale è perseguitato da un'affamata insonnia che gli stimola un'incessante bisogno di osservare, sperimentare e riflettere su sesso, solitudine, solidarietà. Attorno, un'infiorescenza di personaggi che vivono isolati gli uni dagli altri in totale rassegnazione, a costruire la propria gabbia e piramide, dai pochi eletti in cima agli esclusi sul fondo, qualsiasi sia la loro lingua o il colore della pelle. Un libro sorprendente e fuori da qualunque schema, che stupisce per la fresca invenzione linguistica, per l'amara ironia, per l'attacco feroce a ogni perbenismo.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817080606
eBook ISBN
9788858678244
Mai sciupare una bella storia con la verità.
OSCAR WILDE
Pieve di Lombardia, un giorno di giugno del 2002 (la data esatta la metto dopo, per il momento sto scrivendo a mente mentre sono in auto, passo accanto al campo di calcio del Cento giovanile – refuso, ma poiché “cento” in dialetto sta per “cesso”, lo lascio stare – e magari decido di andare da qualche parte; una sacca con il minimo indispensabile la tengo come regola nel bagagliaio, mai usata, devio sempre prima da casa, io mi prenderei su tre valige minimo anche per uscire a comprare il pane, non si sa mai, potrei anche decidere di non rientrare più, o potrebbero impedirmelo eventi mica solo infausti).
Che resta di tutto il Mundial che abbiamo creduto di vincere?
Pulcini, pulcinotti, under qualcosa, galletti già abbastanza senior sono tutti lì nel campo regolamentare del centro giovanile di Pieve di Lombardia con le loro magliette multicolori sponsorizzate dal Mobilificio Focolare Felice sulla provinciale per Mantova, le scarpette chiodate, ginocchiere e scaldamuscoli e adesivi dappertutto, rubinetteria cartonati vetreria lampadari utensileria casa del circondario, sembrano tanti parafanghi ammaccati di automobiline spinte verso lo sfasciacarrozze, quelle loro zazzere tutte ispide uguali per via del gel che le cementa e contro cui non può niente né il sudore né la capriola né lo spintone, e rincorrono il pallone dalle due del pomeriggio a tarda sera; quando non c’è scuola vengono allenati già dalle otto del mattino, squadre di piccoli futuri campioni o di teppe di ultras imminenti agli ordini di allenatori e mister pii osservanti del posto, goleador selezionati rispetto alla frequenza con cui si accostano ai sacramenti la domenica e le feste comandate e che pertanto alle domande su cosa è maschio e cosa no, restando muti, danno risposte esatte senza fallo. Per far parte delle selezioni bisogna credere in Dio o, se te ne sbatti, acqua in bocca. Mi si stringe il cuore a vedere tutta quella carne umana bambina bendata come un unico falco pellegrino impagliato e immolata al Dio in seconda, lo sport competitivo e carrieristico, che li intruppa già nel feto materno, perché il calcio è la versione più strisciante del generale catechismo che provvede all’origine e al fine dell’uomo e, come la religione amministrata dal più violento definito anche il più forte, colpisce innanzitutto i più deboli sin dal momento in cui sono del tutto indifesi: in fasce. Anzi, sin dal latte materno, fosse pure in polvere, succhiano gli immondi dogmi dei loro parassiti che li succhiano e dai quali da grandi non potranno mai più liberarsi. Placente e spermatozoi già da stadio, clonazioni dei fedeli infelici, poveri bambini, e poveri quegli ex bambini che li hanno messi al mondo per fare la loro propria stessa fine. Il calcio, tramite del Cielo, gli dà gli ideali per la terra… rotonda, da prendere a calci, da spostare verso il tuo goal di vincitore definitivo sull’avversario, il nemico, la vittima designata… l’urrà dello scampato, come se la morte fosse per un momento solo dello sconfitto. L’unico pensiero che mi consola è che magari hanno già cominciato a assumere sostanze anabolizzanti pagate sottobanco dalle mamme, così, almeno, se non schiattano già nel momento dello sviluppo come spesso succede, oltre i quaranta difficile che ci arrivino, meglio, che così ce li togliamo di mezzo – se non fosse che sarebbe preferibile togliere di mezzo il loro rimpiazzo di ragazzini che giocano a calcio già dall’asilo, e segare il male alle radici.
Guardali come si affannano attenti alla traiettoria del pallone e al contempo senza mai staccare gli occhi dal loro faro col fischietto, il bravo allenatore-sagrestano, ci sono tutte le fasce di età non protette, dai sette anni ai quattordici, e dai quattordici in su, tutta la cosiddetta migliore gioventù del paese sta concentrata lì da decenni e generazione dopo generazione, ansante fra due reti a maglia larga per dare meglio l’illusione che dentro quella trappola all’aria aperta c’è libertà di movimento, di pensiero, addirittura di parola: basta lasciar parlare il Grande Ventriloquo che gli hanno installato nelle corde vocali.
Bisogna essere davvero vispi per avere a sette anni l’intuizione di ribellarsi a questa decimazione del carattere e eroi nati per metterla in pratica: non si sfugge impunemente all’asservimento del calcio, l’ultimo e più marchiante dei sacramenti di rito con cui sottoscrivi la delega a pensare, sì, ma non con la tua testa. Io qui a Pieve di Lombardia fui il solo a memoria d’uomo a rifiutarsi di cadere in estasi al fischio di rigore – di rigore per ogni bambino considerato sveglio, e tanto da meritare di essere stordito e assonnato al più presto. Entrai in conflitto con l’insegnante di ginnastica, un democristiano di provata fede, un vero soldato di Cristo & Normalità, e lui, per rendere più cocente e collettiva la mia punizione, sibilava indignato, «Se non gioca Busi, non gioca nessuno. Niente partita. Tutti dentro a fare la pertica, avanti marsch»: mi scatenava addosso l’odio degli insulti, dei pugni nelle reni dei miei compagni di classe. Non bastò a farmi giocare una partita una sola volta. Del resto, dopo che a otto anni avevo sputato fuori l’ostia della Prima Comunione che mi era stata imposta, non potevo certo piegarmi alla tirannia del calcio, che era, come ogni attività, gestita dalla Chiesa. Per me dire no e dirlo in faccia era solo tirocinio al mestiere di genio, anche dover far fronte a una masnada di castrati intruppati in un gioco di squadra tra confessionale, famiglia e innodimameli viatico di ogni patria virilità. Come erano inferociti, quei coglioni in erba dei miei coe­tanei, contro chi aveva le palle di rispedire al mittente il loro ideale benedetto di corpo sano in una mente sana così così! Non mi lasciai intimidire, anzi, sono riuscito a salvare alcuni alunni anche più grandi di me già appollaiati nella riserva del mortale spogliatoio benedetto da Monsignore – e no, non avrei lasciato cadere la mia saponetta lì fra quelle docce: piacendomi gli uomini e piacendomi io più di quanto potesse mai piacermi un altro maschio a parte me, non potevano piacermi i calciatori. Sapendo che avrei dovuto fare la volpe per tutta la vita, ho preferito da subito fare e la volpe e l’uva, e il balzo che non la coglierà mai comunque.
In ogni bar, da mattina a sera, impazza su un maxi­schermo una qualche partita, non si può più uscire di casa, le strade sono deserte, né vivi né morti, tutti i cadaveri sono stati recuperati e murati nelle loro rispettive abitazioni, e dal mio stesso televisore vengo a sapere che una banda di questi ex pulcini di allevamento, ora in nazionale italiana, si è trasferita nel frattempo in Giappone per il campionato mondiale. Buon coccodè gli faccia. Vorrà dire che io monto in auto e mi vado a fare una napoletana, con acciughe, capperi… no, ci sarà calca anche lì, hanno installato un maxischermo ovunque. E se andassi difilato sulla Costa Azzurra? Dubito che in un paese che ha avuto una rivoluzione la gente sciupi il suo tempo estivo a favorire un colpo di Stato restandosene incollata sui divani a guardare una simile patacca. Le civilissime, illuminate masse galliche andranno in spiaggia, eh, a adocchiare fra i costumi da bagno il partner ideale dell’amplesso serotino dopo un pastis, che gliene frega di Italia-Messico?
Nizza, giovedì 13 giugno 2002, strade vuote proprio come a Pieve di Lombardia, afa, circolazione sulla Promenade des Anglais un rosolio, come da solo sul circuito di Monza, un famoso e vecchio hotel a cinque stelle ora sceso a quattro di cui almeno due millantate, apposte con quel senso della grandeur che in Francia da decenni è puro strozzinaggio prendere o lasciare: niente facchino, personale all’osso e il prezzo della singola fa da specchietto per le allodole, perché, se la vuoi, l’unica camera disponibile al momento è sempre matrimoniale e dunque a prezzo maggiorato del trenta per cento, salvo poi ritrovarti in un pertugio con due lettucci e una vetrata non apribile in alcun modo, e l’impianto dell’aria condizionata emana alla grande un teporino di brodaglia orientale e di spuntini fatti in camera per risparmiare sui ristoranti, be’, chiamo la portineria e mi lamento del miasma, dovrò pazientare un po’ che l’elica vada su di giri per bene, mi viene detto con voce suadente al telefono, vedrà poi che fresco! Dopo mezz’ora, a bollito pronto, oso timidamente far notare al portiere che l’elica secondo me è fuori uso. Dalla réception mi viene assicurato che qualcuno sta arrivando per riparare la climatisation, intanto vado a fare un giro fuori per aerare la biancheria già umidiccia e puzzolente di Grande merde pour homme e, subito dopo aver trangugiato in un Grand Café sulla Promenade, certo Grande, una salatissima acqua sporca di rosso chiamata Grand Apéritif de la Maison, per quattro monete da due euro prendo un orgasmo formato medio in un Love Centre vicino alla stazione ferroviaria, non grande, questo, ma con le cabine capaci di ospitarci in tre se solo ce ne fossero altri due a tiro; mi imbatto in un macilento di uno dagli occhi di rana esterrefatta, così a palla e vitrei che forse si è dimenticato il termometro infilato da qualche parte, tutto elegantino, pulitino, sbarbato di fresco, tipo boy-scout o chierichetto in età, che me lo fa vedere solo in quanto cappella fuori dalla patta e poi dice «No no no» col ditino alzato senza che io neppure mi sia sognato di chiedergli niente, è un bel po’ autistico, direi, entra e esce da ogni cabina con fare schifiltoso e tirandosi su e giù la cerniera dei pantaloni dalla piega perfetta e dicendo di nuovo «No no no», ditino alzato, a un altro avventore, uno sciattone più orbo che altro e che comunque gli stava girato di spalle e si grattava la pelata scottata da una tintarella tutta in un colpo, comincio a vacillare nelle mie certezze, mi chiedo se chi è chiuso a guardare le partite è davvero più suonato dei pochi strambi in giro lasciati liberi di non guardarle, mi sento come un incanutito Indiana Jones con pancetta a zonzo per Sodoma dopo la pioggia di fuoco e forfora, qui pioggia di gettoni di nichel a grandine nella macchinetta sotto il televisore con selezione di dieci porno; c’è uno lì che occhieggia fuori dalla porta della cabina lasciata accostata, un omone dallo sguardo impaurito e depresso, sarà un ligure in cerca di svago, mi accontento, tanto per la parte che hanno gli uomini nella mia omosessualità mi andrebbe bene anche un aspirapolvere, entro nella sua cabina a patto che lui non me la chiuda alle spalle, la cosa, la porta solo accostata, lo terrorizza, parla un po’ di donne, mezze frasi di circostanza, mi chiede se sono sposato, io mi calo i pantaloni alle ginocchia con un colpetto di tosse, che poi è tutto il rumore della mia parte di discorso, poi vuole che ne ammiri il fisico, dice di fare l’inserviente di casinò a Sanremo, avevo dunque indovinato, e per hobby alpinismo, mentre si solleva camicia e canottiera il suo sorriso diventa da podio, avrà un quarant’anni, posso toccargli i bicipiti e al massimo i capezzoli, lui fa il muscolo dappertutto come un tacchino pompato con la canna della bici e gira su se stesso a carillon, gli manca solo il tutù, il cazzo no, guardare e non toccare, per me va bene, quando ce l’hanno piccolo inventano tabù ai quali io non posso stare dietro, non ho pazienza, mi accontento della mia spiccia concretezza senza pretese, gli palpo le natiche, che stringe a posa di Foro Italico, fatico a tenere a freno la ridarella, gli sento un brivido mentre mi insinuo con il medio tra la peluria anale, mi blocca nel vedere che avevo portato un dito in bocca per sputarci sopra della saliva, pazienza, ridiscendo con circospezione, dandogli l’illusione di potersi non accorgere della manovra e del mio intento, gli spingo la prima falange del pollice nello sfintere, lui già urletta e si ritrae ma io già vengo, anche se tipo quando banco prende tutto ma era solo un giro dimostrativo per i gentili ospiti alla roulette, lo lascio in bianco, tanto ci deve essere abituato, è uno che se lo inculi quando è sobrio pensa che non lo ami veramente, e poi, sempre che gli interessi un orgasmo alla vecchia e non la mimica psicotica di uno specchio pentecostale, può sempre rifarsi con l’altro suonato a disposizione, il macilento perbene che adesso gira intorno come una trottola sempre più smunta e vacillante e al terzo giro ininterrotto quasi trafelato si arresta di colpo e dice «No no no» alle spalle del vecchio orbo con l’insolazione del tutto indifferente e immobile e ancora appoggiato allo stesso stipite di prima e che magari tanto strambo non è, magari è solo morto in piedi, assunto in cielo e già da mezz’oretta al cospetto della sua vera pornostar di riferimento, Dio Onnisborrante; mi metto a fare la lista degli uomini che mi fanno schifo al solo pensiero di toccarli con un dito e con i quali non scoperei mai e poi mai, a saperlo in tempo, il che spiega come faccia di tutto per non saperlo, quindi come faccia di tutto perché non aprano bocca e non si spoglino che il minimo indispensabile: gli sposati, gli uomini in generale degli altri e dei conoscenti in particolare, i fascisti, quelli che occupino un qualsiasi posto da stipendiati nella sinistra di potere, tutti fascisti dall’altra parte, i giornalisti, i cattolici, i musulmani e tutti quelli che fanno il minimo accenno a un Dio per giustificare una bassezza, magari sanguinaria, fatta passare per fine superiore, quelli dei quali ho visto, anche solo in fotografia, la madre (conoscere il padre mi fa meno schifo, può sempre non essere quello biologico), quelli che hanno meno di trent’anni (posso casomai tenere a freno l’aria di sufficienza, ma sempre di fioretto per buona creanza si tratta e quindi, per quanto essenziale e tirato via, di emicrania assicurata e di attacchi di flebite alla coscia sinistra), quelli che ne hanno cinquanta e fanno i galletti come se ne avessero trenta, quelli che si sentono gay, quelli che si sentono etero ma trasgressivi, gli effeminati, i macho, quelli in divisa, i depressi, quelli poco puliti, i troppo pettinati, i feticisti, i marchettari, specie se a scoppio ritardato, e quelli pasolinianamente presi per fame o per astuzia, quelli che mi avvicinano nella speranza di essere introdotti in qualche ambiente televisivo o editoriale, quelli che prima devono lasciarsi incantare dalla mia parlantina (che gli incauti, incurabili inculabili chiamano cultura) e i plagiabili per inclinazione che prima di darti tutta la loro purezza esigono di essere corrotti, quelli che sbagliano i congiuntivi, quelli con addosso un profumo o con un telefonino in mano, quelli che tergiversano anche quando lo stanno prendendo o mettendo in culo (mi fermo di botto), quelli che la prendono per le lunghe (hanno il cazzo raggrinzito, il che andrebbe bene subito ma mai dopo che ti hanno fatto penare un trimestre per calargli le mutande), quelli che prima di prendertelo in bocca devono riempirsela di figa per depistarsi da quel rimasuglio di testa che ancora si ritrovano malgrado tutto, i drogati, gli ex drogati, gli ubriachi, gli alcolizzati, i preti, quelli che odiano le donne, i sesquipedali che si credono intellettuali o bisessuali, quelli che stanno ancora estinguendo un mutuo e gli indebitati tutti, quelli che non si sa bene perché alla terza frase ti fanno sapere che tengono famiglia e sono disoccupati, quelli che devono fare in tre, meno male che non mi viene in mente alcuna altra categoria, ho finito il nichel; al rientro in albergo, secondo la compiacente rassicurazione dello staff, l’impianto dell’aria condizionata è stato riparato, salgo al piano, e come entro in quella pignatta a chiusura stagna di camera mi sale al naso un che di stufato d’asino e cipolle ammuffiti, accendo il televisore, si soffoca davvero più di prima, sono le 13.10, non posso cuocere a vapore qui dentro, mi assale la trovata più stupefacente e orrenda: devo trovare immediatamente un altro posto dove completare e vincere lo sconforto di non essere alienato come gli altri terrestri. Sì, voglio vedermi la partita Italia-Messico! Prendo il telefono, anzi, no, rimetto giù la cornetta, mi rivesto attento a non scambiare un paio di mutande moderne per pantaloncini corti, scendo di persona giù in portineria e protesto a voce alta senza alcuna paura, perché la grandiosa forza della Francia sta in gran parte nel suo essere in difetto e farti sentire, o straniero, prima un privilegiato per godere tanto immeritatamente dei suoi servigi e poi in colpa se non sono all’altezza dell’immagine che vuole darne per spennarti alla grande. Dalla réception mi si dice che non ci sono problemi: mentre il tecnico ritorna a sistemare l’impianto, «sempre che non sia già sistemato e che si tratti di una Sua insofferenza», posso «godermi la partita dal grand écran all’ottavo piano», non sapevo «che all’ottavo piano, al bar del solarium, c’è un grand écran per seguire le partite del mondiale in compagnia»?
Alla terrazza del gremitissimo piano in questione con un’umida fioriera in cemento armato qui chiamata piscina, solo due persone, io e un ciondolone mica male, una specie di tuareg occidentale con la barba di un paio di giorni e in infradito, alle 13.25 ci stacchiamo, vestiti di tutto punto, dalla folla in panciolle a prendere il sole per piazzarci all’interno davanti allo schermo gigante che altro non è che un comune televisore a diciannove pollici vecchio modello con l’audio piuttosto basso anche al massimo, tipo sottofondo da piano bar, forse per non disturbare la cagnara che da soli fanno i braccialetti, le collane, gli anelli tambureggiati sui bordi delle sedie e sui tavoli, le cavigliere, gli orecchini e i piercing multipli a campanaccio, gli ori intorno ai ventri francesizzati delle clienti più in vena di esotismo; altri due ceffi, dal fisico massiccio, occhiali scuri a specchio, taglio di capelli all’umberta però con tutte le corte ciocche a cuspide, giacca e pantaloni e cravatta neri, sostano dove ancora li ho visti uscendo dall’ascensore, lì in piedi sotto due enormi salvagente a forma di aragosta che pendono dal soffitto, una mano dietro la schiena, forse a contatto di una fondina, diffondono un profumo di vetiver stantio sudando impassibili, non cercano neppure di darsi le arie più strampalate che di solito si danno le guardie del corpo in incognito, ci sarà qualche grosso papavero o oca di panza che sguazza nell’umida fioriera là in terrazza; io sono in ciabatte di plastica smangiate sui bordi, camicia appiccicosa e shorts, sempre che, con quei due bottoncini ti-vedo-non-ti-vedo, non siano infine delle mutande senza mutande sotto, i capelli setolosi per via del gran da fare con i miei troppi bagagli che mi sono portato in camera da me, mentre il magrebino ha più l’aspetto di un inserviente strafottente che di un ospite in grado di permettersi questo standard, e certo solo due stravaganti rappresentanti di razze inferiori come noi possono avere la fantasia di continuare a guardare un campionato dal quale, lamenta ora lo speaker, gli Imbattables, i Bleus de France, sono bell’e che eliminati con zero vittorie e zero goal. Si sente che noi due, così dimessi e forestieri, stiamo sui coglioni sia alle negre americane in pareo che ormai se la tirano come delle comuni mortali ariane sia ai giapponesi in calzoncini di stretch che mettono in mostra solo sessi come stoppini, mai una candela, sia ai due meticci del personale in pista che continuano a camminarci intorno gridando gli ordini verso il retro dove ignoti schiavi del colonialismo franco-africano acconciano delle Grandes Salades Pays au Saumon Fumé, perché i menu francesi lo debbono sempre specificare che la loro insalata è di un orto di terra quindi di campagna, mica del petrolchimico come quelle altre europee, e tutti che per i convenevoli e i tre bacini di saluto sostano di preferenza davanti allo schermo unto e bisunto mentre una radio commerciale a tutto volume, qui umilmente chiamata émission par câble, squarcia i timpani con una nenia inaudita, September song, che con soverchiante superbia pretende di sbattermi fuori luogo, fuori stagione, fuori tempo e fuori di me, perché oltretutto sto facendo anche la figura del fanatico di calcio, quanto meno dell’intenditore, anzi, del provocatore provocato. Ma se non so nemmeno che cosa significhi “c.t.”!
E neppure oserò mai chiederlo.
Che ci faccio a Nizza? Se solo lo sapessi! Mi sono messo alla guida della mia auto per andare a mangiare una pizza verso mezzanotte e mezza e una consonante tira l’altra e eccomi qui.
C.t.: “t” sta di sicuro per “trans”, ma “c”? Nooo! Questo è davvero troppo per il mio povero cuore.
Primo tempo: l’immagine scorre da destra a sinistra sui torsi dei giocatori messicani con la destra di taglio a altezza del cuore e poi, scorrendo la telecamera da sinistra a destra, rivela che sotto ogni gomito c’è un bambino con gli occhi a mandorla e in tutina gialla, marzialità e tenerezza, guerra e necessità di pace che in un baleno mi ric...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. Citazione
  4. Bisogna avere i coglioni per prenderlo in culo
  5. Pieve di Lombardia, un giorno di giugno 2002
  6. 9 maggio 2005, Pieve di Lombardia
  7. Bibliografia