PER CHIARIRE E APPROFONDIRE
I. Esperienze chiave
Le esperienze personali possono lasciare un segno più duraturo delle conoscenze generali, per quanto profonde. Ciò vale soprattutto per le esperienze che si collocano sul confine tra la vita e la morte. A questo proposito, vorrei raccontare tre episodi legati a fasi diverse della mia esistenza – gli anni Cinquanta e Ottanta, e il primo decennio del XXI secolo –, senza i quali la mia posizione attuale riguardo all’eutanasia risulterebbe incomprensibile.
1. Mio fratello Georg
L’11 ottobre 1954, un giorno dopo la mia ordinazione sacerdotale, celebro la prima messa nelle grotte della basilica di San Pietro a Roma, in presenza dei miei genitori, delle mie cinque sorelle e di pochi amici. Mio fratello Georg, di 22 anni, è in leggero ritardo. È svenuto nel viaggio in autobus verso il Vaticano. Per sovraffaticamento ed esaurimento, si dice, ragion per cui ci convinciamo tutti a non prendere la cosa troppo sul serio. Dopo tre settimane di riposo presso alcuni nostri amici di Ferrara, viene accompagnato a Zurigo dal professor Krähenbühl, un’autorità mondiale in fatto di chirurgia cerebrale. Responso: tumore al cervello tra cervelletto e tronco, non operabile. Seguono altri ricoveri in ospedale con radio e chemioterapia – tutto inutile. Alla fine viene dichiarato incurabile, lui che era sempre così pieno di forze e di buonumore e che, per il suo lavoro in banca a Sursee e Parigi, era preparato al meglio per rilevare il negozio paterno. Il suo stato peggiora sempre più. Un arto dopo l’altro, un organo dopo l’altro perdono funzionalità. È un lento e terribile processo mortale: un appesantimento sempre maggiore di cuore, circolazione e respirazione che dura alcune settimane, mentre Georg è sempre cosciente. Infine, un forte ansimare per qualche giorno finché – quasi un anno esatto dopo il primo accesso – mio fratello soffoca per un aumento d’acqua nei polmoni. Come frase per il ricordo mortuario ho scelto un versetto dal libro della Sapienza (4,13): «Giunto in breve alla perfezione, ha conseguito la pienezza di tutta una vita».
E tuttavia: era proprio necessario? È davvero questa morte «data da Dio», da Lui «disposta»? È quel che mi chiedo. No, l’uomo non deve incondizionatamente prendere tutto ciò che accade «con sottomissione a» Dio, come fino in fondo «voluto da Lui» o addirittura «a Lui gradito». Questa convinzione si rinsalderà in me nel corso dei decenni. E anche la certezza assoluta di non voler morire come mio fratello. Non voglio nemmeno che altre persone si spengano così (cfr. Una battaglia lunga una vita, pp. 109 ss.).
2. Le esperienze ai confini della morte: Elisabeth Kübler-Ross
Il morire, la morte e ciò che viene dopo. Per la ricerca scientifica e per me personalmente, questa tematica è legata al nome della docente svizzera di psichiatria Elisabeth Kübler-Ross (1926-2004), poi trasferitasi a Escondido, in California. Le sue ricerche, raccolte nel volume La morte e il morire (1969; trad it. Cittadella, Assisi 1976) e basate sulle testimonianze di oltre 2.000 pazienti in fin di vita, hanno suscitato clamore in tutto il mondo. È stata la prima a individuare cinque stadi – spesso sovrapposti – lungo il cammino verso la morte: rifiuto, poi rabbia, contrattazione, depressione e infine accettazione. In seguito si è occupata attivamente delle esperienze ai confini della morte. Anche altri autori come Raymond A. Moody ed Eckart Wiesenhütter raccontano le esperienze di persone annegate, assiderate e precipitate che poi sono tornate in vita. Esperienze di individui, dunque, che sono stati dichiarati clinicamente morti e che riferiscono episodi molto simili: l’uscita dal corpo, la percezione di luci e di voci eccetera.
Il 7 maggio 1981 durante la mia prima lezione dello Studium generale intitolata «Vita eterna?», sono restio a esprimere un giudizio su questi fenomeni, documentati da testimonianze affidabili su più fronti. Non li nego ma cerco di interpretarli. Tuttavia, fatti analoghi sono osservabili anche in altre condizioni psichiche particolari, per esempio il sogno, la schizofrenia o l’assunzione di allucinogeni come l’LSD o la mescalina. Allo stesso tempo, queste esperienze positive vengono ridimensionate da episodi spaventosi e angoscianti, come nel caso delle intossicazioni. A ogni modo, forse è possibile spiegarli dal punto di vista puramente scientifico e medico, per esempio come meccanismi di difesa psicologici del cervello e come reazioni del sistema nervoso centrale, una specie di ultimo «respiro di ricambio» del cervello moribondo.
Preferisco astenermi dal giudicare i dettagli scientifici. Per la mia analisi teologica è determinante il fatto che nessuno degli individui «clinicamente morti» abbia vissuto il decesso biologico, la perdita irreversibile delle funzioni vitali e la decomposizione degli organi e dei tessuti. In altre parole, queste persone hanno vissuto la morte come conclusione definitiva della vita solo «quasi» ma «non realmente». Si sono avvicinate alla soglia della morte, ma non l’hanno varcata. Questi episodi occupano gli ultimi minuti o secondi prima della morte, ma non dimostrano l’esistenza di una vita dopo la morte. Tuttavia fanno riflettere. La loro denominazione precisa è esperienze di premorte.
Su questo punto non sono d’accordo con Elisabeth Kübler-Ross, che vorrebbe vedere nelle esperienze di premorte la prova di una vita dopo il decesso. Ciò non mi impedisce però di invitarla all’Università di Tubinga il 30 maggio 1983 per una lezione, cosa che posso fare senza dover chiedere l’autorizzazione a nessuno, perché sono il direttore dell’Istituto per la ricerca ecumenica, che ormai è indipendente dalla facoltà. Al mio posto, nessun’altra facoltà di medicina o di teologia avrebbe preso un’iniziativa così audace. Per i medici, la Kübler-Ross è troppo poco «scientifica» e costringe a prendere posizione su una questione di fede. Per i teologi, invece, è troppo empirica e troppo poco «teologica».
Ciononostante il prof. Walter Frommhold, direttore della clinica radiologica universitaria, è disposto a partecipare alla discussione insieme a me. L’afflusso di pubblico è incredibile. Quando saliamo la grande scalinata del salone delle feste, ci vengono incontro enormi masse di persone, tanto che chiedo a qualcuno quale lezione abbia avuto luogo. «Volevamo andare nel salone delle feste o nell’aula magna per ascoltare la signora Kübler-Ross, ma è tutto pieno» mi rispondono. Le spiegazioni dell’oratrice, che questa volta prendono spunto dai disegni infantili, sono istruttive e sorprendenti. Il dibattito, però, diventa difficoltoso. Le obiezioni del radiologo vengono accolte dai sostenitori della Kübler-Ross con commenti indispettiti. In ogni caso, la serata si rivela un’esperienza cruciale e dà un notevole contributo alla discussione.
L’inverno successivo, quando la televisione svizzera mi invita a una «chiacchierata di Capodanno» della durata di 45 minuti con Elisabeth Kübler-Ross per il 19 dicembre 1982, interrompo le vacanze di Natale a Lech e vado a Zurigo (cfr. La mia battaglia per la libertà, pp. 1057 ss.). In quella sede, non assecondo tuttavia la richiesta della presentatrice, che mi suggerisce di «mettere alle strette» la studiosa. Ribadisco chiaramente che a mio avviso non è opportuno scorgere nelle esperienze di premorte la prova dell’esistenza di una vita eterna, ma non mi sembra affatto corretto fare il terzo grado, come un avvocato, a questa donna modesta e altruista, soprattutto in considerazione di tutti i successi che ha collezionato. È bene che il pubblico ascolti le mie controargomentazioni ma che alla fine decida da solo. Per me, come teologo, è importante soprattutto che si continui a discutere del morire e della morte. Il critico della «Berner Zeitung» (6 gennaio 1983) parla di un «grande momento»: «Un confronto straordinariamente serio, condotto in modo assai personale, con profonda umanità».
3. L’amico perduto: Walter Jens
Con il mio collega e amico di Tubinga Walter Jens, letterato di fama, parlavo spesso della nostra morte. Insieme, come ho già accennato nell’intervista, nel semestre estivo del 1994, nell’ambito dello Studium generale dell’università, abbiamo organizzato una doppia lezione intitolata «Morire con dignità: una difesa della libera scelta».
Sorprendentemente, tuttavia, dieci anni dopo si verifica una svolta drammatica nello stato di salute di Walter Jens. A partire dal 2004, a causa di un’angiopatia cerebrale – ossia una malattia dei vasi sanguigni del cervello –, cade in una condizione di demenza che, come il morbo di Alzheimer, peggiora rapidamente. Una situazione pressoché insostenibile soprattutto per la moglie Inge, con cui è felicemente sposato da 57 anni. Quando la malattia gli ruba la capacità di ricordare, di ragionare e di parlare, suo figlio, un giornalista, scrive un commovente articolo per la «Frankfurter Allgemeine Zeitung», in cui spiega quanto siano terribili gli effetti di questa patologia. Senza argomentazioni convincenti, ne imputa addirittura la comparsa al fatto che suo padre abbia voluto rimuovere il periodo in cui, a 19 anni, verso la fine della guerra, aveva aderito al partito nazionalsocialista (per questa problematica cfr. il libro di Malte Herwig, Die Flakhelfer, DVA, München 2013, sui giovanissimi membri del Partito nazista divenuti poi democratici di punta della Germania). Poiché, essendo svizzero, mi sono risparmiato gli orrori della guerra e del nazismo, preferisco non esprimere giudizi sulle motivazioni dei miei coetanei (Hans-Dietrich Genscher, Günter Grass, Dieter Hildebrandt, Walter Jens, Walter Scheel, Martin Walser eccetera).
Sgomento, faccio visita a Walter Jens il 7 marzo 2008, giorno del suo 85° compleanno, insieme a Karl-Josef Kuschel, che per l’occasione gli regala il suo libro Walter Jens, Literat und Protestant, in cui presenta per la prima volta la produzione letterario-teologica di Jens inserendola nel giusto contesto. Una fotografia che ci è stata scattata in quell’occasione mostra Jens in condizioni dignitose, con un sorriso riconoscente. È così che dovremmo ricordare questo grande retore, ormai messo a tacere definitivamente nel 2013.
La moglie Inge, una filologa famosa soprattutto per l’accuratissima edizione dei diari di Thomas Mann, ancora nel 2003 aveva pubblicato con lui il best-seller Frau Thomas Mann. Per accontentare l’opinione pubblica che vuole sapere la verità, ha il coraggio di rilasciare un’intervista sulle condizioni di Walter, suscitando profonda commozione in molti lettori con la sua sincerità e la sua umanità piena di tatto: «L’uomo che amavo non c’è più…». Inge, che ha 81 anni, spiega come sia stata costretta ad assistere al lento «svanire» di suo marito in un mondo cui lei riesce ad accedere di rado, se non addirittura mai: «La mente se n’è andata, ma la sensibilità esiste ancora; è spaventoso. Non l’avrei mai creduto possibile».
Pur essendo un visitatore abituale, posso solo immaginare quanto sia difficile la vita di tutti i giorni con i malati di demenza. Nemmeno gli ultimi film sull’argomento osano mostrare le conseguenze più spaventose di questo disturbo (ciò è indubbiamente un punto a loro favore). Anche il morbo di Alzheimer è tutt’altro che innocuo, perché può distruggere totalmente l’individuo sul piano psichico e fisico e mettere a dura prova i familiari per anni. Lo ribadisco nel libro Della dignità del morire ricorrendo a una citazione del famoso chirurgo Sherwin B. Nuland, che ripeto nel capitolo III di questo volume. Secondo i dati della Deutsche Alzheimer Gesellschaft, nel 2012 c’erano 1,3 milioni di malati di Alzheimer solo in Germania.
Quando la interrogo sulla possibilità dell’eutanasia, Inge Jens ribatte: «Riusciresti a ucciderlo in questo preciso istante?». «No, non si può.» Chi sono io per decidere? Avrebbe dovuto farlo Walter nella fase iniziale della malattia. Così ora sua moglie è costretta a osservare: «Sì, ha ripetuto per anni che voleva decidere liberamente della fine della propria vita, ma si è lasciato letteralmente sfuggire il momento giusto». Poi aggiunge: «Prego che un mattino non si svegli più. Se posso esprimere un desiderio, è che possa morire di infarto, di ictus o di qualunque altra cosa lo uccida rapidamente, senza che se ne accorga». Torno a trovare Walter la sera prima del suo 90° compleanno (6 marzo 2013). Sono già passati dieci anni dalla comparsa della demenza. È deprimente. «Non possiamo guardare nella sua testa, e da anni non è più in grado di dirci cosa gli passa per la mente. Per chi l’osserva dall’esterno è una vita triste. Posso solo sperare che per lui lo sia un po’ meno» commenta Inge.
Così vedo di persona cosa accade a migliaia e migliaia di pazienti in tutto il mondo. Ma devo anche chiedermi dove Walter Jens avrebbe trovato, in Germania, un medico che potesse aiutarlo a morire. Sarebbe dovuto andare in Svizzera e rivolgersi a un’organizzazione specializzata in eutanasia. A volte mi infurio quando leggo sui giornali i pretesti e le affermazioni errate di medici, giuristi ed ecclesiastici che intralciano un’accurata regolamentazione legale di questa situazione insostenibile. Dopotutto, esistono innumerevoli casi di persone che sono stanche di vivere, anche in luoghi dove l’assistenza umana e la medicina palliativa non mancano. «È terribile… Vorrei morire.» Durante le mie visite ho udito più volte queste parole dalle labbra di Walter Jens. Purtroppo non c’è nessuno che lo aiuti. «Mio Dio, perché mi hai abbandonato…» (cfr. Una battaglia lunga una vita, pp. 1064 ss.).
Allo stesso tempo, però, sento di un medico che ha acquistato qua e là farmaci letali per sua madre, che soffriva da anni e che chiedeva continuamente la morte, nella speranza di regalarle una fine tranquilla. Come molte altre iniziative in questo campo, una decisione illegale ma moralmente legittima. Mi sento assalire dalla tristezza quando, nel luglio del 2012, apprendo che una donna di 72 anni, affetta da un tumore del pancreas in fase terminale, è stata ricoverata nel reparto di medicina palliativa dell’ospedale e alle quattro del mattino si è dovuta buttare dalla finestra per avere finalmente la possibilità di morire. Negare l’eutanasia, mi domando, non è forse un abuso nei confronti del moribondo quanto spingerlo verso la morte?
A questo punto ho descritto le mie tre esperienze chiave e chiarito la mia posizione nei confronti della morte e dell’eutanasia, che nelle pagine seguenti sarà analizzata, sfumata e motivata attraverso una serie di argomentazioni di stampo filosofico-giuridico e spirituale-religioso. Inizierò con l’esposizione sintetica di alcune regole fondamentali, estremamente importanti per prendere decisioni nei casi specifici.
II. Norme di etica della medicina
1. Per un’etica dell’umanità
In campo medico vale, in linea di massima, la stessa morale applicabile agli altri ambiti della vita, per esempio la politica, l’economia, la cultura, l’educazione. Esistono alcune regole etiche elementari valide per tutti gli uomini e le istituzioni. In particolare, c’è un primo principio fondamentale dell’etica che, se deve avere validità universale, va formulato in termini assolutamente generali. L’unica versione possibile è dunque: «Ogni uomo deve essere trattato in maniera umana». Questo principio fondamentale dell’umanità costituisce la base della Dichiarazione per un’etica mondiale del 1993, già menzionata nella premessa. Le parole «ogni uomo» vanno intese in modo categorico: uomo e donna, bianco e nero, ricco e povero, giovane e vecchio, sano e malato. Al principio etico dell’umanità fa eco l’articolo 1 della Costituzione della Repubblica federale tedesca: «La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla».
Ma cosa vuol dire «umano»? La definizione in negativo appare subito chiara: «umano» significa quantomeno non disumano, non bestiale. Siamo tutti d’accordo nell’affermare che è disumano torturare i prigionieri, abusare di bambini e ragazzi, ma anche utilizzare le persone come semplice mezzo allo scopo di effettuare esperimenti medici o biologici.
La parola «umano», tuttavia, si può definire anche in senso positivo. In Progetto per un’etica mondiale (1990; trad. it. Rizzoli, Milano 1991) l’ho parafrasata come segue: «L’uomo deve diventare più di quello che è: deve diventare più umano. Buono per l’uomo è ciò che gli permette di conservare, promuovere e portare a compimento il proprio essere uomo – e in maniera diversa da come è finora avvenuto» (p. 50). Oggi il medico è nella posizione invidiabi...