DIEGO ODIAVA AMBROGINO, PUR SENZA darlo a vedere.
Ambrogino era il robot tagliaerba che pascolava costantemente nel giardino davanti a casa. Del parco sul retro che digradava verso il bosco si occupava esclusivamente il nostro tuttofare con la motofalciatrice, ma nel tratto pianeggiante, tra il cancello d’ingresso e la porta della villa, Diego entrava in concorrenza con il robottino che Regina aveva comprato di slancio in uno dei suoi shopping selvaggi e pretendeva sempre all’opera.
Mi ero affezionato immediatamente ad Ambrogino. Studiavo affascinato le sue traiettorie per cercare di capire se ci fosse una logica nei suoi movimenti automatizzati o addirittura una qualche forma di libertà. Fossi riuscito a sorprendere uno scarto dalle solite diagonali tracciate sull’erba o una variazione rispetto al lavoro del giorno prima, avrei dimostrato che Ambrogino non eseguiva semplicemente gli ordini delle schede programmate che aveva nella pancia, ma che era in grado di pensare da solo. A quel punto poteva diventare un mio amico a tutti gli effetti. Ero assolutamente convinto che prima o poi avrei trovato un modo di comunicare con quell’alieno.
Ambrogino usava una tattica di battaglia da capo indiano. Andava avanti e indietro incrociando le sue linee di taglio in modo da isolare piccoli cespugli qua e là, come i sioux quando accerchiano una carovana di diligenze, poi attaccava a uno a uno i cespugli e li distruggeva senza pietà.
Tra l’altro, il robottino eseguiva un lavoro pulito perché le sue lame sminuzzavano l’erba in pezzetti minuscoli. Non c’era bisogno di raccoglierla nei sacchi di plastica e portarla in discarica come con le motofalciatrici tradizionali.
L’unico inconveniente era che Ambrogino poteva incastrarsi in una siepe e le sue ruote affondare nella terra molle, a quel punto restava immobile e impotente in attesa di soccorso, come una tartaruga a pancia in su. Ecco, era in quei casi che intuivo quanto Diego lo detestasse. Gli lanciava lampi di compassione o di compiacimento, a seconda dell’umore, ma non andava mai a sbloccarlo per rimetterlo all’opera.
Diego era un buon amico del nonno. Suo figlio Fausto, prima di finire alla CaMerate, aveva giocato a rugby in serie B.
Era un armadio a due ante con un barbone folto che gli faceva apparire la testa capovolta: i capelli in basso e il mento pelato in alto. Ogni tanto veniva a fare dei lavoretti anche da noi. Lavori di forza, soprattutto. Gli ho visto trasportare una lavatrice da solo e maneggiarla come fosse un fustino di detersivo.
Quel pomeriggio aiutai Diego a rasare il prato sul retro della villa. Gli tenevo aperti i sacchi mentre li riempiva con l’erba tagliata e li portavo al pick-up che li avrebbe trasferiti in discarica. Mi piaceva sentirmi utile e sudare a torso nudo come un uomo che lavora. In cielo bolliva un sole feroce che volava come un avvoltoio. Se solo avessimo tagliato l’erba un centimetro di troppo, ce l’avrebbe bruciata e ingiallita, ma Diego non era il tipo che sbagliasse a regolare le lame di una falciatrice.
Poi di colpo la casa si svuotò: Regi andò a lavare la macchina, papà caricò sull’hummer giallo la sacca delle mazze da golf e partì per la Svizzera, mamma fu richiamata d’urgenza all’ospedale di Monza. Uscirono quasi tutti insieme, sembrava un’esercitazione antincendio.
Così mi ritrovai come un attaccante che di colpo vede la porta spalancata davanti a sé: allora faccio gol… Allora vado dal nonno.
Avevo una gran voglia di scoprire come avesse fatto quel bambino dai polmoni bucati a diventare un tatuaggio, una maglietta di Regi, un rivoluzionario, un eroe con migliaia di foto su Google.
Tra l’altro sarei arrivato giusto in tempo per l’orario delle visite, senza il bisogno di dribblare la rossa al bancone e quell’hummer bianco a forma di suora. Quando andava in Svizzera a parlare dell’azienda, papà si fermava sempre almeno un paio di giorni e si portava dietro la sacca del golf perché ci giocava con il padrone della CaMerate, un uomo anziano dalla testa perfettamente sferica e pelata come una palla da bowling, che ho visto una volta sola e che ricordo soprattutto con il naso: aveva addosso un profumo intenso, forse un’acqua di colonia che sapeva di collutorio da dentista.
Papà adora il golf. Si era fatto costruire una buca d’allenamento nel parco che Diego curava come un barbiere, tagliando i fili d’erba con le forbici. La pallina ci scivolava sopra come su un tappeto verde.
Trovai nonno Riccardo in corridoio che camminava piano spingendo una specie di attaccapanni a rotelle. Non aveva più fili nel naso, solo uno nel braccio che scendeva da una busta trasparente appesa all’attaccapanni. Mi sembrava anche più colorito. Una bella faccia, insomma. A parte il naso, che era sempre il solito, schiacciato come un chiodo ripiegato a martellate, tanto che gli occhiali faticavano a stargli su. Io guardavo quel naso con orgoglio, era la prova che mio nonno da giovane era stato un pugile, più inconfutabile delle foto in bianco e nero e delle medaglie che teneva in casa.
«Ehi, nonno. Sembri una di quelle ballerine che danzano aggrappate a un palo…» scherzai.
Nonno Riccardo si illuminò e mimò allegro qualche passo di danza.
Cominciava a diventare un mistero l’abilità magica che aveva suor Giuseppina di spuntare dal nulla, pur con tutta la sua mole, nel momento più imbarazzante.
«Oltre ai terroristi anche le ballerine appese ai pali… Andiamo bene» commentò indignata. «Siamo sulla strada della santità, vedo.»
«Semplicemente sulla strada giusta» precisò il nonno. «Non si preoccupi, suor Peppa.»
«Mi preoccupo eccome, a cominciare dalla sua salute, che è il mio mestiere. Se quando ha finito di ballare, si rimette a letto, forse ci sono speranze che possa uscire da qua sulle sue gambe e non dentro una cassa di legno.»
«Grazie per l’ottimismo, suor Peppa. Intrattengo il mio giovane ospite per qualche minuto, poi mi ritiro sotto le lenzuola.»
«Signor Riccardo, se continua a chiamarmi Peppa, la prossima iniezione gliela faccio con un ago per elefanti e la sentiranno barrire fino a Lecco» concluse minacciosa la suora prima di allontanarsi spingendo il carrello dei farmaci.
Io e il nonno ci guardammo piegando in basso gli angoli della bocca.
Ci spostammo al boschetto di sedie bianche davanti all’ampia vetrata che dava sul piccolo lago dei cigni.
«La prossima volta che vieni ci facciamo una passeggiatina fuori e magari anche una gita in barca» promise il nonno.
Non potevo immaginare che lo avremmo fatto per davvero.
Passò un uomo alto dalla pelle scura e la barba grigia, che indossava una lunga tunica bianca. Salutò il nonno con un inchino appena accennato.
Il nonno gli rispose: «Azul».
«Si chiama Azul?»
«No, azul è il saluto dei Tuareg. Lui si chiama Amghar che significa “capo”. Amghar discende da una nobile famiglia di Tuareg che un tempo viveva nel deserto del Sahara e lo attraversava in groppa ai cammelli. Guarda con che eleganza cammina, il Capo. Tenesse in testa una brocca d’acqua, non verserebbe una goccia.»
Chiacchierammo un po’ del Mondiale e delle cose di casa, poi riannodai il filo con il piccolo Furibondo senza fiato.
«A volte vince lui, ma a volte vince l’asma ed è costretto a restarsene a casa» cominciò a raccontare il nonno. «Così Ernesto impara a giocare a scacchi e, soprattutto, ad amare i libri. Legge, legge, legge… Legge tantissimo.»
«Che cosa?»
«Di tutto. Romanzi, libri di avventura, di storia, di viaggi… E più legge del mondo, più gli cresce la voglia di scoprirlo. Più deve starsene in casa con il fiato corto, più scalpita per correre fuori a vedere le cose che scopre nei libri. È logico, no? Pensaci: se hai un tesoro puoi anche sperperare dei soldi, ma se hai solo cinque euro in tasca cerchi di spenderli nel modo migliore. Ernesto ha cinque euro di fiato e non vuole sprecarlo. Infatti, verso i vent’anni, si mette in viaggio con il suo amico Alberto, che studia medicina come lui, per scoprire l’Argentina e il Sudamerica.»
Questa non me l’aspettavo. «Il Che era un medico come la mamma?»
«Sì, anche perché ha una nonna ammalata di asma, a cui vuole bene quasi quanto tu ne vuoi a me… Quasi, ho detto. Quando la nonna Ana muore, il Che decide di vendicarla, cioè di studiare e di combattere l’asma e le allergie con tutte le sue forze. Il Furibondo è fatto così: attacca sempre. Monta su una motocicletta con il suo amico Alberto e partono alla scoperta del mondo. Battezzano la moto con un nome eroico: la Poderosa. E la Poderosa è eroica per davvero. Divora chilometri su strade impossibili. Un giorno va a sbattere contro una mandria di vacche perché i due amici hanno bevuto un po’ troppo, un’altra volta deve ripartire a razzo per mettere in salvo Ernesto che, in una festa di paese, ha fatto qualche complimento di troppo a una bella ragazza già fidanzata…»
«Se la spassano, insomma. Me lo farei volentieri un viaggio del genere con Leo.»
«Sicuro? Sappi allora che per fare un viaggio del genere devi passare qualche giorno in un villaggio di lebbrosi.»
«Cosa c’entrano i lebbrosi?»
«C’entrano perché Ernesto e Alberto, appena arrivano in Perù, vanno a visitare subito il lebbrosario di Huambo, che è un vero inferno di sofferenza. Il medico passa una volta al mese, se passa… Quei poveracci sopravvivono in condizioni disumane, isolati, lontani dalla gente che li emargina per paura del contagio. I lebbrosi sono gli ultimi degli ultimi. Il Che, giovane dottore, passa alcuni giorni a curarli, a medicarli. Ha cinque euro di fiato in tasca e quello gli sembra un bel modo per spenderli: aiutare chi soffre, chi ne ha più bisogno, gli ultimi degli ultimi. Nonostante soffra anche lui. Gli viene un attacco d’asma terribile in quei giorni. Alberto deve curare l’amico con alcune iniezioni di adrenalina, ma teme che la cosa possa finire male. Invece il Furibondo si riprende, e cosa fa per rispondere alla malattia?»
«Attacca!»
«Esatto. Per raggiungere il lebbrosario, il Che deve attraversare ogni volta il Rio delle Amazzoni in barca. Stavolta decide di farlo a nuoto. Sono quattro chilometri di bracciate in diagonale. Alberto prova a fermarlo, teme che possa restarci lì, in mezzo al fiume, per un nuovo attacco d’asma. Ma quando il Furibondo decide di attaccare è inarrestabile. Si tuffa e nuota contro la corrente. Alberto lo segue da riva con il cuore in gola. Il Che arriva all’altra sponda boccheggiando come un pesce, stremato, con le braccia a pezzi, ma strafelice. Ha vinto lui.»
«Il Che guariva i lebbrosi» informai suor Giuseppina, che proprio in quel momento transitava con il carrello dei farmaci.
«Certo, e ridava la vista ai ciechi e le gambe agli storpi» rispose senza neppure fermarsi, allontanandosi come un’enorme nuvola bianca del Resegone.
«I lebbrosi in qualche modo ricambiano la generosità dei due ragazzi argentini» riprese a raccontare nonno Riccardo. «Costruiscono e regalano loro una zattera di legno, con una piccola capanna di rami al centro, che Alberto ed Ernesto battezzano Mambo Tango.
Sul Mambo Tango discendono per tre giorni lungo il Rio delle Amazzoni, poi si addormentano, vanno alla deriva sul fiume e si ritrovano in Brasile. In canoa raggiungono la cittadina di Leticia, in Colombia, dove si procurano un lavoro curioso per guadagnare un po’ di soldi.»
Alla parola Colombia pensai a Blanca.
«Quale?» domandai.
«Allenatori di calcio. A Leticia conoscono il presidente dell’Independiente Sporting e si offrono per guidare la squadra. Fanno subito la rivoluzione: cambiano tattica, passano alla marcatura a uomo. L’Independiente, che andava malissimo, comincia a fare risultati fino a conquistare la finale del campionato. In finale, Alberto segna un gol; Ernesto, che gioca in porta per risparmiare fiato, para un rigore. Un trionfo. I due giovani argentini diventano gli eroi di Leticia, tutti vorrebbero che si fermassero ancora, ma devono rimettersi in viaggio per raggiungere il Venezuela. Il Che ha questa febbre che lo costringe a viaggiare, a spostarsi sempre, quest’ansia di vedere posti nuovi, conoscere la gente e i suoi problemi. Sai qual è il suo motto? Poco bagaglio, gambe for...