1. IL LIBRO DA SEI PENNY
MARZO
CAPITOLO I
Scrivo seduta nel lavandino della cucina. O meglio, i miei piedi sono dentro il lavandino; il resto è sullo sgocciolatoio, che ho foderato con la coperta del cane e il copriteiera. Non posso dire di stare proprio comoda, e c’è un odore deprimente di sapone fenico, ma questa è la sola parte della cucina in cui entra ancora la luce del giorno. E ho scoperto che stare seduti in un posto dove non si è mai stati seduti prima può ispirare: ho scritto la mia poesia di gran lunga migliore seduta sul pollaio. Anche se perfino quella non è una gran poesia. Ho deciso che le mie poesie sono così brutte che non devo più scriverne.
Le gocce colano dal tetto dentro il barile dell’acqua vicino alla porta sul retro. La vista dalle finestre sopra il lavandino è proprio molto tetra. Al di là del giardino fradicio nel cortile ci sono le mura in rovina sull’orlo del fossato. Al di là del fossato, i paludosi campi arati si estendono fino al cielo plumbeo. Mi dico che tutta la pioggia che abbiamo avuto di recente fa bene alla natura, e che la primavera si librerà su di noi da un momento all’altro. Cerco di vedere le foglie sugli alberi e il cortile pieno di sole. Purtroppo, più lo sguardo della mente vede verde e oro, più il tramonto sembra svuotato di ogni colore.
Mi è di conforto distogliere lo sguardo dalle finestre e puntarlo invece verso il focolare della cucina, vicino al quale mia sorella Rose sta stirando – anche se è evidente che non può vederci bene, e sarà un peccato se brucia la sua unica camicia da notte. (Io ne ho due, ma una non ha il dietro.) Rose ha un aspetto particolarmente attraente alla luce del fuoco, perché è una persona rosea; la sua pelle ha un riflesso rosa e i capelli sono d’oro rosato, leggerissimi e piumosi. Anche se sono piuttosto abituata a lei, so che è una bellezza. Ha quasi ventun anni ed è molto amareggiata con la vita. Io ho diciassette anni, sembro più giovane, mi sento più vecchia. Non sono una bellezza ma ho un viso armonioso.
Ho appena fatto notare a Rose che la nostra situazione è davvero romantica: due ragazze in questa casa strana e solitaria. Ha risposto che non ci vede niente di romantico nel fatto di essere rinchiusa in una rovina cadente circondata da un mare di fango. Devo ammettere che casa nostra è un posto irragionevole per viverci. Eppure la amo. La casa vera e propria è stata costruita al tempo di Charles II, ma è stata fondata su un castello del quattordicesimo secolo che era stato in parte abbattuto da Cromwell. Tutta la nostra parete est era parte del castello; comprende due torri rotonde. La portineria è intatta e una parte delle vecchie mura ancora a tutta altezza la unisce alla casa. E la Torre di Belmotte, tutto ciò che rimane di un castello ancora più antico, si erge ancora sulla sua collinetta qui vicino. Ma non cercherò di descrivere nel dettaglio la nostra particolarissima casa finché non avrò più tempo di quanto ne abbia ora.
Scrivo questo diario in parte per fare esercizio di scrittura veloce – l’ho appena imparata – e in parte per insegnare a me stessa a scrivere un romanzo: intendo catturare tutti i nostri personaggi e metterci delle conversazioni. Farebbe bene al mio stile filar via senza troppe riflessioni, perché finora le mie storie sono state molto rigide e impacciate. La sola volta che il papà mi ha fatto l’onore di leggerne una, ha detto che ero riuscita a combinare magniloquenza e uno sforzo disperato di essere divertente. Mi ha detto di rilassarmi e lasciare che le parole mi venissero fuori.
Vorrei conoscere un modo per far venir fuori le parole a papà. Anni e anni fa ha scritto un libro molto insolito intitolato Jacob Wrestling, un misto di romanzo, filosofia e poesia. Ebbe un enorme successo, soprattutto in America, e sembrava probabile che diventasse uno scrittore molto importante. Ma poi ha smesso di scrivere. La mamma era convinta che fosse dovuto a una cosa che è successa quando io avevo cinque anni.
A quel tempo abitavamo in una casetta vicino al mare. Il papà ci aveva appena raggiunti dopo il suo secondo giro di conferenze in America. Un pomeriggio, mentre prendevamo il tè in giardino, ebbe la mala sorte di perdere la pazienza con la mamma in modo molto rumoroso proprio mentre stava per tagliare una fetta di torta. Brandì il coltello per dolci contro di lei in modo così minaccioso che un vicino ficcanaso saltò la staccionata del giardino per intervenire e si fece stendere. Il papà spiegò in tribunale che uccidere una donna con il nostro coltello d’argento per dolci sarebbe stata una faccenda lunga e faticosa, che implicava il segarla a morte; e fu pienamente assolto da qualunque intenzione di trucidare la mamma. L’intero caso pare essere stato piuttosto ridicolo, e tutti tranne il vicino furono molto divertenti. Ma il papà commise l’errore di essere più divertente del giudice, e poiché non c’erano dubbi sul fatto che avesse fatto del male serio al vicino, fu mandato in prigione per tre mesi.
Quando uscì era simpatico come sempre: anche più simpatico, perché il suo carattere era assai migliorato. A parte questo, non mi parve affatto cambiato. Ma Rose ricorda che aveva già cominciato a comportarsi in modo scontroso: fu allora che prese in affitto per quarant’anni il castello, che è un posto notevole per essere scontrosi. Una volta sistemati qui, avrebbe dovuto cominciare a scrivere un nuovo libro. Ma il tempo passava senza che succedesse niente e alla fine capimmo che aveva rinunciato anche solo a provare a scrivere: ormai sono anni che si rifiuta di prendere in considerazione l’eventualità. Passa gran parte della sua vita nella portineria, che è fredda ghiacciata d’inverno, poiché non ha il camino; lui si rannicchia su una stufa a petrolio. Per quello che ne sappiamo, non fa che leggere romanzi polizieschi presi in prestito alla biblioteca del villaggio. Glieli porta Miss Marcy, la bibliotecaria e maestra. Lo ammira tantissimo e dice che “il ferro è penetrato nella sua anima”.
Personalmente, non vedo come il ferro possa penetrare molto a fondo nell’anima di un uomo in tre soli mesi di prigione: almeno, non se l’uomo possedeva la vitalità di papà; e pareva che ne avesse ancora parecchia quando lo lasciarono uscire. Ma ora è svanita; e la sua scontrosità è diventata quasi una malattia. Spesso penso che preferirebbe non vedere nemmeno i suoi familiari. Tutta la sua naturale allegria è svanita. A volte ostenta una falsa cordialità che mi imbarazza, ma in genere è cupo o irritabile; credo che preferirei se perdesse la pazienza come un tempo. Oh, povero papà, è davvero molto patetico. Ma potrebbe almeno fare qualche lavoretto in giardino. Mi rendo conto che questo non è un ritratto onesto. Devo catturarlo più in là.
La mamma morì otto anni fa, di cause perfettamente naturali. Credo che dovesse essere una persona d’ombra, perché ho solo un vaghissimo ricordo di lei e possiedo un’ottima memoria per quasi tutto. (Ricordo perfettamente l’incidente del coltello per dolci: io picchiai il vicino caduto a terra con la mia paletta di legno. Papà ha sempre detto che gli è costato un mese in più.)
Tre anni fa (o quattro? So che il solo moto di socievolezza di papà avvenne nel millenovecentotrentuno) ci fu presentata una matrigna. Fummo davvero sorpresi. È una celebre modella di pittori che sostiene di essere stata battezzata col nome di Topaz – e anche se è vero, non c’è una legge che costringa una donna a tenersi un nome del genere. È molto bella, ha una massa di capelli così chiari che sono quasi bianchi, ed è di un pallore straordinario. Non usa trucco, nemmeno la cipria. Ci sono due suoi ritratti alla Tate Gallery: uno di Macmorris, intitolato Topaz in Giada, in cui indossa una magnifica collana di giada; e uno di H.J. Allardy che la mostra nuda su un vecchio divano foderato di cavallino che, dice lei, era molto ispido. S’intitola Composizione; ma siccome Allardy l’ha dipinta ancora più pallida di quanto non sia, Decomposizione sarebbe il titolo più giusto.
In verità non c’è niente di malsano nel pallore di Topaz; è solo che le dà l’aspetto di chi appartiene a una nuova razza. Ha una voce molto profonda, o meglio, la fa; fa parte di una posa artistoide che comprende il dipingere e il suonare il liuto. Io le voglio molto, molto bene: è bello averlo scritto proprio mentre appare sulle scale della cucina. Indossa il suo antico vestito da tè arancio. I capelli pallidi e diritti ricadono sulla schiena fino alla vita. Si è fermata sul gradino più alto e ha detto: «Ah, ragazze…» con tre note vellutate in ciascuna parola.
Ora è seduta sul treppiede d’acciaio e tormenta il fuoco. La luce rosa la fa apparire più ordinaria, ma molto graziosa. Ha ventinove anni e ha avuto due mariti prima di papà (non ci vuole mai raccontare molto di loro), ma sembra ancora straordinariamente giovane. Forse è perché la sua espressione è così vuota.
La cucina è molto bella, adesso. La luce del fuoco brilla regolare attraverso le sbarre e nel buco rotondo in cima alla stufa dove non è stato rimesso il coperchio. Fa diventare rosee le pareti imbiancate a calce; perfino le travi scure del soffitto sono di un oro oscuro. La trave più alta è a più di trenta piedi dal pavimento. Rose e Topaz sono due minuscole sagome in un’enorme caverna scintillante.
Ora Rose è seduta sul parafuoco, ad aspettare che il ferro si scaldi. Scruta Topaz con aria insoddisfatta. Spesso riesco a dire che cosa pensa Rose, e scommetterei che invidia il vestito da tè arancio e odia la propria modestissima gonna più camicetta. La povera Rose odia quasi tutte le cose che possiede e invidia quasi tutte le cose che non ha. In verità io sono altrettanto insoddisfatta, ma non ci faccio molto caso. Mi sento irragionevolmente felice in questo istante, mentre le guardo; so che posso unirmi a loro nel calore, e invece sto qui al freddo.
Oh, cielo, c’è appena stata una scenata! Rose ha chiesto a Topaz di andare a Londra a guadagnare un po’ di soldi. Topaz ha risposto che non credeva che ne valesse la pena, perché è così caro vivere là. È vero che non riesce mai a risparmiare più del necessario per comprarci dei regali: è molto generosa.
«E due degli uomini per cui poso sono all’estero» ha ripreso, «e non mi piace lavorare per Macmorris.»
«E perché no?» le ha chiesto Rose. «Paga meglio degli altri, no?»
«Dovrebbe, considerando quanto è ricco» ha detto Topaz. «Ma non amo posare per lui perché dipinge solo la mia testa. Tuo padre dice che gli uomini che mi dipingono nuda dipingono il mio corpo e pensano al loro lavoro, ma che Macmorris dipinge la mia testa e pensa al mio corpo. Ed è assolutamente vero. Ho avuto più guai con lui di quanto non ci tenga a far sapere a tuo padre.»
Rose ha detto: «Avrei pensato che valesse la pena di avere un po’ di problemi per guadagnare un bel po’ di soldi.»
«Allora i problemi prenditeli tu, cara» ha detto Topaz.
Dev’essere stato molto irritante per Rose, considerato che non ha la più vaga idea di quel genere di problemi. All’improvviso ha gettato indietro la testa con fare teatrale e ha detto: «Vorrei proprio. Forse potrebbe interessare tutte e due sapere che da un po’ di tempo sto contemplando l’idea di vendermi. Se necessario, andrò sulla strada.»
Le ho detto che non poteva andare sulla strada nel cuore del Suffolk.
«Ma se Topaz gentilmente mi presta i soldi per il biglietto per Londra e mi dà qualche suggerimento…»
Topaz ha detto che non era mai andata sulla strada e lo rimpiangeva, «perché uno deve sprofondare negli abissi per potersi elevare alle massime altezze», che è il genere di Topazismo che richiede molto affetto per essere sopportato.
«E comunque» ha detto a Rose «saresti l’unica ragazza al mondo a condurre una vita immorale di duro lavoro. Se sei davvero decisa a volerti vendere, sarebbe meglio se scegliessi un uomo ricco e lo sposassi in modo rispettabile.»
Questa idea naturalmente a Rose è già venuta, ma ha sempre sperato che l’uomo in questione sarebbe stato bello, romantico e amabile in cambio. Immagino che sia stata la pura disperazione di non riuscire nemmeno a incontrare uomini sposabili, per quanto orrendi e in preda alla miseria, a farla scoppiare in lacrime all’improvviso. Siccome piange solo una volta all’anno, sarei davvero dovuta andare a consolarla, ma volevo scrivere tutto. Comincio a capire come mai gli scrittori tendono a diventare insensibili. Comunque, Topaz l’ha consolata molto meglio di quanto avrei fatto io, poiché io non sono mai disposta a stringere la gente al petto. È stata assolutamente materna, ha lasciato piangere Rose sul vestito da tè arancione, che nella sua vita ha sopportato molto. Più tardi Rose sarà furiosa con se stessa, perché ha un’insolente tendenza a disprezzare Topaz; ma per il momento sono assolutamente affettuose. Rose sta mettendo via il ferro, tra un singhiozzo e l’altro, e Topaz prepara la tavola per il tè progettando piani impraticabili per far soldi, come dare un concerto di liuto al villaggio o comprare un maiale a rate.
Mi sono unita a loro mentre facevo riposare la mano, ma non ho detto nulla che fosse di somma importanza.
Piove ancora. Stephen sta attraversando il cortile. Vive con noi da quando era un bambino: sua madre era la nostra domestica, nei giorni in cui potevamo ancora permettercene una, e quando è morta lui non sapeva dove andare. Coltiva ortaggi per noi e cura le galline e fa un milione di lavoretti: non so come potremmo cavarcela senza di lui. Ha diciotto anni, è molto bello e ha l’aria nobile, ma la sua espressione è appena un filo stupida. È sempre stato piuttosto devoto a me; il papà lo chiama il mio pastorello. È come immagino Silvius in Come vi piace, ma io non assomiglio affatto a Phebe.
Stephen è entrato. La prima cosa che ha fatto è stata accendere una candela e piantarla sul davanzale vicino a me, dicendo: «Vi rovinate gli occhi, Cassandra.»
Poi ha lasciato cadere un pezzo di carta piegato e ripiegato su questo diario. Il mio cuore è sprofondato, perché sapevo che era una poesia; immagino che ci abbia lavorato nel granaio. È scritta con la...