Capitolo uno
Lampadine
«Tanto per cominciare, ho una sorpresa.» Dalle carabattole che aveva portato tolse un piccolo sacchetto ruvido: nel sacchetto era appallottolato uno straccio scuro. Edison lo prese in mano e poi in braccio, neanche contenesse un neonato che dorme. Se lo appoggiò a una guancia, lo rimise sul tavolo e a quel punto lo aprì, come il mago che mostra il cappello prima vuoto e poi pieno.
Fu l’ultima volta che accendemmo una lampadina tutti insieme. Lassù nella soffitta ci eravamo dimenticati del buio, del silenzio, della notte che incombeva su di noi. Delle stelle che non si vedevano più, oltre la finestra. Avevamo scordato perfino l’odore delle coperte fradice, la sensazione del pidocchio che ti saltella in testa. Eravamo solo noi. E c’era ancora Jiri col suo talento sfortunato, che non sapeva ancora dove sarebbe girata la sua ruota.
Edison passò oltre la porta incedendo da ambasciatore di corte, e sforzandosi di non ridere cercava di tenere ferme le guance. Il nero della soglia, il nero di quella soffitta lo aiutavano a nascondere nel buio l’eccitazione. Portava un fagotto nelle mani e lo sbrigliò in fretta davanti a noi, lo appoggiò sul tavolo, quello che usavamo per la redazione del giornale, e spalancando la bocca (solo il bianco dei suoi denti era visibile nello scuro) sussurrò: «Sorpresa.» Una lampadina.
Sorpresa, così, senza punti esclamativi: non eravamo più abituati ai punti esclamativi. Gli unici che sentivamo scritti erano quelli degli ordini, coltellate nelle nostre orecchie.
Ci avvicinammo tutti al tavolo, chi era già sulla branda saltò giù, e il pavimento scricchiolò. Quando Edison disse “sorpresa” c’era già silenzio. Aprì il fagotto lentamente: dentro, un secondo strato di panno celava un involucro di carta. Nell’involucro c’era la lampadina. Edison la prese in mano e ce la mostrò come stesse regalando un diamante. La lampadina brillò del riflesso dei nostri occhi vicini. Il nostro amico la teneva per l’avvitamento, e se la sua emozione si fosse tramutata in elettricità, e non in sangue, avrebbe potuto accenderla con le dita.
Saltò sul tavolo; eravamo senza parole. Si appese a un cavo che pendeva dal soffitto; prima del nostro arrivo reggeva un lampadario, magari di vetro. I nostri polmoni erano sottovuoto per lo stupore, come il cuore della lampadina è tenuto sottovuoto perché si accenda senza bruciare. Edison si mise ad avvitare e avvita avvita batteva i piedi sul tavolo, avvita avvita in una specie di danza elettrica, avvita avvita lo seguimmo col pensiero, battendo le mani sui bordi del legno sempre più a tempo.
Zdenek ci zittì: «Siete matti? Basta rumore.» Ci placammo.
Edison aveva finito. Guardò Peter che si era spostato accanto all’interruttore.
«Vado?» chiese.
«Se ci scoprono questa volta ci ammazzano davvero.»
«Da fuori non si vede.»
Non si accese nulla. Allora Jiri salì sul tavolo e prese la lampadina. Sembrava anche più grande, illuminato dalla candela ai suoi piedi, mentre si aggrappava al piccolo portalampada di ceramica smaltata.
«Strano che quelli di prima non se lo siano portati via: hanno staccato anche la carta da parati.»
Peter lo sorreggeva per un gamba mentre Jiri si inorgogliva del suo coraggio: «Lo spettacolo sta per cominciare.»
Mentre teneva stretto il cappellotto a vite della lampada, impugnò la lampadina, la svitò e la avvitò di nuovo. Se ripenso a quella scena, so che fu l’ultima volta nella quale ci ritrovammo tutti e otto insieme a discutere e a scrivere, l’ultima notte con il nostro amico Jiri. Il suo spettacolo stava per cominciare, ma nessuno ancora lo sapeva.
«Falle fare ancora un giro» suggerì Zappner, il bambino con la barba.
«Se la accendiamo ci vedranno.»
«Se la accendiamo ci vedremo, è diverso.»
La riprese in mano Edison: con il giro che diede alla lampadina avrebbe acceso anche la coda di un cane. Ecco la luce. La stanza si infiammò di colori, come se ogni cosa, ogni oggetto fino al più piccolo si fosse svegliato in quell’istante e avesse cominciato a brillare per conto proprio. Si vedevano i fogli scritti con le poesie e i racconti, i giornali clandestini scritti a mano lì accanto, qualche libro, tre cartoline, le tante brande di legno ammuffito. Si vedevano le facce di otto ragazzi che sorridono insieme, come un’orchestra. Nella notte più buia potevano guardarsi negli occhi e vederli lucidi e acquosi. Forse altrove si sarebbero presi in giro per quella commozione. Ma nessuno aveva voglia di fiatare: il buio è il mondo delle parole ma con la luce basta anche il silenzio, non c’è da stupirsi.
La stanza fu invasa da un chiarore meraviglioso. Le cose, gli oggetti furono abbracciati dallo splendore e li vedemmo non come li vediamo di giorno ma come li vediamo nei sogni. Di colpo ogni cosa esistette: le brande allineate e alte, con le nostre cose, i libri, i calzoni che penzolano, le scarpe in un angolo, ben slacciate, e la carta per il giornale nascosta tra il materasso e il legno, e le pareti con le fotografie, i disegni, i pastelli. E soprattutto ci guardammo in faccia, mentre Edison rideva che a fermarlo ci si misero in tre, ma ridendo anch’essi, e tenemmo il fiato finché anche il più spavaldo topo della soffitta prese a piangere anche lui, finché i pidocchi sulle nostre teste si misero a ballare e per una volta, per una volta soltanto, ci lasciarono in pace a guardarci negli occhi scuri ma luccicanti, bui ma belli.
Fu l’ultima volta che accendemmo una lampadina, che la accendemmo tutti insieme. Era una notte elettrica, quella, e andava festeggiata senza rimorsi: prima e dopo sarebbe stata nostalgia di casa e prigionia, niente di cui stare allegri. Ma quella notte buia la fregammo tutti insieme. Per una notte, una notte soltanto, eravamo stati più forti perfino di Terezín.
Capitolo due
Bastioni
1943, marzo
È notte, è molto buio. Siamo Embryo, Zdenek, Peter e io. Ci avventuriamo in silenzio lungo una via. Dormono, dalle case nessun rumore, nessuna luce. Camminiamo in fila come ladri, sottili come il colore sui muri. A ogni angolo, il primo guarda fuori nella strada che incrocia, poi ci fa un cenno se non c’è nessuno. Si va. Si cammina. A volte nella strada incrociata c’è una guardia. Embryo si volta, ricorda di tacere. Ricontrolla. La guardia è laggiù in fondo, è illuminata da un riflettore attaccato ai bastioni. Non è il suo turno di sorveglianza, è lì così, forse quel nazista è andato da una donna, forse è ubriaco. Non guarda mai di qua. Ci troviamo appiccicati a un angolo della strada e dobbiamo assolutamente raggiungere l’altro, attraversare. Siamo così abituati alle tenebre che siamo noi stessi tenebre, nemmeno i nostri occhi hanno più il bianco. Zdenek batte sulla schiena di Embryo, che parte, arriva all’altro angolo e si nasconde. La guardia non ha fatto una piega. Osserva il nostro angolo, fa quattro passi, due proprio storti.
«Due passi su quattro, fai il calcolo: è ubriaco a metà» sussurra Peter.
Zdenek è attento come un segugio. Fissa la guardia. Si volta, la guardia, non Zdenek: quest’ultimo dà una manata anche a Peter che parte. Corre, corre, arriva di là dove Embryo lo accoglie. Nella frazione di secondo che è servita alla guardia a grattarsi la schiena, un altro di noi è in salvo. Al sorvegliante lontano è caduto qualcosa, una bottiglia rotola nella strada. Sui sassi fa un rumore di strumento musicale.
La guardia si china goffamente per inseguire e raccogliere la bottiglia, ma posso solo immaginare il gesto che fa piegandosi in avanti, perché ha appena spostato la testa verso il basso quando Zdenek mi afferra per il colletto della giacca e si mette a correre, e io dietro, attaccato. Zdenek, va detto, è stato atleta e ha vinto anche molti premi. Arriva in un attimo di là mentre io fatico non poco a stargli dietro nonostante lui non molli la presa sulla mia giacca. Due secondi dopo mi rifugio anch’io dietro il nuovo angolo: sono a torso nudo mentre Zdenek tiene la mia giacca in mano.
Me la restituisce con uno sguardo che vuol dire una cosa soltanto: la prossima volta corri, lumaca.
Si procede silenziosi. Nelle tenebre solo quattro persone avanzano: Embryo, Zdenek, Peter e me. I proiettori sui bastioni aprono sfere di luce nel nero. L’umidità che sale dal fiume lì vicino e dalla terra delle strade fa luccicare il mondo. Proseguiamo. Ecco la piazza del paese. È aperta, la si potrebbe attraversare ma è proibito a noi ebrei, troppo rischioso. Giriamo intorno all’isolato, evitiamo un posto di guardia, prendiamo una via che costeggia anche la scuola, dietro c’è il bastione coi viveri. Ora siamo nella zona dell’ospedale e lì vicino c’è la casa delle ragazze.
«Andiamole a vedere», propone Zdenek.
Tu sei matto medita Peter, ma non lo dice.
Siamo là nel tempo di un pensiero. Sotto le finestre delle ragazze, il muro mostra bellissimi stucchi e ricami di cemento, ideali per arrampicarsi. Ci tiriamo su con le braccia, facciamo leva coi piedi, ed eccoci attaccati alle sbarre delle finestre del pianoterra. Sbirciamo. Dentro, una camerata come la nostra, coi letti a castello di legno, spessi e duri, alti tre piani e a volte quattro. Coperte e panni in giro, bagagli aperti, camicie che asciugano, lenzuola e stracci usati per creare piccole stanzette intorno ai materassi. E poi la luce, la stessa luce attutita di zafferano che filtra dalle nostre finestre: proviene da chissà dove, forse è la luce dei riflettori dei bastioni che si stende fino a qui, rimbalzando nelle strade, sui muri, volando via come certi aquiloni, arriva fino a qui e tocca i nostri letti, ci permette di guardarci in faccia, arriva fino a qui, è la luce delle guardie che diventa buona, che serve a noi. A noi serve anche per scrivere.
Venendo dal buio, ci mettiamo poco ad abituarci a quel nuovo ambiente scuro. Nel giro di un attimo si vedono i contorni delle cose, le mani che tengono le coperte, un braccio che penzola: ecco una ragazza girata di lato ma ha la faccia voltata. Ed ecco alcuni occhi, chiusi, anche quelli di lei, di Vera, anche i suoi occhi. La vedo tra due letti, è accucciata. Come deve essere calda, se solo potessi toccarle una spalla, o il collo, o una guancia.
Scendiamo appendendoci per un attimo alle sbarre. Tocchiamo terra e già ci spostiamo oltre, dimentichiamo le ragazze: non era questa la nostra missione. Dobbiamo uscire, ce ne andremo. Camminiamo ancora, ma poco, evitiamo una strada battuta, ci infiliamo nel parco. Il parco, quel che ne rimane, ha alberi sottili e alti, piantati con ordine. Potresti tirare dei fili tra l’uno e l’altro per spiegare la geometria a chi non la sa. Sono così alti, alcuni, che nella penombra non riusciamo a vederne i rami ma solo i fusti. È in quel momento che il riflettore si gira e la notte viene sconfitta da un colpo di luce che la ferisce. Ci lasciamo cadere tra le foglie, ciascuno dietro un albero diverso. L’aria è diventata ancor più umida, tante goccioline sospese tra noi e il cielo vengono accese dalla luce. I tronchi neri sono ancora più scuri, sono colpi di pennello precisi verso un cielo di tenebra. Dietro i tronchi noi, neri e piatti contro la terra.
La luce del riflettore si muove avanti e indietro e indietro e avanti, le ombre dei rami nell’erba sembrano agitarsi al ritmo di una danza macabra. Stringiamo i denti, Embryo resta coricato ma abbracciato all’albero, come se avesse paura di essere spinto via. Il proiettore si ferma, resta fisso a illuminare il parco.
Alziamo la testa ed è solo in quel momento che le vedo, tra l’erba che mi copre gli occhi. Non le avevo viste prima, forse per la fretta o per il terrore. Ci sono tante carrozzine tra gli alberi. Sono a gruppi e solitarie, sistemate per bene come fossero nuove ma abbandonate così, di fretta, da persone che sono scappate senza pensarci un minuto di troppo. Sono carrozzine da bambino, tutte simili, alcune molto belle coi ricami, non ne avevo mai viste di così belle. Illuminate dal proiettore, sembrano quasi appese nell’aria piena di goccioline.
Non c’è più erba davanti alla mia faccia, ma una coperta. La coperta è sfilacciata, i fili di lana mi infastidiscono una guancia come fossero steli, fiori recisi. Apro anche l’altro occhio, sento caldo sulle spalle e sistemo la schiena. È il mio letto, nella casa L417, nella soffitta dei ragazzi a Terezín. Mi alzo lentamente e vado alla finestra.
Oggi nel ghetto piove. Le gocce battono sui muri e scrosciano in strada, la allagano con piacere. Dal cielo viene giù acqua a secchiate, sembra volersi fermare tutta a Terezín e non voler andare via mai. Le pozzanghere non si svuotano, lo spazio resta bagnato. Il rumore assomiglia a una voce che prima ti chiama, ti invita a raggiungerla per proporti qualcosa di buono, poi cambia tono, diventa alta e minacciosa, urla. Edison si sveglia di colpo.
Mi chiede qualcosa, ma sono troppo vicino alla finestra per capire.
«Non ti sento, ripeti un po’.»
«Hanno già chiamato per il lavoro?» ripete.
Siamo al primo piano. Sotto la finestra si stanno radunando alcune persone che si affrettano ad attraversare la strada, si guardano negli occhi: hanno gli occhi grigi, non sono persone, sono sacchi di patate con dentro niente e una stella gialla sul petto. In più bagnati, derelitti.
«Qualcuno è già pronto» avviso Edison, che si sbriga a mettersi le scarpe. Ha due anni più di noi: basta perché sia adatto al lavoro, per i nazisti. Di solito dorme vestito, esce di corsa, la giornata non è ancora iniziata, i suoi passi vengono inghiottiti dalle scale. Torno a sedermi sul letto ed è mentre le assi scricchiolano che sento il colpo di pistola. Lo sentono anche gli altri, qualcuno urla, quarantuno fantasmi saltano in aria dalle coperte, saltano giù dai letti a castello. Chi dorme al piano più alto impiega solo un secondo di più per toccare terra. Scalzi, seguiamo quelli che hanno sentito meglio la direzione dello sparo, un rullo di tamburo fatto di passi nudi si avvicina a un’unica finestra. Si fa silenzio.
Gli uomini di solito restano in piedi perché hanno le gambe che li reggono, ma l’uomo che vediamo nella strada resta diritto solo perché è contro il muro. Le gambe gli si sono fissate ferme immobili in diagonale, come fosse un albero strambo, dal tronco doppio. Il muro è bagnato di pioggia, le gocce colano lungo la giacca grigia, la inzuppano sulle spalle, e anche i capelli dell’uomo sono fradici, se li ritrova sugli occhi ma sembra che non gli diano più fastidio. Tra le braccia abbandonate sul petto c’è una macchia rossa che si allarga. Ora le braccia si aprono lungo il muro, è solo questione di un attimo, il capo dell’uomo si piega e finalmente cede un ginocchio. Va giù su quel lato, senza proteggersi il volto come quando si cade da vivi. È morto. Il nazista non controlla. Altre volte li vedi che controllano, stavolta ne è sicuro, gli ha sparato da troppo vicino. Il corpo a terra assorbe il bagnato della strada e restituisce con generosità un acquerello rosso che si allarga qui come un ramo di un albero, là come una macchia sfumata. Il peso dei vestiti del morto è tale che sembra muoverlo.
Non vediamo le facce delle persone grigie perché sono voltate tutte, come noi, verso il muro. Ma non ce n’è bisogno: sono identiche alle nostre, ne siamo sicuri. I nazisti non ordinano a nessuno di portare via il corpo, altre volte lo hanno fatto. Urlano qualcosa alla gente, mettono la folla in fila e via, la fanno allontanare. Riconosco nel mucchio la testa di Edison: ci faremo raccontare stasera.
Josif si mette a singhiozzare, gli manca casa sua e i suoi genitori e anche una nonna, dice, che gli voleva un gran bene. È arrivato qui due mesi dopo di me ed è fragile come un passerotto. Si siede sul letto e piange per ore, mangia pochissimo. Un paio di noi vanno a consolarlo, gli altri restano alla finestra a guardare il morto.
«Tanto non si muove più, cosa pensate? Di vederlo scappare via?» butta lì Zdenek. Toglie il braccio dalla spalla di Josif e ritorna sotto le coperte.
Alzo il materasso e prendo un foglio. Scrivo: oggi è stato ucciso un uomo sotto la nostra camera. Non sappiamo ancora perché, forse ha accarezzato un cavallo, forse ha risposto male a una guardia SS, forse si rifiutava di accelerare il passo. La strada è tutta rossa.
E mentre scrivo, penso che forse il motivo non è da cercar...