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Milano metropoli
Se non ci passi da qualche anno, Milano non la riconosci. I simboli della città erano il Duomo, la Torre Velasca, il Pirellone. Adesso le riviste patinate mettono in copertina la Torre Unicredit, quella fatta solo di vetro e di acciaio con il pennone e la piazza rotonda ai suoi piedi. Raccontano che è stato appena finito «Il Dritto», il grattacielo più alto d’Italia. Premiano il Bosco Verticale, una torre avvolta dagli alberi. Mostrano la passerella pedonale che collega piazza della Repubblica alla stazione di Porta Garibaldi e mentre la guardi ti chiedi se quel passaggio, in mezzo a una selva di erbacee perenni, non è per caso la famosa High Line di New York. È questa la nuova città che si prepara ad accogliere l’Expo. Un pezzo di mondo che viene a scoprire l’Italia. E quella scoperta parte da qui. Da Milano.
Ma non è solo questione del nuovo skyline. Ci sono tante nuove piazze, gli artisti a ogni angolo di strada, i vecchi capannoni industriali trasformati in locali. L’ex fabbrica di catene d’oro dove si fa musica dal vivo e si mangia. La Fabbrica del Vapore, che al posto dei vagoni ferroviari produce cultura. Chi ci passa, attratto dal calendario degli spettacoli, dal desiderio di incontrare degli amici, dalla voglia di prendere il sole alla Piroga, la spiaggia di Milano, trova giovani a tutte le ore del giorno e della notte. È la sede che il Comune ha destinato ai giovani perché qui possano essere produttori, non solo fruitori, di cultura. E dunque si fa musica, design, danza, fotografia, cinema, teatro.
Ci sono interi quartieri, che erano periferia, e ora stanno subendo trasformazioni interessanti. Lambrate, nei giorni del Salone del Mobile, esplode con gallerie d’arte, studi di architettura, aziende grafiche, blogger, designer. Coreani e giapponesi sciamano come impazziti. Via Savona, via Tortona hanno trasformato le vecchie fabbriche in nuovi insediamenti di produzione. Non più di oggetti materiali. L’Ansaldo, 70.000 metri quadrati di archeologia industriale, è diventata un meraviglioso museo e dentro le mura della vecchia fabbrica, la sera, migliaia di giovani ascoltano e fanno musica. In via Bergognone, nell’ex magazzino della Nestlé, Armani regala alla città il Silos, moda e ricerca creativa. Nella zona industriale dismessa intorno a via Ripamonti, dove una distilleria diventerà la sede del nuovo museo della Fondazione Prada, ci saranno anche uno spazio per bambini, un bar, un ristorante e un grande salone per esposizioni temporanee, tutti aperti al quartiere. Via Padova, lo stradone dove si parlano tutte le lingue, è un piccolo laboratorio del mondo. Il vecchio cuore di Baggio, Villa Scheibler a Quarto Oggiaro e accanto le officine di FabriQ, da dove sono già partite 150 start-up finanziate dal Comune.
Cambiamenti urbanistici, ma anche cambiamenti culturali. Come se Milano, davanti a tutti in Italia, avesse già imboccato la strada del suo futuro e, archiviata l’era industriale, avesse già scelto la sua vocazione di città che coniuga il bello con la creatività e l’innovazione. La frenetica Milano è diventata una città più ecologica. La Milano arrivista ha lasciato il posto a una città sociale. Sul suo palcoscenico, oggi, Milano premia il talento, non il farsi vedere. E mentre nei meravigliosi cortili nascosti, sede delle case di moda più famose nel mondo, mogli e figlie di sceicchi arabi fanno la fila per avere abiti preziosi cuciti su misura, unendo ancora l’intelligenza della testa con quella delle mani, Milano sta compiendo la sua ennesima rivoluzione silenziosa.
Bisogna avere un po’ di memoria per ricordare cos’era diventata Milano. Una città chiusa, dove chi veniva da fuori era guardato con sospetto e, talvolta, con disprezzo, e poco ci mancava che anche qui si scrivessero i nomi delle strade in dialetto. I capisaldi della politica della sicurezza erano i divieti e l’esclusione, come se bastasse minacciare gravissime sanzioni per ottenere comportamenti virtuosi. Avevano messo perfino i soldati nelle strade, come se fosse normale passeggiare in una città del primo mondo e incrociare uomini in mimetica e con la mitraglietta al collo. Milano adesso è una città aperta. Dodici università accolgono oltre 220.000 studenti che arrivano da ogni parte del mondo. L’impegno a favore dei giovani attrae chi ha idee da realizzare, siamo la prima area metropolitana in Italia per concentrazione di attività e lavoratori nel settore della cultura: più di 29.000 imprese, 191.000 addetti, 6 miliardi di fatturato. E, nel panorama complesso di questo momento difficile, siamo ancora la locomotiva d’Italia. Con l’export che cresce e la disoccupazione che resta cinque punti più bassa che in tutto il resto d’Italia. Si genera da qui oltre un terzo del fatturato nazionale nei settori dell’innovazione. La smart city, la città intelligente, è già una realtà. Ma a tutti, ora, non basta più la qualità della produzione. La tensione è verso la qualità della vita.
Le politiche della mobilità hanno cambiato le abitudini. Biciclette, auto elettriche, persone che raggiungono un punto centrale con i mezzi pubblici e poi vanno al lavoro o per negozi. Passi in corso Vittorio Emanuele e ci sono spettacoli a ogni angolo: musica, teatro, mimi e tanta gente che si ferma incantata e divertita. La seriosa Milano in pochi anni è diventata la terza città migliore al mondo per l’arte di strada, dopo Sydney e San Paolo, e in Europa alla pari con Praga e Dublino.
Come sempre, in Italia è Milano a precorrere i tempi e ad anticipare i cambiamenti. Non solo dal punto di vista politico, anche da quello urbanistico. Per la mia generazione, le Varesine era il luogo dove c’era il luna park, con le giostre e la ruota panoramica. O la vecchia redazione della «Gazzetta dello Sport» lì dietro, in via Galilei. Era una zona centrale, ma concettualmente periferica. Prendeva davvero vita una sola volta l’anno quando, sotto Natale, sui terreni abbandonati, arrivava il circo. Qui, adesso, dietro piazza della Repubblica, poco lontano dalla stazione Centrale e davanti alla stazione di Porta Garibaldi, c’è il primo dei più recenti grandi insediamenti. Un quartiere completamente nuovo, con grattacieli bellissimi che hanno ridisegnato il profilo della città. Il nucleo centrale è piazza Gae Aulenti, una piazza rotonda, con una fontana centrale e chiusa tutto intorno dal vetro e dall’acciaio della Torre Unicredit, che sembra arrivare a toccare il cielo con la guglia. Una piazza che per me è il simbolo della rinascita della città. Un luogo dove la collaborazione tra il privato e il pubblico ha prodotto un risultato straordinario, perché abbiamo stabilito che insieme alle torri di uffici e agli appartamenti di lusso ci fosse anche un parco di 100.000 metri quadrati, un giardino per i giochi dei bambini, un viale pedonale, una libreria con il ristorante, così da trasformare la piazza in uno spazio vivo, sempre pieno di gente.
In tempi di pochi soldi, è necessario sviluppare tante idee. E farlo senza avere pregiudizi o paraocchi. Se in questa zona, che si chiama Garibaldi-Repubblica, non si fosse accettato un confronto con il privato, oggi non avremmo tutto questo. E non l’avremmo nemmeno se, come avveniva in passato, si fosse solo subita l’iniziativa degli immobiliaristi, che naturalmente pensano ai loro affari. Abbiamo voluto mettere al centro l’interesse pubblico e stabilire insieme delle regole. Il primo grande risultato di questa amministrazione è stato ridefinire il piano del governo del territorio, cioè l’intelaiatura all’interno della quale si forma il nuovo disegno della città. In piazza Aulenti, gli impiegati possono consumare il pranzo all’aperto e poi giocare a biliardino, alla sera i ragazzi si trovano per l’happy hour e d’inverno arrivano le mamme che accompagnano i figli a pattinare su una delle sette piste di ghiaccio della città. Qui c’è una fermata dell’ultima linea metropolitana, la 5, la lilla, con il treno cha viaggia senza conducente. E da qui, quando sali dalle scale mobili che ti depositano in piazza, si vede uno straordinario panorama di Milano, con le montagne all’orizzonte.
Eppure, se percorri una passerella pedonale, sbuchi in un angolo di vecchia Milano, in un quartiere che si chiama Isola, dove ci sono ancora le case di ringhiera che erano la classica architettura milanese. Qui si stringono la mano il futuro e il passato, le vetrate e quel giallo che colora le case dai tempi di Maria Teresa. Accanto ai giganti di vetro e cemento è sorta la Casa della Memoria, che abbiamo voluto per ricordare le vittime della Resistenza e poi del terrorismo. Lo sguardo si posa su altre torri dove hanno preso casa calciatori, manager e gente di spettacolo, tra i pochi che possono pagare un appartamento 9000 euro al metro quadro. Poco avanti, a centosessanta metri di altezza, che vuol dire al trentunesimo piano, il belvedere del grattacielo che è la nuova sede della Regione Lombardia, un parallelepipedo di vetro progettato dall’architetto cinese della Piramide del Louvre, al centro di un’altra piazza coperta da una cupola. Un’opera grandiosa. E costosa: circa 400 milioni di euro. La più maestosa delle opere commissionate da un ente pubblico dal tempo degli Sforza, voluta come un monumento a se stesso dal governatore che per diciotto anni è stato il monarca assoluto della Lombardia, travolto dagli scandali e costretto a cedere lo scettro.
Ma l’area è diventata il cardine di un percorso molto più lungo, molto più vario, da girare tutto a piedi o in bicicletta. Una città deve essere a misura dei suoi abitanti, non solo il campo di gioco della fantasia dei più grandi architetti. E allora alla bellezza degli edifici bisognava dare un’anima e una funzione pubblica. In una città bisogna poter passeggiare, sedersi in una piazza e collegarsi al wi-fi con lo smartphone o il proprio pc sulle ginocchia, incontrare altre persone, andare in bicicletta. Insomma, vivere e dividere la propria vita con altri, così come è sempre successo nelle magnifiche piazze delle città italiane.
Ecco che una discesa pedonale porta in corso Como, una via che il mondo conosce perché un «10 Corso Como», lo spazio di arte e moda di Carla Sozzani, icona dello stile milanese, ha aperto anche a Shanghai, a Pechino e a Seoul. E corso Como sbuca in piazza XXV Aprile dove la palazzina che ospitava uno storico teatro, purtroppo fallito, lo Smeraldo, adesso è la sede di Eataly di Oscar Farinetti. Non è stato indolore accettare il cambiamento, ma una città è un organismo vivo, che cresce e cambia e quello che deve fare l’amministrazione è governare i processi. Non lasciare mano libera agli interessi privati, ma nemmeno chiudersi alla conservazione a tutti i costi. Pochi passi ed ecco Porta Volta, il progetto della Fondazione Feltrinelli. Traslocato il vivaio di Ingegnoli, lo studio Herzog e de Meuron ha immaginato la riqualificazione completa dell’area con spazi che favoriscano lo stare insieme, per dibattiti, incontri, shopping, passeggiate a piedi o in bicicletta.
Anche la zona nord della città ha cambiato completamente faccia. Dove c’era la vecchia Fiera Campionaria c’è un quartiere nuovo, CityLife. Di nuovo grattacieli immaginifici, firmati da architetti che sono star mondiali come Daniel Libeskind, Zaha Hadid, Arata Isozaki e che rivaleggiano con le torri più alte d’Europa. Per gli appassionati del genere, ci sono le statistiche, e qui c’è «Il Dritto», 247 metri con l’antenna, il più alto d’Italia. Ma per la città c’è anche altro: una collina artificiale, un parco che è il terzo di Milano per dimensione, un percorso in mezzo a venti sculture dei più grandi artisti contemporanei, una piazza sterminata, piazza Gino Valle, che aspetta di prendere vita. Qui è stata aperta Casa Milan, che io, da sindaco interista, ho avuto il grande piacere di inaugurare.
Ma anche a sud la città è cambiata. Dove ci sono i due grattacieli della sede di Sky Italia è finalmente concluso il progetto Santa Giulia. Meno magnifico di come l’aveva immaginato Norman Foster, ma con un parco, un asilo e, accanto, i campi sportivi e le vecchie trattorie milanesi del quartiere cooperativo di Rogoredo. Quando siamo arrivati noi, era il caos: famiglie che avevano comprato sulla carta appartamenti meravigliosi, che avrebbero dovuto coniugare il benessere con un’altissima sostenibilità ambientale, si sono ritrovate travolte dalla crisi del settore immobiliare e della società che doveva costruire il nuovo quartiere, e completamente abbandonate. Il primo impegno della mia amministrazione è stato quello di far bonificare i terreni dai veleni che erano stati nascosti e di dare nuovo futuro a un progetto destinato a morire prima ancora di nascere. È stato inaugurato un grande e bellissimo giardino pubblico e poi l’asilo, altri servizi e infine i negozi.
Nel centro della città, vicino al quartiere bohémien del Ticinese, al posto della Centrale del latte dismessa e demolita, si sta sviluppando il campus dell’università Bocconi. Già il nuovo edificio dell’università, un monolite di cemento progettato dalle architette irlandesi McNamara e Farrell dello studio Grafton, aveva cambiato il tessuto urbano. Adesso saranno i giapponesi Sejima e Nishizawa dello studio Sanaa a reinventare un’area di 35.000 metri quadri con un parco, un centro sportivo e ricreativo e una piscina olimpionica aperta a tutti.
Trasformazioni affascinanti che hanno messo Milano in gara con le città più dinamiche: non solo a Dubai, non solo a Londra, non solo a New York cambia continuamente lo skyline. Milano è entrata di prepotenza nella classifica delle città più innovative dal punto di vista architettonico. Come Bilbao dopo il Museo Guggenheim, Milano merita una visita anche solo per vederne le novità.
Si è costruito molto – anche troppo, visti i tempi che avrebbero richiesto edilizia a prezzi popolari e non avveniristici palazzi domotizzati – ma si è anche demolito. Ci sono stati anni, in questo nostro Paese, in cui non si è avuto rispetto per nessuno: sono state rovinate le coste, deturpate zone bellissime, sono state perfino disseminate le campagne di capannoni incompiuti perché solo progettarli e iniziare i lavori garantiva un contributo dallo Stato. Intere aree sono state disboscate rendendo sempre più fragile il territorio. Anche a Milano è successo: nella zona di Ponte Lambro, per i campionati mondiali di calcio del 1990 doveva essere costruito un albergo da trecento stanze che invece è rimasto un guscio vuoto di cemento armato. Insomma, anche noi avevamo il nostro ecomostro che poteva fare concorrenza a Punta Perotti. A Bari lo sfregio era alla spiaggia di Pane e Pomodoro; qui dentro il Parco Sud, nel nome di Italia ’90.
È curioso, ma Milano, la città delle industrie, del commercio, della moda, del design, è anche il secondo Comune più agricolo d’Italia, con più di mille aziende ancora attive. Quell’aborto di albergo era una ferita insopportabile, uno sfregio inaccettabile al territorio. Non lo difendeva nessuno, eppure ci sono voluti più di venti anni per passare dalle parole ai fatti. Era una calda giornata di giugno quando, davanti al braccio meccanico che cominciava l’abbattimento, abbiamo festeggiato insieme ai cittadini, e adesso al posto del Mundial ci sono 166 nuovi alberi, percorsi per le bici, vialetti pedonali, un parco per i bambini, un’area per i giochi dei cani. E non è stato solo l’albergo. Tanti immobili degradati, abbandonati o abusivi in zona Ripamonti, in via Trasimeno, in via Montefeltro, a Rogoredo e in molti altri luoghi, scheletri di cemento diventati centri di raccolta della piccola e grande criminalità o dimore di clandestini, si sono trasformati, spesso dopo dure battaglie legali e sociali, in verde pubblico, in centri di aggregazione e di cultura. C’è stata un’altra piaga nell’Italia dell’ignoranza e del benessere: l’amianto. Si costruiva mettendo l’amianto dappertutto e oggi ci ritroviamo con scuole che hanno i tetti pieni di amianto, con case popolari, con edifici pubblici che mettono in pericolo la salute delle persone. Chi ci ha preceduto sapeva e ha taciuto. Non è popolare, soprattutto in tempi di scarse risorse, investire per demolire.
Se per chi arriva da fuori, al primo colpo d’occhio, il cambiamento è la nuova città verticale, quello che è cambiato a Milano è molto di più. Per vent’anni questa era stata una città che cercava di chiudersi, come se rifiutare di guardare in faccia la realtà significasse cancellarla. La politica di un centrodestra inquinato da un manipolo di leghisti aggressivi e parolai suggeriva, per eliminare il problema dell’immigrazione, di mettersi dei fazzoletti verdi nel taschino e di gridare «stranieri a casa vostra». Per combattere la criminalità, di mandare per strada le ronde di cittadini vocianti. Per salvare la quiete pubblica dagli schiamazzi notturni, di mettere le cancellate a difesa dei parchi.
Più ancora che retrogrado e ignorante, questo è un atteggiamento che non risolve affatto i problemi, come del resto hanno dimostrato i tanti anni di centrodestra al governo della città e del Paese. Credo anzi che sia un atteggiamento irresponsabile se tenuto da chi ha dei doveri nei confronti dell’opinione pubblica. Perché se è legittimo che un cittadino esasperato invochi soluzioni drastiche, è disonesto che faccia lo stesso chi sa che il fenomeno epocale che stiamo vivendo non potrà essere fermato pattugliando le coste e sparando sui barconi carichi di disperati. Che l’ondata senza fine di migrazioni sia un problema per le città è una verità incontestabile. E naturalmente sono i quartieri più poveri e più periferici, gli stessi che già avrebbero bisogno di maggiore sostegno, a pagare il prezzo del disagio di chi arriva e non ha un lavoro, non parla la tua lingua, non professa la tua religione. Le soluzioni sono molto difficili, e semplicemente non è possibile fermare con rozzi slogan qualcosa che riguarda tutto il mondo.
Dare la cittadinanza onoraria ai bambini nati a Milano con genitori stranieri è poca cosa, ma è un segno. Estendere il diritto di voto ai residenti che vengono da altri Paesi è un piccolo passo avanti. E garantire assistenza a chi ne ha bisogno, indipendentemente da razza, religione, e luogo di nascita, è un dovere non solo morale. Questo non è affatto buonismo, è affrontare i problemi e fare di tutto per contribuire, ognuno in base al proprio ruolo e ai propri mezzi, a trovare le soluzioni possibili. È facile, ma disumano, limitarsi a fare propaganda o strumentalizzare le tragedie del nostro secolo. I bravi credenti del centrodestra dovrebbero non solo ricordare ma anche praticare gli insegnamenti del cardinale Martini. Che diceva: «Chi è orfano della casa dei diritti difficilmente sarà figlio della casa dei doveri». La soluzione di una questione epocale non può che passare dalla strada dell’integrazione e della coesione sociale, chiaramente distinguendo tra chi vuole integrarsi e rispetta le regole e chi imposta la propria vita sull’illegalità. E soprattutto da uno sforzo, da un impegno congiunto a livello europeo, e non solo europeo, per aiutare i Paesi più poveri, per lo sviluppo della democrazia e per far prevalere la pace sulla guerra e la violenza.
Di Milano credevo di conoscere tutto. A parte la parentesi da parlamentare e quei dieci anni da pendolare sul Milano-Roma, qui sono sempre stati il mio lavoro, i miei affetti, i miei amici. Eppure, da quando ho cominciato la corsa per diventare sindaco, ho incontrato moltissime realtà che avevano bisogno solo di ascolto per emergere. Ho riscoperto una città con enormi potenzialità, ricca di tutto: di opportunità, di luoghi, di associazioni, di gruppi, di persone. E lo sarà ancora di più. La vecchia Milano è una metropoli da 1.300.000 abitanti che diventano 3.200.000 oggi che è realtà la nuova città metropolitana. Ma ogni mattina, a Milano, entrano più di 850.000 persone. È come se ogni giorno vi si riversasse un’intera città. Come se tutta Torino si trasferisse a Milano. E usasse le sue metropolitane, i suoi tram, i suoi autobus, le sue strade… Una città generosa e anche difficile da amministrare. Quando la mancanza di risorse, le nebbie della burocrazia, le rigidità dei sindacati, gli sgambetti dei compagni di strada mi buttano giù di morale, rileggo una lettera che ho ricevuto.
«Caro Giuliano, adoro questa città, e ci tenevo a dirtelo, da romana, da mamma, da donna che lavora e vive intensamente. Non solo amo lo spirito che la tua amministrazione ha portato: apertura, umanità e senso della possibilità, ma sono anche fiera delle nostre strade e dei nostri grattacieli, della Milano che presentiamo agli stranieri, delle cose giuste e anche degli errori. Immagino solo lontanamente, con le mie piccole battaglie, quanto è difficile lavorare da dentro al sistema. Quanti legacci, quante immobilità, e quanto sia forte la voce di chi protesta, mentre chi sta bene sta zitto. La politica mi spaventa e considero eroico chi riesce a farla senza perdersi, ma anzi portando piccole trasformazioni giorno per giorno. Una fatica immensa. Di cui forse tu non vedi tutto il bello che produce. E allora te lo volevo dire: sono fiera della mia Milano, fiera della sua amministrazione, dello sforzo che fate per fare qualcosa di bello e di giusto, giorno dopo giorno. Sono fiera di te e di come mi rappresenti, come combatti anche per me.»
È il mio talismano. La rileggo e penso che anche se la strada è sempre in salita, questa è una corsa che vale la pena di fare.
Il viaggio che mi aveva portato dal mio studio legale a Palazzo Marino era durato meno di un anno. Tutto sommato un tempo breve. E anche la distanza fisica tra il tribunale e i...