SECONDA PARTE
Italia
Capitolo 1
«Sai cosa dobbiamo fare, Leonard?»
«Cosa, Shoga?»
«Andare nel primo mondo.»
«Perché, Shoga?»
«Là ci sono palestre bellissime, ci alleniamo e diventiamo come Bruce Lee.»
«E poi?»
«Poi non ci batte nessuno, Shorty.»
«Facciamolo, Shoga.»
«Ci vuoi andare in Europa, Leonard?»
«Eccome se ci voglio andare!»
Firenze, 1991
«Ma tu, perché vieni in palestra?»
Il diciassettenne, zuppo come un cocomero, interrompe la serie di diretti che sta scagliando nel vuoto e sgrana gli occhi. «Dice a me?»
«Sì, dico a te.»
Ha il fiatone. Guarda il pavimento e la striscia di scotch a forma di V che attraversa la parte bassa dello specchio. Sembra un gabbiano elementare, sporco e malconcio.
In cerca di ispirazione, passa in rassegna i piloni gialli della palestra e i sacchi lucidi che penzolano come enormi insaccati.
Poi guarda quell’uomo lungo, magro come un pendolo, che tutti chiamano Bonci. Sorride e risponde: «Be’, perché mi diverto».
L’uomo lungo soffia aria dal naso – un suo tic – e gli fa: «Bravo, è importante. Ma senti, non hai voglia di combattere?».
«Oh, no.»
«Nemmeno un po’?»
«Nemmeno.»
«Proprio per niente?»
«Per niente.»
«Va bene, allora mi devi trentacinquemila lire.»
Sono i piccoli dettagli che fanno una grande storia?
Primo dettaglio: una palestra. Non quella dove si è svolto questo dialogo, nella quale un ragazzino sta imparando i fondamentali, ma un’altra. Sempre a Firenze. In via de’ Pepi. Un giorno Leonard ci era entrato per dare un’occhiata, il ju-jitsu gli era sempre interessato. Il suo amico Boboh Sesay, a Freetown, blaterava di colpi segreti che ti stecchivano in un momento e con Damien si azzuffavano continuamente, in turbini di polvere gialla come zafferano. Imitavano Bruce Lee, latravano urlacci. Rimanevano con la bocca aperta guardando certe sequenze dei suoi film, tipo quando lui faceva ruotare le mani, e dalle mani gli uscivano altre mani, e quelle mani diventavano un prisma accecante di mani, e gli avversari di Bruce strizzavano gli occhi, si confondevano e non sapevano più che pesci pigliare. Senza dubbio, le arti marziali valevano più di ogni altra arte di combattimento.
Secondo dettaglio: non lo avevano convinto. O meglio, non lo aveva convinto quel tizio con la faccia qualsiasi che gli aveva parlato. Non gli era sembrato molto coinvolto. L’aveva squadrato, aveva snocciolato qualche sommaria informazione, ma parlava come uno che una telefonata furiosa avesse svegliato all’improvviso e fosse ansioso solo di tornarsene a letto. Poi, sulla strada verso casa, bighellonando, l’insorgere di un dubbio: non era troppo vecchio per quel genere di cose? Dopotutto aveva sedici anni.
Terzo dettaglio: un piccolo cartello, in viale Malta. ACCADEMIA PUGILISTICA FIORENTINA. ISCRIZIONI APERTE. Leonard si era presentato anche lì. Aveva sceso le scale: erano le cantine del Mandela Forum, giusto? Anche il pugile Sugar Ray Robinson, lo stilista perfetto, il gran trascinatore di folle, si allenava alla Salem Crescent Athletic Club, nei sotterranei della chiesa metodista; amava talmente la musica jazz che volle un’orchestra che suonasse mentre lui si allenava. Leo aveva pensato: se solo Damien vedesse tutte queste cose, altro che fare le flessioni sulle nocche o tirar cazzotti contro i muri. Fin dal primo momento si era guardato intorno estasiato. Gradoni con file di guanti, sacchi lucidi, pugili che guizzavano colpendo l’aria. Gli starnuti ritmici del cuoio delle corde per saltare, i neon e le tubature sgocciolanti. E quell’odore: perché l’odore di una palestra di pugilato ce l’ha solo una palestra di pugilato, piccola Sparta interrata in cui d’estate fa sempre troppo caldo e d’inverno sempre troppo freddo. Guardava i ragazzi più grandi, fradici di sudore, che facevano una cosa che si chiamava “ripetute al sacco”. Funzionava così: suonava un campanello, e quelli colpivano e colpivano, con furia, si sentivano solo i tonfi sordi dei guantoni come tamburi simultanei. Poi risuonava lo stesso campanello, e tutti smettevano. Dieci secondi di respiri grossi e silenzio: dieci secondi di pace estenuata, ossigeno in tempesta nei polmoni, bicipiti che fumigavano in quell’aria da lavanderia cinese. Il campanello suonava ancora, e via, di nuovo sotto: colpi su colpi, più forte di prima. Più colpivano, più sudavano. Più sudavano, più diventavano forti.
Il maestro Boncinelli, quel giorno, vedendo quel ragazzino imbambolato, gli si era avvicinato e aveva detto: «Non ti spaventare, eh». Ma lui non era spaventato – lui era ipnotizzato.
Trentacinquemila lire: tempo un mese. Solo trenta giorni. Poi, il Bonci, quei soldi non glieli avrebbe chiesti più. Leonard non ne capiva il motivo, ma non se ne preoccupava. Andava in palestra e imparava più velocemente di chiunque altro.
Il Bonci, in cuor suo, lo sapeva. “Prima o poi questo ragazzetto mi combatte”.
Parlava così, come un medico partecipe delle vicissitudini fisiologiche del paziente. Quei medici che dicono: mi mangia? mi si scarica? mi prende le pastiglie?
In effetti, oltre a essere fisiologico che quel ragazzino avrebbe calcato il ring, il Bonci sentiva che la cosa riguardava entrambi, come sempre: per lui, la boxe era questo. Fare il maestro voleva dire che il match, col ragazzo, lo combatteva anche lui. Ogni cazzotto che quello si prendeva, era come se andasse a segno anche sulla sua faccia. Ogni colpo evitabile che incassava era un’ammaccatura su tutti i giorni che avevano passato a prepararlo, quell’incontro. Osservava Leonard fare lo specchio. Lo guardava sferrare diretti al vuoto, avanzando e retrocedendo. Non poteva impedirselo, lo spiava: anziché fare i primi passettini come tutti, quel ragazzino aveva già il senso dello spazio. Faceva partire i colpi e schivava, piegandosi sulle ginocchia. Portava un sinistro, poi faceva un mezzo giro su se stesso e bam! gancio destro. Girava la spalla perfettamente. Era leggero, scattante. «Talento naturale» borbottava il Bonci in automobile, mentre tornava a casa e rimuginava a semaforo rosso.
Cominciò a pensare che se non fosse riuscito a convincere Leonard, non si sarebbe dato pace. Non che gli mancassero le soddisfazioni: una, per esempio, era Donato, un piuma-leggero di Bari, alto, sottile e nervoso, che non aveva paura di niente e di nessuno. Saliva sul ring e sparecchiava avversari uno dopo l’altro. Era un bravo ragazzo, testa sulle spalle, lavorava come un mulo e non perdeva un allenamento. Cosa rara: di solito bisognava insistere per farli sgobbare. Bisognava andare contro la loro giovinezza e trasmettere disciplina, sacrificio, controllo.
Ma Leonard aveva qualcosa in più di chiunque altro.
«Quel ragazzo è simpatico. Tu, però, non stargli troppo addosso.» Anche questa frase, se la ripeteva sempre. Gliel’aveva detta suo padre, quando era venuto a conoscere Leonard e a fare la consueta foto di fine anno ai pugili. Non stargli troppo addosso.
Il suo vecchio aveva ragione.
Si ripeteva: un passo alla volta. Non spaventarlo. Non insistere.
Non stroncarlo subito con la severità.
Freetown, 1991
Cos’è la dolcezza?
Freetown, nonostante tutto – Freetown in una sera di marzo.
Aghi di lampioni, i cavi elettrici che penzolano molli, il cielo come un rammendo sforacchiato. Sotto il cielo, gente: giovani bambinaie che svolazzano in libera uscita; donne anziane con ceste di vimini sulla testa, colme di pesci appena pescati; motorini che spernacchiano di qua e di là con tre ragazzi alla volta, in ciabatte e jeans rimboccati, aggrappati come pipistrelli; vecchie Renault col portellone posteriore spalancato, da cui anziani tremebondi, seduti sul pianale, fumano sigarette puzzolenti.
Orchidee viola screziate di bianco che spuntano nelle aiuole – le loro piccole bocche aperte tra foglie verdi e lunghe – e imbellettano l’aria di un profumo dolciastro e tenue.
Daniela rientra a casa dal lavoro. Pensa che sono belle. Pensa che quelle piegate verso terra sembrano mogie.
Eppure la radio parla di sommosse. Dice che la situazione è pericolosa. Può scoppiare una guerra anche se le orchidee sono in fiore?
Ha le chiavi già in mano e le sembra di aver pensato una cosa ridicola. Nel portico vede guizzare un’ombra.
Le si gela il sangue – cos’è stato?
«Chi è là?»
Le gambe si paralizzano. Ripete: «Chi è là?».
La voce le barcolla in gola e sbanda rauca fuori dalla bocca.
Nemmeno il tempo di ripeterlo una terza volta ed eccolo: occhi bassi e faccia cotta per il disagio di essere stato scoperto.
Lei si svuota all’improvviso, in un unico sospiro di sollievo – il cuore è schizzato via o è ancora lì?
Lo fissa. «Che fai? Ti nascondi da me?»
Damien immobile, che guarda in terra.
Che la guarda in faccia.
Trentadue perle bianche di sorriso.
Daniela cerca di camuffare lo spavento e gli fa: «Vieni, entra. Puoi stare qui. È tutto come sempre».
Gli prepara da mangiare.
È grande e grosso, Damien. Sempre di più. Ma sulla faccia, ancora il viso di un bambino. Si mette in bocca manate di riso – occhi tondi e mento sporco.
Così, a letto, quella sera, Daniela ci pensa. Potrebbe essere una buona idea mandarlo in Italia, da Leonard?
In Sierra Leone, solo pessimi presagi. Si poteva anche far finta di nulla, ma la nuvolaglia avanzava. Ad avere un naso, la puzza si sentiva. La corrente elettrica non c’era quasi mai, gli scontri si moltiplicavano, ogni giorno poteva essere l’inizio di una stagione definitivamente cattiva.
Tre mesi prima avevano fatto irruzione in casa sua quattro ceffi vestiti da militari, mitragliatori a tracolla. Guerriglieri del Burkina Faso? Liberiani sotto il comando di Taylor? Sta di fatto che le avevano portato via tutto. Tappeti, tavoli, sedie. Perfino la televisione.
«Cosa diavolo fate? Siete pazzi?»
Non le avevan...