CAPITOLO 1
L’IMPERO È UN BELLISSIMO GATTO, CHIUSO AD AFFOGARE NEL SACCO DEI SUOI CONFINI
Lontana sul mare, l’isola emerse dall’acqua calma a poco a poco, il trentesimo giorno di luglio. Il vento era tutto a favore e gonfiava le vele con dolcezza costante.
Il timoniere della Galea Capitana s’appoggiava rilassato alla barra. Avevano navigato felicemente così, sotto cieli sempre amici, su una rotta che da Venezia scendeva di porto in porto, tra isole e fortezze, per il Golfo Adriatico, lo Jonio, l’Egeo, il Mar di Levante.
«Guardate là!» indicò Vincenzo Michiel, l’estroso Diplomatico che, dopo i rapporti segreti e i conteggi mercantili, ogni giorno s’inventava capricciose poesiole erotiche. E declamò: «Mirate come Cipro esce dal mare – bella donna che scosta le lenzuola – e s’alza, nuda, dal suo dolce letto…».
Mentre gli ufficiali Veneziani ridevano, il Pilota annunciò: «Ecco Famagusta!». La città del loro destino affiorava ormai sulla linea di costa: per prime, le alte torri della Cattedrale e poi, via via, palazzi e loggiati, e le palme nei giardini. Ma, intanto che le Galee s’avvicinavano, la massa che, a distanza, era sembrata un aspro terreno roccioso si rivelò invece la formidabile muraglia bastionata che racchiudeva l’abitato, dominava gli approdi e s’immergeva nel mare. Cioè, in quei giorni, il più invidiato possesso strategico della Repubblica Veneta.
E il Capitano Domenico Celio, Comandante dei Granatieri, giudicò con tecnica spavalderia: «Contro una fortezza come questa non s’arrischierà nessuno. È piantata sul mare: i nostri possono sbarcare rinforzi ogni mattina, senza sparare un colpo. Chi volesse investirla da terra, invece, può accanirsi lì attorno per tre anni. E poi tornarsene a casa».
La squadra s’indirizzava alla bocca del porto. Il Capitano Celio continuò, e pareva una lezione: «Rispondetemi voi: con quali forze, oggi e in un posto come questo, l’Impero Turco potrebbe inventarsi un’altra guerra?». E, sulla parola guerra, rise. «Appena ieri, li ha travolti quel disastro in fondo al Mar Nero. Ottanta o novantamila affogati, si dice. E la flotta impantanata nei campi di grano dei Russi!»
Risero ancora, e senza riflettere. Ma la voce di Vincenzo Michiel, il Diplomatico che scriveva poesie, questa volta tagliò le risate come una lama: «L’impresa del Mar Nero non è andata come la si racconta qui. In quei giorni, io ero a Istanbul, alla corte di Sultan Selim».
Non replicarono; perché tutti sapevano che lui aveva speso la vita, dai quindici anni in su, nei porti del Levante (se gli chiedevano quante lingue conoscesse, trascurava lo Spagnolo, il Latino e perfino il Veneto e alzava tre dita della destra: Turco, Arabo, Farsi. Lo intendevano a Izmir, a Damasco, a Medina, a Baghdad. Michiel Tre Dita, lo chiamavano).
E lui continuò, godendosi la celebrità: «Era una mattina d’inverno, fredda come può essere sul Bosphoros. E io vedo il ricchissimo Kassem Pacha che s’arrampica con il seguito sulla collina di Topkapi, e se ne va diritto all’Osmanli Devleti, la residenza dei Sultani. E mi domando: “Che deve raccontare a Sultan Selim così presto la mattina?”. Poi vedo che, sulla spianata di Yildiz, si spalanca la Bab’i Aali, la Sublime Porta e compare Mehmet Soqullu, il Wazir-i-Azam, il Capo del loro Governo, con il suo corteggio». Al solito, Vincenzo Michiel infarciva i discorsi con parole straniere, li trasformava in favole, paralizzava l’ignoranza degli ascoltatori. «E io penso: se Kassem e Soqullu arrivano insieme a quest’ora, insieme devono parlare. Qualcosa d’importante, allora! E m’immagino il Sultano che siede là, nella sua pelliccia di zibellino, e Kassem che si prosterna e saluta… Ma sapete che ha detto Kassem Pacha al Sultano dopo quell’inchino? Ha detto: Mio Signore, ti prego, ascoltami! Il nostro Impero è un bellissimo gatto, chiuso ad affogare nel sacco dei suoi confini.»
Il Diplomatico Michiel attese che l’immagine fantasiosa penetrasse nelle menti logiche dei militari, e poi ironizzò: «Non capite, vero? Non ha compreso neppure il Sultano. Ma il ricchissimo Kassem Pacha gliel’ha spiegata. “Mio Signore” ha detto, “a Settentrione ci pesa addosso l’Impero Germanico degli Asburgo, cent’anni di guerre. A Levante ci insidia la Persia, quella Dinastia di Sciiti, che sta rosicchiando tutte le terre della Siria. A Meridione, nelle pietraie lungo il Mar Rosso, il Bahr-i-Amer, corrono quelle tribù Arabe, sempre ribelli, che vantano d’esser nate dalla stirpe del Profeta. E, per finire il cerchio, le Fortezze che la Repubblica di Venezia ha piantato sul nostro Mare Jonio, e le isole, Creta e soprattutto Cipro, ci imprigionano la flotta. Mio Signore, questo è il sacco in cui affoga il nostro Impero! E mentre le nostre navi s’infradiciano, gli Spagnoli hanno conquistato lo Stretto di Gebel el Tariq, fra Africa e Europa, che fu nostro! E navigano sugli Oceani dove tramonta il sole, verso le nuove, immense Terre d’Occidente! E a ogni viaggio se ne tornano ricoperti d’oro”».
Gli ufficiali Veneziani, confusi da quella nuvola di nomi, tacevano prudenti. Anche perché si mormorava che Vincenzo Michiel nella sua biblioteca nascondesse – oggetto allora proibito e, quindi, pericolosissimo – un esemplare in lingua Araba del Qu’ran, il Corano.
Infatti, gli Scritti del Profeta Muhammad erano stati devotamente raccolti dopo la sua morte, nell’anno che era il 633 dell’Era Occidentale. Ma, in Europa, avevano osato stamparlo per la prima volta il Testo del Qu’ran solo nell’anno 1530, cioè dopo nove secoli, e soltanto a Venezia. Immediatamente papa Paolo III Farnese – sotto pena di scomunica – aveva comandato di bruciarlo. E così l’Occidente, per vederne una seconda, fedele edizione e incominciare forse a capirne qualcosa, avrebbe atteso un altro secolo e mezzo.
L’esperto Vincenzo Michiel assaporò il silenzio cauto degli ufficiali, sorrise vittoriosamente e proseguì. «Kassem Pacha ha detto al Sultano: “Il nostro Impero non sa come uscire dal sacco in cui sta rinchiuso. Ma io forse ho trovato il coltello per sfondarlo”. E ha srotolato una mappa in pergamena.»
«Una mappa?»
«L’ho veduta!» garantì Michiel. «Il lavoro di un cartografo davvero molto abile! Mostrava il Mar Nero e le terre che lo circondano. E Kassem Pacha, fermando il dito su Istanbul, ha detto al Sultano: “Noi siamo qui. Se navighiamo per Settentrione, ecco…”. Il suo indice ha percorso il Mar Nero e il Mare di Crimea, ha raggiunto la foce del fiume Don. E Kassem Pacha ha spiegato al Sultano: “Se Tu risali il Don fino ad Astrahan, scopri che, da quel punto al fiume fratello, il Volga, sono poche miglia. Ma nessuno può immaginare l’immensità del Volga, se non l’ha veduto! I Tartari, che vivono lassù, lo chiamano Itil, la vena del cuore. Perché vi si rovesciano, via via, le acque di altri quarantotto fiumi, e una metà viene dall’Europa e una metà dall’Asia. E se Tu, mio Signore, me lo comandi, io porterò migliaia di uomini, combattenti, manovali, ingegneri lassù dove Don e Volga sono così vicini, e scaverò tra loro un canale largo e sicuro”. Il Sultano ascoltava, ma non aveva ancora capito; e Kassem Pacha gli ha spiegato: “Il Volga, mio Signore, non dilaga nel nostro Mar Nero! Sfoga nel Mare Chiuso, il Caspio! E la tua flotta, partita da Istanbul, lo attraverserà e la Tua Gente, per una facile e sicura via di terra, raggiungerà il Turkistan, la patria dei nostri grandi Avi, e arriverà al cuore profondo della Cina. E prenderà tutte le sue ricchezze: perle e rubini, sete, spezie e pelli di tigre, tappeti, cotone, schiavi. Mentre gli Infedeli d’Occidente si perderanno negli sterminati Oceani con le loro navi vuote”.»
Gli ufficiali Veneziani seguivano il racconto affascinati, ormai: «E il Sultano?».
«Il Sultano ha detto sì. E io, da Istanbul, ho visto l’immenso convoglio che levava le ancore, e la folla salutava e diceva: “Vanno ad aprire una strada sull’acqua, fino all’altro capo del mondo!”» Vincenzo Michiel s’interruppe, e rise. «Il ricchissimo Kassem Pacha, però, s’era scordato che sulle coste di Crimea s’affollano gli eserciti Russi e, soprattutto, s’incontra il nemico da cui nessuno può difenderti: l’inverno, il vero, immortale Padrone della Terra di Rus. E tutti gli uomini del Sultano sono stati inghiottiti dal gelo.» Rise ancora, nel silenzio sorpreso dei militari: «E il sacco dove annega l’Impero Ottomano non è stato squarciato».
(Nell’Occidente distratto, non se n’era saputo nulla, o quasi. Secoli dopo, però, avremmo capito che quell’esplosivo progetto – scavare una via d’acqua tra Mediterraneo e Mar Caspio, cioè navigare, senza ostacoli, da Gibilterra fino in Asia Centrale, e di là raggiungere con sicura facilità il cuore profondo della Cina – possedeva una modernità economica e strategica quasi pari al taglio del Canale di Suez. Ma tentato, e purtroppo non riuscito, trecent’anni prima.)
Intanto che Vincenzo Michiel raccontava, le Galee Veneziane erano arrivate alla bocca del porto di Famagusta. E, ai molti militari imbarcati – uomini di ventura Dalmati, Toscani, Umbri, Pugliesi – i marinai, bene esperti della rotta, confidarono: «Tutti quelli che navigano per questi mari fanno scalo qui!». E spiegarono con entusiasmo che «nei vicoli lungo le mura meridionali, là in fondo!» e poi giù giù fino all’Arsenale, per decine di taverne sempre più degradate e rumorose, la vita incominciava al crepuscolo. Quel quartiere si chiamava da secoli Via della Passione – in origine con intenti penitenziali, a causa di un antico convento – ma adesso era la strada più famosa in tutti i porti del Levante.
«Non c’è bella puttana che prima o poi non sbarchi a Famagusta!» diceva un collaudato proverbio. Per ogni prezzo, ogni esotismo, ogni capriccio o stranezza, ogni frettoloso abbandono, floride e bionde fanciulle Russe o Moldave, scultoree schiave negre comprate nei mercati di Ondurman, scaltre ragazze Greche dell’Egeo, dolci e sottomesse Egiziane, in cantine o tuguri, stanze profumate, balconi affacciati nei vicoli o sgabelli sulla strada. Su tutto, l’Autorità Veneziana vegliava con disincantata esperienza: «Niente schiamazzi, niente coltelli, niente scandali!». E, nell’interno, v’erano sale di palazzi antichi e residenze ben guardate, e donne che sapevano muoversi con invitante eleganza per le raffinate fantasie di gran signori pigri.
Ma ora il Diplomatico Michiel non rideva più. Guardò gli ufficiali e, del tutto inaspettatamente, concluse: «Noi stamane sbarchiamo a Cipro. E quasi di certo voi tutti dovrete combattere, affinché il sacco dove affoga l’Impero Ottomano rimanga ben chiuso».
CYPRUS, INSULA LUXUI DEDITA
“Lussuriosi e molto innamoraticci” scrisse in quei giorni, con indignazione mescolata a nostalgia, frate Stefano de Lusignan, un letterato dalla vita religiosa e dal Casato storico, “gli abitanti di Cipro riguardano l’Onestà come un doveroso freno. Perché, altrimenti, sariano molto disbardellati. In Cipro, infatti, vi sono Publichi Luoghi di Piacere più che in ogni parte del mondo! E la natura, la bellezza, l’aere dell’isola invita a questo vizio, ai sollazzi, ai giochi… E non solo gli abitatori, ma subito anche i forestieri si adeguano… Perché trovano giardini bellissimi, e ogni sorta di frutti. E infinite, verdissime vigne. E sorgenti, e fresche fontane. E ogni giorno, con valenti cavalli e cani e falconi, cacciano lepri e pernici e, sugli stagni, l’anatre… E poi si dilettano di giocare alle carte. E banchettano assai spesso, e invitano li forestieri. E ballano tutti, uomini e donne, con ogni sorta di balli… Il porto principale, lucrosissimo di traffici, s’era chiamato Fama Augusti al tempo del Romano Imperio, rinominandosi Famagusta ai giorni delle Crociate. E oggi è nido di moltissime ricchezze, e di ogni possibile vizio che il danaro suole apportare.”
Dopo una lunga e morbida pace, quindi, tutti nell’isola, e specialmente a Famagusta, s’infastidirono per l’inatteso arrivo, da Venezia, di quelle Galee con molti armati.
E quando il nuovo Capitano Generale del Regno di Cipro, cioè il Governatore Militare (discendente da vecchia e severa famiglia veneta, i Bragadin, e preceduto da una fama durissima), prese terra con i suoi ufficiali, i Maggiorenti dell’isola, raccolti a riceverlo soffocando l’antico orgoglio indipendentista, cercarono, guardandolo, di decifrare il futuro.
E, abituati a solenni, canuti, distratti magistrati in toga, videro un inatteso quarantenne d’alta statura, il passo senza esitazioni, la divisa in quel superbo stile tardo cinquecentesco italiano che offriva al corpo maschile un’imponenza statuaria. E l’inquieto sentimento comune fu: «Sembra che voglia comandare davvero…». Mentre, ancora più preoccupante, i bene informati aggiunsero: «Ha trascorso tutta la vita sul mare!» (cioè nella temibile Armata Navale della Repubblica Veneta). «E fosse solo questo! Ha governato perfino le Galee dei condannati al remo. Migliaia di delinquenti, e i più riottosi.»
«E ora ce lo mandano qui?» Quei lontani rumori d’una improbabile guerra si materializzarono di colpo in una minaccia oscura, forse mortale, lo strisciare d’un serpe. Ma presto tutti conclusero che allarmarsi era assurdo.
«Davvero a Venezia parlano di un conflitto? E proprio in quest’isola?»
«Sono cinquant’anni che si chiacchiera di guerre con l’Impero Ottomano! E qui non succede mai niente.»
Anche i mercanti che, dalle coste d’Egitto e di Siria, facevano scalo a Cipro con i navigli colmi, raccontavano: «Si vende e si compra di tutto! Mai visto un traffico così vivace». I militari delle Galee, che li scortavano contro gli inestirpabili pirati Levantini, confermavano: «Siamo venuti via tranquilli e sicuri». Nel ricchissimo e fortificato porto di Famagusta s’affollavano i compratori. «Sembra il Born di Barcelona!» esclamavano Genovesi e Catalani, «piantato sul mare con torri e bastioni, imprendibile!» Il denaro correva, le trattative più accese arrivavano fin sui moli, con i carichi di mercanzie trascinati dai facchini. E – poiché il denaro alimenta i sogni più irrazionali – se qualcuno insisteva su oscuri rischi d’invasione, gli altri in coro troncavano: «Fantasie di malaugurio! Mai lavorato tanto come in questa estate». E chi visse nella dolce isola di Cipro quell’autunno dell’anno 1569, irrealmente sospeso su un futuro indecifrabile, scrisse poi che le rose, «come se fosse stato un addio», rifiorirono lungamente nei giardini.
L’indomani, dal castello alto sul porto, il nuovo Capitano Generale di Cipro osservava l’orizzonte quando incontro a lui si mosse, con pesante solennità nella lunga toga nera, il Capo del Consiglio Cittadino, l’avvocato Mathias Solphios, d’antica famiglia Greca «… e di Religione Ortodossa!».
Salutò con l’ossequio imposto dal cerimoniale e poi, mentre tutti li spiavano, si volse a indicare la calma vastità del golfo, ricordando che l’anno prima una squadra Turca di sessanta Galee l’aveva riempito, gettando le ancore in rada, e sorrise: «Ci avevano annunciato una visita di cortesia!». (Ma – intanto che i marinai Veneziani e Ciprioti criticavano con imprudente superiorità il fasciame mal connesso di quei navigli usciti dai cantieri del Bosphoros e il loro unico, pesante, antiquato cannone di prua – gli ufficiali Ottomani avevano attentamente ammirato i possenti bastioni di Famagusta.)
L’avvocato Solphios dichiarò: «Ho viaggiato molto, sempre per mare: la Sicilia, Napoli, la Sardegna, Genova, e Marseille, e la Costa Brava… Ebbene, nulla in quelle città è paragonabile alla potenza di Venezia…».
Il Generale Bragadin accennò con orgoglio a ringraziare, ma l’avvocato Solphios continuò: «Se si naviga di porto in porto fin lassù e poi si torna qui per la stessa rotta…». La sua voce baritonale, addestrata a risuonare in saloni amplissimi, sfumò in un tono cauto, quasi segreto; e tutti capirono che non descriveva il piacere dei viaggi. «… Ebbene, solo allora si comprende quanto – in questa nostra dolcissima Cipro – noi siamo isolati e lontani.» Lo guardavano, lui assaporò la pausa. «… E quanto, al contrario, ci si mo...