IL SOGNO DI BILLY
1
La strada, dritta come un filo a piombo, tagliava spietata la pianura ingiallita dal sole e proseguiva oltre, infilandosi nel cuore dell’America, in un orizzonte sbiadito dal calore soffocante dell’estate.
Billy si asciugò con il braccio la fronte lucida di sudore e lanciò un urlo, che era come un grido di guerra contro il centro di quel cuore, perché era lì che voleva andare, nonostante i suoi quattordici anni e il fatto che quel cuore, gli era stato detto, fosse duro come pietra.
Lasciava la riserva, Spring Creek, il posto dov’era nato, l’inferno che avrebbe dovuto amare.
Ma non era facile amare una terra incapace di generare qualcosa che non fosse selvatico, frutto soltanto della sua stessa caparbietà , e proprio per questo brutale, eccessivo. Non era facile amare una vita che consisteva nel collezionare alla meno peggio una sequenza di istanti presenti, fatti spesso di alcol, violenza, angoscia, rabbia e di un disperato niente. Non era facile amare un luogo dove futuro era un termine sconosciuto. E ci voleva una gran convinzione a chiamare casa una malferma costruzione di lamiera che diventava fornace o ghiacciaia a seconda delle stagioni.
La maggior parte della gente della riserva non aveva lavoro né desideri. Non aveva pensieri né volontà . Non possedeva alcun potere, neppure quello delle proprie scelte.
La maggior parte della gente della riserva si limitava a sopravvivere.
Sua madre sopravviveva, suo fratello sopravviveva, e così faceva Steve, il suo patrigno, e tutti quelli che Billy conosceva. Ma lui non voleva solo sopravvivere, non gli bastava. Lui voleva vivere. Provarci almeno. Come aveva fatto sua sorella Nadine, che se n’era andata qualche anno prima.
E avevano poco da riempirsi la bocca con tutte quelle storie sulle origini, sul passato glorioso, sulle tradizioni, sull’orgoglio nazionale e sulla fierezza di un popolo. Non c’era fierezza in un piatto vuoto, non c’era traccia di orgoglio in un adulto ubriaco, nessuna gloria nell’elemosinare i dollari dei turisti.
A suo padre, uno di quelli che aveva sostenuto la necessità di restituire ai nativi americani la dignità , le terre sottratte con l’inganno e gli stessi diritti dei bianchi, che si era battuto manifestando, che aveva alzato la voce, che si era indignato, i poliziotti avevano spezzato la schiena a manganellate. Era accaduto durante l’occupazione di Wounded Knee, nel ’73; Billy allora aveva soltanto tre anni. Suo padre si chiamava Leonard Paige, detto Big Dreaming Bear, perché era grosso e forte come un orso, e perché sognava una vita diversa. Aveva lanciato un sasso contro un agente beccandolo alla testa e i suoi colleghi non ci avevano visto più. Si erano sfogati come animali rabbiosi, liberi, finalmente, di poter dare una lezione a un muso rosso insolente che non sapeva stare al suo posto. Big Dreaming Bear era stato portato via in barella, un braccio che penzolava nel vuoto; mentre si allontanava, diceva che non sentiva più le gambe. Per tutti gli altri l’occupazione era finita il giorno dopo, con le manette ai polsi.
Mentre gli attivisti dell’American Indian Movement e di altre associazioni proseguivano con fortune alterne a protestare per i loro diritti, l’ombra dell’uomo che era stato Leonard Paige trascorreva gli ultimi anni della sua esistenza raggomitolato su una seggiola di plastica gialla, a orinare in un sacchetto, senza sogni. Uno strazio, una visione terrificante per tutti quelli che lo avevano conosciuto. A questo era servito alzare la testa, dicevano in molti, gli stessi che se ne stavano buoni a obbedire, che non facevano domande. Ma poi, al funerale, nessuno se l’era sentita di mancare e il corteo che aveva seguito la bara era stato più lungo di un miglio.
Tutte queste cose Billy non se le ricordava direttamente. Le aveva sentite raccontare, ancora e ancora, e negli anni si era convinto di un’idea: se volevi ottenere qualcosa dovevi essere furbo, più furbo del tuo nemico. Non pensava mai a suo padre come a un eroe, ma come a qualcuno che si era fatto fregare.
E in fondo, se il passato davvero era esistito – ma Billy cominciava a dubitarne – se il popolo dei Lakota aveva davvero vissuto su quelle terre per centinaia d’anni, libero e nobile come dicevano i vecchi, ora tutto era svanito e ciò che una volta era stato pesava quanto un sogno o una manciata di terra secca. O la seggiola sulla quale si era spento suo padre.
Il passato era passato. Era lontano, più lontano di qualunque posto sulla Terra.
Un falco, alto nel cielo, lanciò il suo richiamo, una specie di fischio acuto. Billy alzò il pugno e rispose. Nel cerchio tutto uguale dell’orizzonte non c’erano che loro due, ragazzo e uccello. Entrambi liberi.
Riprese a camminare.
Davanti aveva la strada, coperta di segni come le facce di quei vecchi che ricordavano i tempi andati fuori e dentro il bar di Shelby, invitante e terribile, vuota e magnifica, piena, ora, di lui e del suo piccolo coraggio.
Dietro, un passato che non lo riguardava più.
2
Sentì un motore alle sue spalle.
Le auto della riserva facevano un rumore inconfondibile. Erano vecchie, scassate, e risuonavano di lamiere arrugginite, di motori sfiancati, di marmitte forate, arrancando miseramente sull’asfalto. Le auto dei turisti o degli americani di passaggio, invece, non le sentivi nemmeno arrivare: sfrecciavano sibilando, quasi sollevate da terra. Erano macchine dai trentamila dollari in su, un gruzzolo che un nativo americano non avrebbe salutato in una vita intera, che era un terzo più corta rispetto alla media del Paese.
Billy tirò fuori il braccio e alzò il pollice, nel segno universale degli autostoppisti. Se davvero voleva raggiungere il cuore dell’America non poteva pensare di farlo a piedi.
L’auto rallentò, fino a procedere alla stessa velocità di Billy.
«Ehi!» disse una voce.
Billy non si voltò. La voce era quella di Steve, il suo patrigno.
«Non ci torno a casa» rispose proseguendo.
L’uomo si sporse dal finestrino. «Peggio per te» disse con indifferenza da dietro un paio di enormi occhiali quadrati. «E meglio per me» aggiunse ghignando. «Un posto in meno a tavola.»
Billy sollevò di nuovo il braccio. Stavolta, anziché il pollice, mostrò il medio.
L’auto, una Ford Ranchero azzurro cielo, impestava l’aria del suo brontolio e del puzzo di un motore mal carburato.
«Che diavolo vuoi?» chiese Billy.
«Ho promesso a tua madre che avrei cercato di convincerti. Le dirò che non c’è stato niente da fare. Che eri deciso. Le si spezzerà il cuore, poveraccia.»
«Fottiti, Steve.»
L’uomo alzò le spalle. Indossava una camicia vistosa, a righe, con le maniche arrotolate sugli avambracci. «Non credere che Nadine ti piglierà con sé.»
«Non vado da Nadine.»
«E dove, allora?»
«Lasciami in pace.»
«Cosa devo dire a tua madre?»
«Niente.»
L’auto si fermò, indecisa. Poi con un balzo fece inversione a U, infilando la careggiata deserta in direzione opposta. Due colpi di clacson furono il suo saluto.
Billy detestava Steve. Non che lui gli avesse fatto del male, nel senso che non l’aveva mai picchiato o altro. Si limitava a tenere l’aria che molti adulti mostrano nei confronti dei ragazzini – quel misto di superiorità e falsa indulgenza che ti fa sentire una nullità , una lattina vuota sul ciglio della strada – e a dire una battuta tagliente di tanto in tanto. Niente per cui farsi andare il sangue al cervello. Eppure lo detestava in maniera quasi fisica, tipo un’allergia, roba così. Il fatto era che Steve aveva preso il posto del padre di Billy, in casa e forse nel cuore della madre: ecco qual era la sua colpa. Una colpa non espiabile. Non era un uomo cattivo, non più di altri. Lavorava saltuariamente come meccanico in un’officina fuori dai confini della riserva, in mezzo ai bianchi e per i bianchi, ma in un anno i giorni in cui rimaneva a casa erano di gran lunga più di quelli che trascorreva riparando automobili. Quando non lavorava, Steve frequentava gli amici. Di solito si radunavano come un branco a casa di qualcuno, a bere birra e a lamentarsi dei loro guai. A volte il branco si riuniva da Billy, e in quelle occasioni lui usciva. Non era casa di Steve, quella. Era stata di Big Bear, e ora apparteneva a Rose, semmai. Non era casa di Steve, ma Steve si comportava come se lo fosse. Li faceva venire e quelli venivano, li faceva bere e quelli bevevano. Ce l’avevano con il governo, con i bianchi, con l’ufficio tribale, con la BIA, l’Agenzia degli Affari Indiani, con i giovani e con i vecchi. Ce l’avevano con tutti, perfino con i turisti, tranne che con loro stessi, nonostante non sapessero far altro che stare seduti a lamentarsi e a bere birra. Era un momentaccio in generale, non solo per i nativi, e Billy sapeva che a Chilliwak, a Silver City, a Kasdan, a Pierre e in molte altre città c’era chi faceva la fila davanti agli uffici di collocamento o alle fabbriche, alla ricerca di un posto di lavoro. Ma loro no. Loro stavano seduti a bere birra e a dirsi quanto erano sfortunati a non avere soldi, a non avere un lavoro fisso. Perché non alzavano il culo e andavano a cercarselo, un lavoro?
Roy, invece, con Steve ci andava d’accordo. Roy era il fratello di Billy, diciassette anni, naso grosso, braccia lunghe e una gran passione per gli alcolici e i furti. Roy a trovare lavoro non ci pensava nemmeno. Certe volte restava a bere con gli amici di Steve e si dava arie da grande, parlando a vanvera, ridendo e dicendo parolacce. In quelle occasioni Billy riusciva a detestare anche suo fratello. Una volta Roy aveva fatto vedere a Billy un rotolo di banconote. Aveva detto di averlo fatto in una sera. Era bastato arrivare a Chilliwak e spaccare con una mazza il finestrino di qualche auto. Aveva arraffato delle giacche, la borsa di un dottore e altre cose che aveva rivenduto a un bianco, lì in città . A che serviva lavorare? aveva chiesto. Billy aveva guardato il rotolo di banconote. Era convinto che solo quella esterna fosse da dieci dollari; le altre dovevano essere da uno. In ogni caso i furti non lo interessavano. Lui aveva altro per la testa. Lui, a differenza di Roy, di Steve e di tutti gli altri, aveva un sogno.
3
Rose non si era opposta, non l’aveva fermato.
Non sarebbe servito, probabilmente, ma avrebbe dovuto almeno provarci, così la pensava Billy. Per quanto ne sapeva, sua madre non aveva dissuaso nemmeno Nadine. L’aveva lasciata andare più o meno nello stesso modo che aveva usato con lui, come si potrebbe lasciar andare una foglia in un corso d’acqua, abbandonandola al proprio destino, seguendola con lo sguardo per un po’, e alla fine girandosi dall’altra parte. Non aveva lottato per i suoi figli. Non era naturale.
Forse aveva ragione Steve: in fondo tu...