47 ronin
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47 ronin

  1. 156 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Nel Giappone del XVIII secolo una legge puniva con la morte tutti coloro che osavano far scorrere il sangue entro le mura della città imperiale, ma Asano Naganori, giovane guerriero coraggioso e intransigente, trasgredendo alla regola, sguainò la spada di fronte alle mirate provocazioni del ministro dei Riti, Kira. Il gesto gli costò la condanna a morte ma i suoi vassalli, quarantasette samurai ormai senza signore, giurarono di riscattarne la memoria. Per un anno intero pianificarono in clandestinità la vendetta, celando il loro sprezzo per non alimentare la diffidenza del ministro dei Riti. Una storia tragica realmente accaduta, giunta fino a noi attraverso la testimonianza dell'unico guerriero lasciato in vita per onorare degnamente il valore, la lealtà e l'eroismo dei suoi compagni: quei quarantasette ronin entrati nella leggenda, celebrati ora anche in uno spettacolare film con Keanu Reeves.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817071543
eBook ISBN
9788858665725

XXI

Nel freddo silenzio e nell’oscurità profonda seguivamo il nostro capo. La neve scricchiolava sotto i nostri passi. Talvolta un’arma tintinnava contro una corazza. Nessun altro rumore turbava la quiete notturna. Camminavamo uno dietro l’altro, distinguendo appena, nel buio, l’ombra più scura che seguivamo da vicino.
Ben presto ci fermammo ai piedi del muro che delimitava sul retro lo yashiki del ministro. Hara, parlandoci all’orecchio, ci fece notare un grosso ramo di pino che oltrepassava la cima della muraglia. Assicurò solidamente uno spesso filo al manico della sua lancia corta e la lanciò come un giavellotto al di sopra del ramo, rasente al muro. Al filo era legata una forte corda a nodi, che tirò.
Poiché ero il più giovane e il più leggero, fui scelto per arrampicarmi sul muro, legare la corda al ramo fuori dal muro e annodarne una seconda all’albero, al fine di permetterci di scendere agevolmente entro la cinta.
Il grande pino, all’interno, era cresciuto tra due edifici e aveva formato un angoletto così buio, così ben riparato che, ridiscendendo, proposi di ammassarci lì fin da ora, per essere pronti ad attaccare senza indugio. Hara, fidandosi della mia descrizione, acconsentì. Subito cominciò la scalata, in silenzio e con calma. In poco tempo eravamo all’interno del muro, ai piedi del pino.
Serrati uno contro l’altro, osavamo appena respirare, per timore di dare l’allarme. Ma fummo ben presto rassicurati. Nel palazzo, non un rumore. Non una luce sotto la linea scura dei tetti carichi di neve.
Hara ci spiegò la disposizione degli edifici. A sinistra e in fondo dormivano le guardie. Davanti a noi, e un po’ sulla destra, c’era la meta del nostro gruppo: il padiglione in cui viveva il nostro nemico. L’ordine era di precipitarsi lì, di bloccare le due sole porte che davano accesso al cortile e di impedire a chiunque di entrare o uscire da quel lato, e infine di correre alla volta della stanza in cui speravamo di trovare Kira. Era, beninteso, vietato colpire le donne; ma tutti i discendenti maschi del nostro nemico dovevano essere massacrati senza pietà.
Il silenzio avvolse nuovamente la nostra piccola truppa, gelata poco a poco dal freddo della notte. L’attesa si prolungò, interminabile, inquietante.
Che stava succedendo dunque? L’ora era senza alcun dubbio trascorsa. I due altri gruppi di congiurati aspettavano forse qualche segnale da parte nostra? Oishi non era riuscito a forzare l’entrata principale? E Hazama Mitsuki, la cui truppa doveva scalare il muro in un altro punto del palazzo, poteva aver rinunciato all’impresa?
Sapemmo, in seguito, che i due gruppi avevano trascorso, come noi, la serata in un ristorante vicino al palazzo, dicendo di essere in viaggio verso la residenza di un signore presso il quale avevano trovato buona accoglienza. Avevano finto di ubriacarsi… e senza dubbio Akaigaki doveva aver mostrato il numero di coppe che poteva bere senza cadere per terra. Avevano litigato, e il loro oste aveva dovuto pregarli molto rispettosamente di non attirare da lui le ronde di guardia e di andare a terminare altrove la loro discussione. Allora erano spariti nella notte gelata. Ma erano riusciti come noi? L’incertezza ci faceva tremare non meno del freddo.
Bruscamente la calma sepolcrale che pesava sulla città fu spezzata. Dei rulli di tre colpi di tamburo rombarono, tonanti. Ne contammo nove. Non c’era più alcun dubbio: era il segnale.
Clamori selvaggi scoppiarono allora dal lato della grande porta e verso il fondo dello yashiki: le altre due truppe attaccavano. La nostra ora era giunta.
Scatenati, inebriati all’istante dalla gioia di combattere, arriviamo in un lampo alle porte del padiglione, lanciando urla tali da gelare il sangue anche ai più coraggiosi.
Le due porte vengono sfondate da una spallata. Alcune guardie, che dormivano al fioco chiarore di un lumino da notte, si drizzano in piedi. Ma vengono abbattute prima di avere il tempo di afferrare le armi. Lasciando tre uomini davanti a ciascuna porta per difenderne l’accesso, attraversiamo correndo le sale vuote.
Clamori e passi precipitosi ci vengono incontro. Si tratta senza dubbio di nemici. Ma Hara grida: «Montagna». Dieci voci rispondono: «Torrente». Sono i guerrieri di Hazama, entrati dall’altro lato del padiglione. Tutte le uscite sono ormai bloccate. La nostra preda è in trappola: non può più sfuggirci.
Le porte vengono sfondate una dopo l’altra. Tutto è vuoto. Il palazzo è forse deserto?
Ma delle luci si accendono da ogni lato. Grida, richiami, urla di sfida risuonano; la resistenza comincia. Arriviamo finalmente davanti ai pannelli illuminati. Senza preoccuparci delle porte, ci apriamo a colpi di spada un ampio passaggio nei fragili tramezzi.
La nostra truppa, facendo irruzione, si ritrova in un vasto salone rischiarato da molte lanterne, dove una decina di guardie indossano in fretta le loro armature. Uno di loro si precipita su di me, con la spada levata. Ma cosa può fare? Il vile metallo della sua lama si spezza sull’ammirevole acciaio della mia armatura, fabbricata per noi da uno dei più illustri armaioli dell’Impero.
Prima che i nemici possano organizzarsi, attacchiamo e otteniamo la vittoria. Le lanterne vengono rovesciate a calci. Ben presto, nella sala, restano soltanto dei feriti che gemono nell’oscurità profonda.
Portiamo via l’ultima lanterna e proseguiamo la nostra vittoriosa avanzata. In una stanza, donne semisvestite si prosternano, implorando la nostra pietà. Uno di noi scorge un ragazzo di una dozzina d’anni e gli chiede chi è. Il ragazzo, con fierezza, risponde: «Sono il figlio di Kira!».
Le ultime parole non sono ancora uscite dalla sua bocca che già la sua testa rotola al suolo, tra le urla strazianti delle donne.
Ancora corridoi e stanze vuote. Kanzari, che ci guida, finalmente grida: «Ecco la camera di Kira!».
È deserta. In un angolo, un lume da notte rischiara il biancore puro delle fini stuoie e i vivaci colori delle coperte imbottite in disordine. Il nostro nemico è fuggito.
Kanzari si precipita e palpa le sete gonfie di lana.
«Sono ancora calde!» esclama. «Il vile non può essere lontano.»
Nel frattempo risuonano dei richiami: le guardie si sono finalmente radunate; esse attaccano con violenza la truppa di Oishi, che aveva infranto il portone a colpi d’ascia ma era stata rallentata dagli uomini armati che facevano la guardia sotto il portico. Hara e Hazama mandano tutti i nostri uomini in soccorso al nostro capo e mi tengono con loro per ispezionare il palazzo.
Stanza dopo stanza, visitiamo tutti i possibili nascondigli: guardaroba, mucchi di coperte, angoli e angoletti.
All’esterno, i clamori continuano: saranno in grado, i nostri, di resistere fino a darci il tempo di uccidere il nemico?
Improvvisamente una grande luce illumina i graticci delle finestre: scoppiano dei crepitii, dei rimbombi. Attraverso la carta dei pannelli, rapidamente strappata, vedo delle fiamme uscire da un edificio vicino al portico dell’entrata. Una lanterna rovesciata ha senza dubbio scatenato l’incendio. Mi viene un’idea; grido a Hara: «Diamo fuoco allo yashiki; la vecchia volpe sarà arsa nella sua tana».
Hazama non mi lascia finire: «Non sapremmo mai se è morto. Bisogna che perisca sotto i nostri occhi».
La ricerca dunque continua. Torniamo nella camera di Kira. Il lume da notte è sempre acceso, solitario.
Finalmente, davanti a un pannello, alla luce della mia lanterna, scorgo un sandalo di paglia finemente intrecciata. Cerco l’altro con gli occhi senza trovarlo. Allora do una scrollata al pannello, che resiste.
Hara mi guarda e scuote la testa: «Conosciamo tutti i passaggi» dice.
«Perché un sandalo soltanto? Lo ha sicuramente lasciato cadere durante la fuga».
E mi getto, a spallate, contro il pannello. Il rivestimento in legno cede e si abbatte a terra. Ho appena il tempo di aggrapparmi ai bordi spezzati, ma lancio un grido di trionfo: davanti a me si apre un lungo passaggio stretto e buio.
Hara avanza per primo. Io lo seguo, tenendo alzata la lanterna. Il passaggio si allarga. Alla fine ci ritroviamo in una grande camera a volta, dai muri di pietra. Vi sono ammucchiati casse e fagotti polverosi. È, in tutta evidenza, il tesoro segreto dell’avaro.
All’improvviso due samurai, che stavano nascosti vicino all’entrata, si lanciano su di noi e cercano di rovesciare la mia lanterna. Non c’è più nessun dubbio: Kira è qui, e suoi fidi cercano di farlo scappare.
Per fortuna Hazama e Hara avevano visto i due valorosi e li fermano, gridandomi di sorvegliare il corridoio dietro di loro. Riconosco uno degli assalitori: è Shokumori, il consigliere del ministro, un samurai dalla pura devozione, guerriero rinomato per la sua abilità. Hara gli tiene testa, ma deve far ricorso a tutta la sua perizia. Le sue armi ammirevoli lo proteggono. Ma ovunque colpisca, la sua spada incontra la spada dell’avversario. Lampi blu sprizzano dall’acciaio fine. I colpi accelerano la loro cadenza… I combattenti sono senza fiato. Di colpo il mio cuore si ferma: Shokumori, con una finta, ha schivato la lama del suo avversario; la sua spada si è abbattuta con tutta la forza sulla spalla sinistra di Hara. Ora, con le nostre pesanti lame giapponesi, un solo colpo è sufficiente per troncare una spalla e far cadere il braccio per terra. Lo spesso spallaccio d’acciaio è tranciato: ne cade un frammento con un rumore di ferraglia. Hara lascia l’impugnatura della sua seconda spada, ma approfitta del fatto che il suo nemico è rimasto scoperto e, in un sol colpo, gli fa saltar via la testa.
L’avversario di Hazama è già gravemente ferito a tutte e due le braccia e disarmato. Dal canto mio, non ho smesso di frugare con gli occhi gli angoli bui tra le casse. Un movimento, proprio in fondo al corridoio, attira il mio sguardo. Mi precipito. Il chiarore della mia lanterna illumina un uomo in abito di seta bianca che si fa piccolo piccolo dietro un mucchio di fagotti. Lo afferro. Resiste. Al mio richiamo Hara viene in mio aiuto, e lo tiriamo fuori dal suo nascondiglio. Invano lo sconosciuto cerca di coprirsi il volto con le braccia piegate. La luce della lanterna rischiara brutale un viso contratto per lo spavento. Tutti e due gridiamo all’unisono, trionfalmente: «È Kira! È ben visibile sulla sua fronte la cicatrice con cui lo ha marchiato il nostro daimyo!».
L’uomo si dibatte debolmente, e balbetta: «No, non è vero. Io non sono Kira. Ma questo non importa. Vi do mille ryo d’oro per uno se mi lasciate andare».
Senza rispondere, Hara, con una ginocchiata alle reni, lo fa rialzare e lo costringe a camminare davanti a noi fino alla grande camera che dà sul cortile d’onore. Lì solleva uno dei pannelli della finestra e, portando un piffero alle labbra, fischia lungamente, tre volte.
Nel cortile, il frastuono della battaglia si placa. Soli salgono fino a noi i lamenti dei feriti o i gemiti acuti delle donne. L’incendio dell’edificio finisce di consumarsi sprigionando, di tanto in tanto, alte fiammate. I nostri hanno evidentemente vinto.
Io mi stupisco che le truppe della guardia dello Shogun non siano venute in soccorso del ministro. Venimmo a sapere più tardi che il principe di Yeso, uno dei più potenti dell’Impero, il cui palazzo si ergeva giusto lì di fianco, aveva, fin dall’inizio del combattimento, inviato un messaggero allo Shogun per far sapere che i Ronin di Enya stavano penetrando nello yashiki di Kira. A nome di tutti i daimyo che approvavano questo desiderio di vendicare l’ingiustizia, chiedeva che la sentenza del Cielo non fosse ostacolata in nessun modo.
Si venne a sapere anche che, dopo il primo allarme, delle ancelle di Kira erano accorse, portandogli le sue spade e la sua armatura. Ma lui, tremante, aveva domandato soltanto da che lato veniva attaccata la sua residenza, al fine di fuggirsene dall’altro. E quando era stato informato che ci eravamo già impadroniti di tutte le uscite non aveva pensato ad altro che a nascondersi. Invano la sua sposa lo aveva supplicato di armarsi e di lottare alla testa dei propri samurai. Invano il suo Primo consigliere, Shokumori, aveva cercato di correre a combattere insieme ai difensori. Kira lo aveva fermato; poi, cacciando le donne, aveva chiuso tutte le porte. Alle indignate rimostranze di Shokumori e del suo secondo aveva risposto soltanto: «Se le mie guardie vincono è buona cosa. Ma l’esito della battaglia è incerto. Ora, io ho solo questa esistenza, e voglio conservarla. Il mio nascondiglio è sicuro, ignoto a tutti, perché l’ho costruito da solo. Se mi rifugio lì, lo yashiki tutto intero può bruciare, senza che il fuoco mi sfiori. Voglio però che voi due stiate con me. Conoscete troppo i miei segreti perché vi lasci nelle mani dei miei nemici».
Premendo allora una molla nascosta, fece aprire un pannello e spinse i due samurai umiliati nell’ombra del passaggio segreto. Ma, spaventato, sentendo i colpi che noi già battevamo sulle sue porte, richiuse in fretta il pannello senza accorgersi che gli era caduto uno dei sandali. Gli stratagemmi meglio orditi sono sventati spesso grazie a insignificanti negligenze. Non basta immaginare un piano sottile: bisogna anche prevederne la realizzazione fin negli infimi dettagli.

XXII

Kira, tremante per la paura e per il freddo, si era seduto, avvolto in una coperta imbottita. Noi, in piedi, spada alla mano, eravamo pronti a colpirlo se avesse fatto il minimo tentativo di fuggire.
Nel silenzio e nella penombra della grande sala aspettavamo, senza una parola. Il luccichio tremulo della nostra lanterna faceva danzare le ombre sui tramezzi delicatamente ornati. Gravi e cupi pensieri occupavano i nostri animi. Il nemico era sul punto di morire. Ma noi, i vendicatori, non avremmo tardato a seguirlo: la maestà della legge non poteva lasciarci vivere. Quella stessa sera, forse, la mia giovane sposa sarebbe stata vedova, e il mio bambino orfano. Il mio cuore sanguinava. L’amarezza mi contraeva la gola.
Un tinnire d’armi risuonò infine, insieme a passi pesanti. Delle luci arrossarono la trasparenza dei pannelli a graticcio. Oishi apparve, l’armatura a brandelli, coperta di sangue. Era seguito da parecchi dei nostri.
Vide Kira e, avvicinatosi a lui, si inginocchiò e lo salutò cerimoniosamente. Il ministro, con gli occhi fissi, lo guardava, continuando a tremare. Infine il nostro capo si mise seduto e disse: «Signore! Con la vostra condotta insolente e ingiustificata avete provocato la collera del nostro daimyo. Egli ha levato la sua arma su di voi. Ma voi, lungi dal difendervi, come deve fare un nobile, un samurai… voi siete fuggito. E per sfuggire a un nuovo attacco avete vilmente comprato la protezione della legge: avete fatto ingiustamente morire il nostro signore. Ma sapevate bene che il vostro crimine meritava la morte, dato che avete preso le più grandi precauzioni per evitare il castigo. Per riuscire a penetrare le vostre difese abbiamo dovuto rinunciare a tutti i nostri sentimenti, incorrere nel disprezzo universale e fingere un abietto oblio. Così vi abbiamo ingannato. Vi siete illuso che sareste rimasto impunito il giorno stesso in cui la vostra fine si avvicinava».
Oishi, allora, trasse dalla cintura un pugnale, che prese a due mani e portò per un istante alla fronte: «Vorrete, senza alcun dubbio, morire della morte dei nobili, mediante il seppuku. È auspicabile che questo pugnale, coperto ancora del sangue del mio padrone, sia lavato dal vostro. Vi prego di compiere senza indugio la cerimonia suprema».
Ma Kira, tremante, indietreggiava invece di afferrare l’arma che gli veniva offerta. Oishi, sempre inginocchiato, aspettò un momento, tenendo il pugnale con entrambe le mani. Poi si rialzò, dicendo: «Poiché voi rifiutate di morire come si addice al vostro rango, perirete della morte riservata alle bestie. La vergogna insudicerà per sempre il vostro nome».
Con il pugnale nella mano destra, si chinò verso Kira e, dopo una breve lotta, lo afferrò per i capelli. Poi, con un movimento del polso, gli rovesciò la testa all’indietro, scoprendo la gola. Con tre colpi dell’arma affilata, il collo era tagliato. Il corpo mozzato barcollò e cadde pesantemente, lanciando grandi getti di sangue.
Oishi, tenendo ferma col piede una coperta di seta, ne stracciò un pezzo e vi avvolse la spoglia, da cui colavano ancora gocce nerastre.
Allora, rovesciando con un colpo il lume da notte, il cu...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. Epilogo - In funzione di preludio
  6. I
  7. II
  8. III
  9. IV
  10. V
  11. VI
  12. VII
  13. VIII
  14. IX
  15. X
  16. XI
  17. XII
  18. XIII
  19. XIV
  20. XV
  21. XVI
  22. XVII
  23. XVIII
  24. XIX
  25. XX
  26. XXI
  27. XXII
  28. XXIII
  29. XXIV
  30. XXV