Enne
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Enne

Inchiesta sulla nuova criminalità 2.0

  1. 179 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Enne

Inchiesta sulla nuova criminalità 2.0

Informazioni su questo libro

Enne è il simbolo dell'azoto. È un gas incolore, insapore, invisibile, ed è il più diffuso nell'aria. È ovunque. Un po' come la criminalità grazie a Internet. Negli ultimi anni le nuove tecnologie hanno straordinariamente semplificato la nostra vita quotidiana: con un clic ognuno di noi compie operazioni che in passato implicavano ore di lavoro, code allo sportello, moduli da compilare. Ne siamo entusiasti, ma spesso non pensiamo che anche le mafie si sono inserite — in modo tanto pericoloso quanto furtivo, invisibile — nel web, scoprendovi nuove armi e un business senza precedenti. Oggi, per esempio, il mercato della droga non si svolge nelle piazze buie e malfamate, ma in strati profondi della Rete; i pusher decidono i loro movimenti e prendono appuntamento con i tossici su Facebook; in ambito telematico si organizza il riciclo di denaro e le minacce di estorsione diventano virtuali ma non per questo meno temibili. Allo stesso tempo, una volta appurato che clonare carte di credito e rubare le identità online — il cybercrimine — rende più del narcotraffico, è nata una nuova generazione di picciottihacker. Dopo essersi occupato per anni di 'ndrangheta "tradizionale", Biagio Simonetta si è immerso in questo nuovo universo liquido e impalpabile e ne ha delineato i contorni offrendoci un'analisi lucida e spaventosa della criminalità 2.0. Enne si legge come un romanzo da brividi, ma descrive una realtà vicinissima a ognuno di noi.

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Informazioni

Anno
2014
Print ISBN
9788817072250
eBook ISBN
9788858664896

1

#Spaccio2.0

«Internet è un dono di Dio.»
Papa Francesco






Tony è strafatto di cocaina. Ormai è finita, è un uomo morto. Ma la coca lo fa sentire ancora immortale, invincibile. Sanguinante e senza scampo, continua a urlare dalla balconata interna della sua mega villa: «Avanti, brutti finocchi bastardi! Vi ci vuole tutto l’esercito per eliminarmi. Con chi vi credete di fare la guerra? Io sono Tony Montana. Sto ancora in piedi». Un sicario di Alejandro Sosa, detto The Skull, indossa occhiali scuri e si muove con passo felino. Gli arriva alle spalle, imbracciando un fucile a canne mozze che bucherebbe anche il cemento armato. Tony è spacciato. The Skull preme il grilletto, l’esplosione è un rumore sordo. Montana cade morto dentro la sua piscina. Di pancia. La statua che lo sovrasta regge una scritta luminosa: THE WORLD IS YOURS. Il mondo è tuo.
Continuo a rivedere il finale di Scarface come un’ossessione: finisce e riavvolgo il nastro. È come un bisogno da soddisfare, un tormento. Brian De Palma aveva intuito tutto. Quella frase così diretta, “Il mondo è tuo”, racchiude alla perfezione un pensiero che mi assilla da settimane. E vederla comparire sullo schermo mi provoca uno strano senso di piacere. Come si può sintetizzare meglio l’evoluzione dello spaccio di droga, il nuovo ruolo dei pusher, se non con questa dannatissima frase? De Palma è stato profetico. I cyberspacciatori dovrebbero saperlo. E magari lo sanno.
Oggi un buon pusher non deve presidiare una piazza da mattina a notte. Non ha bisogno di rimanere sotto la pioggia per ore, in attesa del compratore. Gli basta un comunissimo smartphone con connessione dati 3G. E il mondo è nelle sue mani. Il mondo è suo!
Lo spacciatore 2.0 utilizza la messaggistica di Facebook, oppure quella di WhatsApp. Ha un contatto diretto con il compratore, col quale stabilisce ora, luogo e quantità. Spesso la droga è consegnata a domicilio, e non serve infilarsi in sei in una 127 gialla per correre incontro alla pace dei sensi.
Il cyberspaccio ha fatto esplodere in modo violento e definitivo la diffusione della cocaina, perché, grazie ai nuovi strumenti a disposizione, i pusher sono riusciti a soddisfare pienamente una domanda sempre più esigente. Il consumatore di droghe non è più l’eroinomane sfatto che si bucava sul ciglio di una provinciale, fottendosene di tutto il resto. Oggi servono discrezione e normalità. Ai cocainomani non piace esporsi, riversarsi per strada in cerca di roba. E davanti allo schermo di un computer, o nello sfiorare uno smartphone, l’esposizione non esiste.
Negli anni Novanta non era così. Un tossicodipendente lo riconoscevi guardandolo in faccia, perché l’eroina ti annienta, ti trasforma in una larva. La coca, invece, è diabolica. Ti lavora dentro, ti consuma, ma non si scopre. Un cocainomane non lo individui facilmente. E lui farà di tutto per non farsi smascherare. Perché probabilmente ha una reputazione da difendere, una famiglia, una fidanzata. Magari fa l’infermiere, e si fa di coca per restare sveglio nei turni di notte che lo massacrano. Oppure fa l’autotrasportatore: da Catania a Milano tre volte a settimana, e solo grazie alla coca riesce a tenere gli occhi aperti alle quattro del mattino, attraversando la Firenze-Bologna. O magari sta dietro a un bancone per sedici ore al giorno, come Chico, il mio barista, del quale racconterò più avanti.
Oggi, la maggior parte delle persone che fanno uso di cocaina conduce una vita normalissima. Studenti, benzinai, edicolanti, baristi, disoccupati, commercianti, manager, mamme, politici. Una piazza di spaccio uguale a quella di vent’anni fa non avrebbe mai potuto soddisfare la domanda di clienti con abitudini così diverse. L’infermiere non andrebbe mai a comprare una striscia di coca dal pusher che presidia i giardini pubblici. Un manager non si farebbe mai vedere a Passovecchio.
A propria volta, il cyberspaccio ha aperto le braccia a nuovi potenziali fruitori. La tecnologia ha spalancato le porte dell’inferno anche a chi, anni fa, avrebbe provato paura alla sola idea di avvicinare un pusher per strada. Paura di finire nelle foto di qualche poliziotto appostato, o nelle mire di altri tossici balordi pronti a tutto. Oggi questi rischi non esistono più. Ce ne sono altri, certo. Ma non questi. Le organizzazioni criminali hanno modellato l’offerta in modo esemplare, dimostrando di saper anticipare i tempi, intuendo con grande spirito imprenditoriale le potenzialità dei nuovi canali tecnologici.
L’avvento della tecnologia mobile ha cambiato totalmente il narcobusiness al dettaglio. Negli anni Ottanta-Novanta gli spacciatori facevano parte dell’organizzazione criminale. Non ricoprivano posizioni verticistiche. Non erano in contatto diretto con i boss. Ma lavoravano per il clan. Erano dipendenti a stipendio. Ed era impensabile trovare uno spacciatore autonomo. Chi provava a fare il furbo andava incontro a un destino amaro. C’era un controllo asfissiante da parte dell’organizzazione sulla piazza.
Negli ultimi anni le mafie hanno invece fatto spazio a un nuovo gradino gerarchico, nella lunga scala del narcotraffico che va dal produttore all’utilizzatore finale: i pusher “cani sciolti”. Il mercato al dettaglio è stato aperto a quegli spacciatori che non hanno niente a che fare con ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra. L’intento è chiarissimo: trasformando il venditore in una persona normale, il compratore si sentirà a suo agio. Obiettivo centrato. Oggi chiunque è un potenziale spacciatore di cocaina.
Spaccia cocaina chi ne è dipendente, e vendendone qualche dose riesce a permettersi le sue piste. Spaccia l’ambulante che deve arrotondare, lo studente fuori corso che vuole pagarsi l’università, l’operaio ossessionato da un mutuo per il quale lo stipendio non basta mai. Tutti personaggi al di fuori delle organizzazioni criminali, ma che con la loro attività contribuiscono quotidianamente ad alimentare il fatturato delle mafie, perché la coca sul mercato arriva sempre dagli stessi canali. I canali dei clan.
Per le organizzazioni non ha più importanza sapere chi spaccia, come taglia la roba, a quanto la vende. Il loro interesse si ferma a un livello superiore. Si ferma alla grande distribuzione. E il territorio non è altro che un puzzle su cui attaccare dei numeri. Milano, Roma, Firenze, Napoli diventano semplicemente numeri, nella geografia del narcotraffico. Ad Africo, Platì e Limbadi – dove le famiglie della ’ndrangheta vantano tradizioni centenarie – si monetizza senza sosta grazie alla polvere colombiana. Ma lo studente milanese che tira di coca e il collega che gliela vende non sanno neanche dove sia Limbadi. I bulletti di Gratosoglio, a Milano, che a sedici anni credono di comandare il mondo perché sanno vendere una dose di cocaina neanche immaginano la struttura pachidermica grazie alla quale la coca arriva nel loro quartiere. I liceali di Roma che fumano marijuana e in camera hanno il poster di Falcone probabilmente non sanno che anche un grammo di hashish è profitto per le mafie.
Quando ripenso agli spacciatori di Passovecchio mi chiedo quanti di loro, a distanza di vent’anni, facciano ancora lo stesso lavoro. E come abbiano cambiato le loro abitudini. Sembra essere passato un secolo da quando una dose d’eroina la vendevano a ventimila lire, sporchissime, sudate, stropicciate nella tasca dei jeans di qualche tossico, oggi che una riga di coca puoi pagarla con una ricarica su Postepay o con un accredito di Bitcoin (la moneta elettronica della quale parleremo più avanti) su qualche portale online per tossicodipendenti. Proprio così: portali per tossicodipendenti. Ne esistono a decine, ormai.
Il più famoso, o forse il più famigerato, si chiama Silk Road, e di fatto è la piazza di spaccio virtuale più grande del mondo. Un normalissimo sito di e-commerce dove il prodotto in vendita non è affatto normale. Su Silk Road si commercia droga.
Collegarsi a Silk Road non è semplicissimo. Una comune ricerca su Google non porta a nulla, se non a qualche esperienza raccontata sui blog. Ed è inutile cercare il link d’accesso: i nuovi portali per tossicodipendenti fanno parte dell’Internet sommerso, già ribattezzato Darknet, o Deep Web. Il web invisibile. Una galassia parallela che cresce sotto traccia e muove fiumi di denaro sporco.
La navigazione su siti come Silk Road è resa possibile soltanto da una piattaforma software che garantisce l’anonimato, chiamata TOR (The Onion Router). Si tratta di un servizio del tutto legale, ideato dai fanatici della libertà online e della privacy spinta all’eccesso, che protegge gli utenti dall’analisi del traffico attraverso una rete di router. TOR, così come l’hanno pensato gli ideatori, è un sistema di sorveglianza della Rete che impedisce a chi osserva la tua connessione Internet di sapere quali siti stai visitando, e allo stesso tempo impedisce ai siti che visiti di venire a sapere dove tu ti trovi realmente. Utilizzando questo software il traffico dati fra un pc e un server viene filtrato attraverso un gruppo di router che creano un “circuito virtuale” crittografato a strati, come una cipolla (“onion”, appunto). E nessuno è in grado di conoscere l’origine o la destinazione dei dati. TOR ti rende invisibile. Ti rende Enne.
Installare TOR non è semplice come spedire una mail o cercare l’ultimo singolo di Fabri Fibra su YouTube. L’operazione richiede qualche competenza in più. Ma non bisogna certo essere un hacker. Basta “googleizzare” un po’ per trovare delle guide approfondite su come si scarica e si installa il software. Poi il gioco è fatto. Tutto il marcio nascosto nei sotterranei del web è a portata di click.
Come dicevo, TOR è un software assolutamente legale, e non è certo nato per garantire l’anonimato dei cybercriminali. Ma, involontariamente, si è dimostrato uno strumento indispensabile per le cybermafie, considerato che su Internet l’anonimato non esiste. Il principio fondamentale della Rete è la rintracciabilità. Ogni operazione che quotidianamente compiamo online, ogni click, ogni scroll, ogni mail che inviamo o riceviamo, ogni commento che lasciamo, ogni pensiero che postiamo, ogni video che carichiamo lascia delle tracce, e i provider che le registrano sono obbligati a conservarle per un periodo minimo di ventiquattro mesi. Due anni di navigazione che rimangono lì, a portata di mano. Per questo TOR è determinante. Senza TOR, per esempio, Silk Road non esisterebbe. E la storia del narcotraffico online, senza Silk Road, non avrebbe senso.
Secondo il senatore statunitense Chuck Schumer, Silk Road «rappresenta il tentativo più sfacciato di vendere droghe online che abbiamo mai visto. È sfacciato anni luce più di ogni altra cosa». Navighi, selezioni la sostanza che vuoi comprare, indichi la quantità, paghi con la moneta virtuale e ricevi tutto comodamente a casa. È semplice, come acquistare un libro su Amazon o un’autoradio su eBay. È un paradiso per i narcotrafficanti che diventano ricchi standosene stravaccati sul divano, a bere birra e giocare ai videogame. Ma anche per i consumatori insospettabili, che vogliono evitare qualsiasi contatto diretto con gli spacciatori. Su Silk Road sei un fuorilegge indecifrabile. Un bit nascosto. Sei un numero sconosciuto che cambia enne volte in pochi minuti. Non hai un volto, né un nome. Non hai colore, né odore.
Come l’azoto.
Silk Road, ovvero “la via della seta” – come quel reticolo di itinerari di ottomila chilometri fra terra, fiumi e mari lungo i quali si snodavano i commerci della Cina con l’Occidente –, è oggi la via della droga, dove puoi trovare di tutto. Erba, eroina, cocaina pura all’ottantacinque per cento, pasticche di ecstasy appena uscite in commercio. Ma anche Cialis o Viagra. Le organizzazioni criminali sono diventate padrone assolute del narco e-commerce grazie a servizi come questo. Siti che garantiscono anonimato e pronta consegna. E anche una sorta di rimborso per il compratore (il cinquanta per cento della transazione) nel caso qualcosa andasse storto.
Che Internet non potesse rimanere estraneo a certi traffici era prevedibile. Ma un vero e proprio market della droga, in stile eBay, pareva un’ipotesi troppo azzardata anche da immaginare. Eppure la “via della seta” esiste, ed è diabolica.
A guardare la grafica di Silk Road si scopre che è praticamente uguale ai più comuni siti di e-commerce.
Silk Road, il sito
Ci sono la foto del prodotto, le caratteristiche e il prezzo. E poi le recensioni degli acquirenti ai venditori. Proprio come su eBay. L’affidabilità del “seller” è definita dagli utenti, che lasciano il loro feedback. Più feedback positivi hai, maggiore è la probabilità che il tossico acquisti da te, mentre i venditori con profili senza recensioni fanno più fatica a imporsi.
Cercando su Google è possibile trovare una guida che spiega, passo per passo, come entrare nel sito ed effettuare un acquisto. Si chiama How to Join the Silk Road Anonymous Marketplace, ed è un piccolo file pdf composto da otto punti che illustrano minuziosamente ogni passaggio: dal download di TOR, alla creazione di un profilo, fino al PGP, il programma che consente di crittografare gli indirizzi per la spedizione. Ti basta una buona dimestichezza col pc, otto passaggi, una manciata di minuti, e sei dentro. Il narcomercato virtuale più grande al mondo è a tua disposizione.
Su Silk Road, come su centinaia di altri siti del Deep Web, i prezzi sono espressi in
, cioè in Bitcoin, la valuta elettronica che si sta facendo spazio anche nei siti di e-commerce più autorevoli. Una moneta “peer-to-peer”, cioè “da pari a pari”: la transazione avviene solamente tra i computer coinvolti, senza intermediari, senza l’intervento delle banche.
Acquistare Bitcoin è semplicissimo. Si fa tutto online. Sono una dozzina le piattaforme presenti sul web che consentono di comprare questa moneta virtuale. La più famosa è la giapponese Mt.Gox che gestisce il maggior numero di transazioni Bitcoin al mondo. Tutto avviene con pochi click. È necessario aprire un account e verificarlo fornendo un documento di identità e una bolletta recente (gas, elettricità o telefono) che dimostri la residenza dell’utente. Ad account creato, basterà fare un bonifico bancario per ricaricare il proprio conto, e gli euro oppure i dollari si trasformeranno in Bitcoin. Il cambio è variabile, e le oscillazioni possono essere enormi se si pensa che un soldino virtuale valeva trenta centesimi di dollaro agli inizi del 2011 ed è schizzato a ottocento dollari nel novembre 2013. Una crescita inarrestabile che sta arricchendo i possessori di quella che è stata già ribattezzata la criptomoneta, grazie al suo elevatissimo grado di anonimato. Dopo che il denaro è diventato un bit, il suo utilizzo è indecifrabile, come indecifrabile è il suo possessore.
Nel dicembre 2013, per esempio, dai dati forniti da BitcoinRichList.com si è saputo che la persona in possesso del maggior numero di Bitcoin al mondo si chiama 1933phfhK3ZgFQNLGSDXvqCn32k2buXY8a. Una sequenza di numeri e lettere che cripta un indirizzo, quello del possessore di quel conto. Ma conoscere il nome del cyber-Paperone è impossibile. Si sa soltanto che ha racimolato 111.111,11257544 Bitcoin, che nel dicembre 2013 valevano 87.775.556,71 dollari.
La crescita del valore di Bitcoin ha arricchito senza alcun dubbio i cyberpusher che spacciano su siti come Silk Road, oltre che i gestori dei siti stessi. Proprio per quanto riguarda Silk Road, infatti, la transazione non è gratuita. I proprietari del portale trattengono per sé il sei per cento del totale di ogni operazione. Ciò significa che per ogni cento dollari di cocaina venduta, lo spacciatore 2.0 ne deve sei al cracker che ha allestito il sito di e-commerce.
Rintracciare i crackers – cioè i cybercriminali che violano i sistemi per trarne un profitto –, dar loro un nome e un volto è ormai fra gli obiettivi principali delle forze di polizia di tutto il mondo. Chi c’è dietro ai siti che vendono droga online? Quali organizzazioni criminali vi si nascondono? Chi c’è dietro Silk Road? A quest’ultima domanda oggi è possibile dare una risposta, almeno in parte. Fino al settembre 2013, dietro Silk Road c’era Dread Pirate Roberts, l’uomo invisibile ricercato dai corpi antidroga dell’intero pianeta. È lui l’ideatore di Silk Road, il genio del male che ha creato un impero del narcotraffico a portata di click. Lo hanno arrestato il 1° ottobre 2013, in una biblioteca di San Francisco. Un martedì. E con il suo arresto le autorità statunitensi hanno chiuso il famigerato portale della droga (che, come vedremo più avanti, è tornato online nel giro di qualche settimana).
Dread Pirate Roberts risponde al nome di Ross William Ulbricht, e ha ventinove anni. Risalire a lui, però, non è stato per niente facile. Ci sono voluti due anni di indagini fittissime. Ventiquattro mesi di lavoro serrato. Dal novembre 2011 alcuni agenti dell’FBI sotto copertura hanno cominciato a utilizzare Silk Road come dei comuni tossici in cerca di droga nel tentativo di risalire ai gestori del sito. Ma è stato necessario passare al setaccio l’intero web per comporre un mosaico complicatissimo. Il primo tassello dell’inchiesta è stato un messaggio postato il 27 gennaio 2011 su Shroomery, un forum dedicato all’uso dei funghi allucinogeni. Un utente che si firmava Altoid scrisse: «Mi sono imbattuto in un sito che si chiama Silk Road, sto pensando di comprarci sopra… Fatemi sapere cosa ne pensate», e al messaggio allegò il link d’accesso al sito. Il 29 gennaio, due giorni dopo, lo stesso Altoid si spostò su un forum dedicato a Bitcoin e postò un messaggio simile, descrivendo Silk Road come un Amazon completamente anonimo.
Secondo quanto ricostruito dall’FBI, entrambi i messaggi avevano lo scopo di attirare gente sul sito. Poi le indagini portarono gli agenti a un Internet café di San Francisco dal quale Dread Pirate Roberts accedeva a...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prologo - #SpaccioAnniNovanta
  6. 1. #Spaccio2.0
  7. 2. #IdentitàRubate
  8. 3. #LadriDigitali
  9. 4. #Hacker&Mafie
  10. Intermezzo - #QuintaStrada
  11. 5. #Babyboss
  12. 6. #MafieVoIP
  13. Epilogo - #Lightmyfire
  14. Fonti