
eBook - ePub
Ilaria Alpi. La ragazza che voleva raccontare l'inferno
Storia di una giornalista
- 196 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Ilaria Alpi era una reporter della Rai. È stata uccisa in Somalia nel 1994 insieme al cameraman Miran Hrovatin. Aveva trentadue anni. Quando è morta stava indagando su un traffico di armi e rifiuti tossici tra la Somalia e l'Europa. Lo faceva per conto suo, quando non doveva seguire gli sviluppi della guerra. Questo libro racconta di lei, di Miran Hrovatin, e di una ragazzina somala di nome Jamila, che è immaginaria ma potrebbe benissimo essere vissuta davvero. Questo libro parla di coraggio e di speranza, e di tutti quelli che si battono per avere un mondo migliore a costo della vita.
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Informazioni
Print ISBN
9788817071918eBook ISBN
9788858665077PARTE PRIMA
LA VITA CORRE VELOCE
(luglio 1993 – febbraio 1994)
Capitolo uno
Mogadiscio, 12 luglio 1993
Le esplosioni avevano richiamato tutti i giornalisti sul tetto dell’Hotel Sahafi. Stavano bombardando i quartieri a sud, la zona del generale Aidid. Erano da poco passate le dieci della mattina.
Ilaria Alpi osservava il cielo oscurato da un greve fumo nero.
Appena il rumore delle armi si era quietato, Dan Eldon della Reuters aveva urlato: «Ok, let’s go!» e si era precipitato giù per le scale. Dan era sempre il primo a buttarsi nella mischia. Aveva soltanto ventitré anni ed era iperattivo. Ilaria aveva afferrato la borsa e l’aveva seguito. Arrivare immediatamente sul posto dava la possibilità di registrare al volo, a colpo d’occhio, quei particolari che rischiavano di svanire in breve tempo.
L’auto di Dan e dei suoi colleghi era già in fondo alla strada quando Ilaria e Alberto Calvi, la telecamera in spalla come sempre, erano saliti sulla Toyota. Un attimo prima che il loro autista si lanciasse all’inseguimento dell’auto di Dan, il fotografo del Corriere della Sera, Massimo Alberizzi, si era piazzato davanti alla loro macchina: «Fermati, Ilaria, fermati! Prendi su anche lui, è un uomo di Aidid, è più sicuro.» Ilaria aveva fatto salire il somalo ed erano partiti verso sud, verso il chilometro quattro. Avere in auto un uomo del generale Aidid poteva rivelarsi un’assicurazione sulla vita.
Quando si erano infilati nella stretta strada del palazzo bombardato, l’autista improvvisamente aveva inchiodato. La via era completamente occupata da uomini somali che circondavano minacciosi l’auto di Dan. Alberto l’aveva spinta fuori: «Scappa, Ilaria, presto: questi ci ammazzano!» Ma lei non riusciva a staccare lo sguardo da Dan, trascinato fuori dall’auto e colpito con i bastoni. I somali intanto avevano circondato anche la loro macchina. «Forza, Ilaria, corri!» insisteva Alberto, tirandola per un braccio. Lei si era coperta la testa con la pashmina chiara, quasi a volersi proteggere, ed era stato allora che aveva visto la ragazzina. Sembrava che aspettasse proprio lei. Se ne stava lì, con il suo lungo vestito giallo e il foulard a disegni gialli e rossi, cercando di resistere alle spinte della gente. Una bandierina colorata in mezzo alla tempesta. Tutta occhi, in quella bolgia di urla e di bastoni. Sembrava che la chiamasse. Ilaria era stata spinta a terra e aveva perso il contatto con Alberto. Quando s’era alzata, lui non c’era più, inghiottito dalla folla minacciosa. La ragazzina invece era ancora lì. Allora l’aveva raggiunta e poi, correndo insieme rasente i muri, si erano allontanate da quell’inferno. Avevano corso alla cieca, svoltando per vicoli sempre più stretti, fino a che Ilaria aveva riconosciuto il quartiere dove abitava la sua amica Starlin.
Finalmente c’è di nuovo il sole. Mamma come al solito è uscita presto per andare all’istituto a dare una mano ai dottori. Io ho messo ordine in casa e adesso, come tutti i giorni della mia vita, sto litigando con mio fratello, che è ostinato come un mulo. Mamma non vuole che io esca da sola e lui si rifiuta di accompagnarmi dalla zia. Ho una gran voglia di picchiarlo, ma lui è più grande di me e so che non mi conviene. Lo seguo in cucina quando un grande boato ci butta a terra. Ci proteggiamo le orecchie con le mani, ma il rumore continua fortissimo. Un’esplosione dietro l’altra. Non finisce più. «Sono razzi americani. Andiamo a vedere» dice Amir.
«Sei matto?» gli urlo.
«Dai, piccoletta, non senti che sono lontani?» ed è già in strada. Piuttosto che restare da sola lo raggiungo. Nel cielo azzurro, a sud, vediamo tantissimi elicotteri. Cerco di contarli: tre restano fermi ma gli altri volano bassi e ogni volta che arrivo a dieci cambiano posizione e devo ricominciare. «Quelli sono i Cobra, e gli altri, li vedi, piccoletta? si chiamano Blackhawk. Americani bastardi!» dice Amir, e sputa per terra.
«Cosa stanno bombardando?» chiede un passante.
«Lì ci sono le case del clan Habr Ghedir, gente del generale Aidid» risponde uno dei vicini, e a sentire quel nome si fa un gran silenzio.
«Senti, adesso stanno usando le mitragliatrici» dice Amir. Lui è un appassionato di armi. A me non piacciono proprio. «Ecco, hanno finito! Dai, andiamo a vedere.»
«Ma sei matto! Guarda che mamma non vuole che usciamo se ci sono le bombe.»
«E allora resta a casa. Io ci vado. Ah, e asciugati la bocca, piccoletta, che è ancora sporca di latte!» ride, e corre via.
Sporca di latte a chi? Ho quasi undici anni, e anche se Amir ne ha tre più di me non può trattarmi in questo modo. Vorrei dargli un bel pugno sulla schiena, poi mi ricordo che mamma ripete sempre che le donne non devono correre per strada, perché altrimenti si alzano le vesti e si vedono le caviglie. A ogni passo mi pento di averlo seguito. Il cielo è grigio di fumo, l’aria è acre e mi fa tossire. Tutti corrono verso il quartiere che hanno bombardato, mi spingono, e a un certo punto finisco per terra. Mi rialzo, corro da Amir, chi se ne importa delle caviglie, e gli stringo forte la mano.
Ci superano alcune auto, suonando il clacson.
«Giornalisti stranieri. Arrivano subito, quelli, come le cavallette» dice mio fratello, e di nuovo sputa per terra.
Poi comincia la sassaiola. La gente blocca le macchine, batte con i bastoni sui cofani. Gli uomini al volante e quelli di scorta saltano giù e scappano. I giornalisti scendono, un paio di loro hanno le macchine fotografiche al collo. La gente li afferra, li butta a terra. Usano i bastoni e le pietre. Non voglio guardare, non voglio sentire. La folla mi spinge. Io punto i piedi, cerco di resistere alle spinte, ma sono piccola per la mia età, sono troppo leggera. Perdo la mano di mio fratello e mi ritrovo da sola.
Poi li vedo: un uomo e una donna. Lui le urla qualcosa, poi scompare tra la folla. Lei si guarda attorno, è terrorizzata, non sa che fare. Si alza la pashmina sulla testa, ma non basta per nascondersi. È una donna bianca, sola, in una folla di uomini inferociti. I nostri sguardi si agganciano, corre verso di me, mi stringe la mano e mi porta via dal centro della strada. Mi schiaccia con il suo corpo addosso a una casa, per proteggermi da un gruppo di uomini armati di bastone che passano di corsa, poi scappiamo come spiriti scivolando lungo i muri. Corriamo, corriamo senza dirci una parola, lei tentenna soltanto a un paio di incroci, indecisa, ma non mi lascia mai la mano. Poi riprende a correre, più sicura. A un certo punto si ferma e batte con i pugni a una porta. Ci apre una donna che ci fa subito entrare e noi crolliamo a terra, capaci solo di respirare.
Due donne ci portano bicchieri di acqua. Beviamo avidamente. Parlano in italiano con lei, ma troppo in fretta, non capisco. Devono essere tutte amiche.
Non riesco a staccarle lo sguardo di dosso. So che è maleducato, ma è la prima volta che sto così vicina a una straniera. È bella, i capelli lunghi sulle spalle hanno un colore magico, come se dentro ci fossero dei fili d’oro, e alle orecchie porta orecchini pendenti con dei ciondoli verdi. Ha un grosso orologio nero da uomo a un polso, all’altro porta un sottile bracciale d’oro. Ha le unghie tagliate corte. Avrà più o meno l’età di mamma. Chissà se anche lei ha dei figli.
«Ciao, io sono Ilaria» dice in arabo. Il suo sorriso è come una lampadina che illumina tutta la stanza.
«Ciao, io sono Jamila.» Se ci fosse stato Amir avrebbe risposto lui, tocca all’uomo di casa parlare.
«Io sono una giornalista italiana, lavoro per la televisione» dice ancora Ilaria.
«Io no» rispondo, e chissà perché tutte e tre scoppiano a ridere.
Capitolo due
Mogadiscio, 12 luglio 1993
Era la quarta volta che Ilaria Alpi andava a Mogadiscio come inviata del Tg3. Ogni tanto la sera, quando tornava nella sua camera d’albergo in quella zona d’Africa conosciuta soltanto per la sanguinosa guerra in corso, le capitava di compilare nella mente le sue personali statistiche, di fare bilanci. In realtà odiava i numeri, ed era proprio per quello che lo faceva: la distraevano dalla realtà. Così si mise a far conti anche in quel momento, a casa della sua amica Starlin: tre i viaggi in Somalia, quattro con quello, ventuno giorni il primo viaggio, sette il secondo, diciannove il terzo. Quel giorno era il dodici luglio millenovecentonovantatré, ed era arrivata da meno di due giorni. Aveva trentadue anni, un mese e diciotto giorni. Ma i numeri erano inutili senza le storie. Numeri come le coordinate geografiche: indicano al massimo dove ti trovi, certo non da dove vieni e dove stai andando.
Ma nemmeno i numeri riuscivano a distrarla davvero. Non riusciva a levarsi dalla testa i colleghi che aveva visto a terra, poco prima, colpiti da una folla inferocita. Feriti, percossi dai bastoni e dalle pietre. Ilaria premette forte le mani sugli occhi, per cancellare quelle immagini. Ma lo sguardo disperato di Dan trascinato a terra non l’abbandonava. Dan…
Si alzò di scatto. Accidenti! Doveva uscire, ritrovare Alberto, tornare in albergo. Capire cosa fosse successo a Dan, cosa fosse successo agli altri giornalisti della Reuters. Scrivere, montare il pezzo, inviarlo al telegiornale. Guardò l’orologio: erano due ore avanti rispetto all’Italia… sì, se partiva subito avrebbe potuto farcela per il tg delle quattordici e venti.
«Starlin, adesso dobbiamo proprio andare» disse all’amica. Anche Jamila si alzò, convinta di dover andare con la giornalista straniera.
«Va bene, ma state attente. Jamila l’accompagno io. Conosco sua madre, è una delle nostre donne» le rassicurò Halima, la sorella di Starlin.
Essere una delle donne di Starlin Arush voleva dire far parte di Iida. Iida in somalo significa “Nata in un giorno di festa”: un’associazione creata per difendere i diritti delle donne e promuovere la pace. La pace, le donne. Argomenti normali, pensò Ilaria, se quello non fosse stato un Paese in guerra.
Lei e Starlin camminarono a lungo, perché l’albergo era lontano. Nessuna delle due aveva voglia di parlare.
Ilaria scuoteva la testa, rimuginando tra sé e sé. La guerra in Somalia sembrava infinita. Chi erano i buoni? Chi erano i cattivi? Almeno fossero stati due popoli diversi a farsi la guerra: sarebbe stato più facile capire e prendere posizione. Invece lì in Somalia era tutto così complicato. Prima della guerra il Paese era stato governato da un dittatore spietato che si chiamava Siad Barre, e che dopo una lunga, sanguinosa storia di repressioni era stato deposto nel 1991 e da qualche mese era in esilio in Nigeria, da dove comandava ancora i suoi uomini.
Il nuovo Congresso Somalo Unito aveva proclamato come nuovo presidente Ali Mahdi. Non era un militare, aveva lavorato negli anni Sessanta al Ministero della Salute e poi era stato direttore dell’UNICEF. Probabilmente agli uomini del Congresso era sembrato che nominare presidente un civile e non un militare sanguinario fosse quasi per definizione una scelta di pace. Ma così non era stato e la guerra civile era continuata.
In quel momento le truppe dell’esercito regolare somalo, agli ordini del presidente Ali Mahdi, controllavano la parte nord della capitale Mogadiscio. Nella parte sud invece c’erano le truppe del generale Aidid, il Vittorioso, il rappresentante in Somalia del dittatore in esilio. Mahdi contro Aidid, cioè somali contro somali. E poi gli stranieri: l’ONU aveva creato un’azione umanitaria chiamata Restore Hope alla quale partecipava dal 1992 anche l’Italia. Gli americani, però, a maggio del 1993 avevano deciso di sganciarsi dall’iniziativa, mantenendo una forza militare di rapido intervento. Gli americani non erano più neutrali: si erano schierati dalla parte di Ali Mahdi contro Aidid.
«Ilaria, tu hai capito cos’è successo di preciso?» le chiese Starlin.
«Sì, stamattina gli elicotteri americani hanno bombardato la casa del ministro degli interni di Aidid.»
«E perché proprio oggi?»
«Perché c’era una riunione del Comitato Centrale. Volevano catturare Aidid vivo o morto e distruggere il suo stato maggiore.»
«Invece hanno fatto una strage di donne e bambini» protestò Arish.
«Già, stamattina io e Alberto in macchina abbiamo incrociato parecchi camion che portavano i feriti in ospedale. Poi hanno aggredito Dan e gli altri, e…»
Ilaria non riuscì a finire la frase e si fermò, a testa bassa. L’amica le appoggiò una mano sulla schiena e la spinse avanti, sollecitandola a riprendere il cammino. Levarsi dalla strada era in quel momento la cosa più importante.
Ilaria si asciugò le lacrime con la manica della camicia, si aggiustò la pashmina sulla testa e ripartì.
«Noi non siamo i nemici, Starlin. Siamo qui solo per lavorare.»
«Lo so, ma alle volte le situazioni scappano di mano…»
«Siamo qui per raccontare quello che succede, come vivono e soffrono i somali. Vogliamo capire… Dan voleva capire. Faceva semplicemente questo: capire e raccontare, attraverso le foto. Era così giovane.»
«Hai ragione, Ilaria, ma alle volte basta essere stranieri o protetti dall’ONU per essere considerati alleati degli americani e quindi nemici. Dai, siamo quasi arrivate, Ilaria! Guarda, si vede la terrazza del Sahafi» le disse Starlin stringendole il braccio.
A Mogadiscio i giornalisti potevano alloggiare in due strutture. C’era l’hotel Amana, un albergo fatiscente per gli standard europei ma quasi lussuoso per una situazione di guerra, dove alloggiavano gran parte dei giornalisti italiani. Era considerato molto sicuro perché si trovava nella zona nord proprio di fronte all’ambasciata italiana, quindi sotto il controllo dei paracadutisti. I giornalisti, quando uscivano, potevano perfino chiedere la scorta militare, sempre che i parà non fossero già impegnati in qualche missione.
La seconda possibilità era l’Hotel Al Sahafi, un palazzo di tre piani altrettanto cadente che si trovava nella zona sud della capitale, vicino alle principali installazioni m...
Indice dei contenuti
- Cover
- Frontespizio
- Copyright
- Dedica
- Prefazione
- Parte prima - La vita corre veloce
- Parte seconda - La vita rallenta
- Note finali
- Ringraziamenti