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Il falco spiccò il volo staccandosi dal braccio teso di Federico.
Francesco conosceva alcuni dei suoi desideri più nascosti, e intuì che in quel momento l’imperatore stava fantasticando di essere proprio quel rapace.
Avrebbe potuto vedere Roma dall’alto, in quel modo, scorgere la basilica di San Pietro e Castel Sant’Angelo, puntare in direzione del Tevere, sorvolare l’isola Tiberina e poi librarsi verso l’antico Foro.
Roma suscitava in Federico emozioni contrastanti: la detestava perché era la città di quei pontefici più preoccupati di accaparrarsi ricchezze che di curare lo spirito dei fedeli. Allo stesso tempo, l’adorava febbrilmente per l’immagine di potenza e immortalità che emanava.
Da anni Francesco era il suo scudiero preferito e in quel momento aveva il privilegio di cavalcare alla sua sinistra. L’imperatore capeggiava un cordone del suo esercito sopra un cavallo bardato d’oro. Dal colle di Monte Mario, il corteo si stava muovendo lungo la via Trionfale. La moglie di Federico, Costanza d’Aragona, era appena dietro di lui, e Berardo da Castacca alla sua destra.
Fu proprio l’arcivescovo a rivolgersi all’imperatore dopo un lungo tratto percorso in silenzio ammirando le rovine: «Forse è giunta l’ora di rammentare brevemente il cerimoniale, mio signore».
Federico non rispose e chiuse gli occhi: ora stava di certo immaginando di volare sopra il Colosseo e l’Arco di Costantino, e di proseguire poi verso il Circo Massimo e il Pantheon.
I romani accolsero il sovrano in modo festoso: applaudivano al suo passaggio e urlavano «Augusto!» mentre raccoglievano i doni e le monete d’argento che piovevano dai carri. Le facciate dei palazzi erano ricoperte di tessuti riccamente decorati, le strade erano ornate con fiori e tappeti. C’erano uomini schierati con armature scintillanti e alabarde lunghe più di loro, tra decine di destrieri bardati con vistose fasce gialle, verdi e rosse, seguiti da cardinali con la cappa color porpora. La scenografia era completata da chierici che trascinavano crocifissi e senatori con corone d’alloro sul capo.
Francesco si rallegrò dello spettacolo. Intanto Berardo, rivolto all’imperatore, disse: «Dovrete omaggiare la tomba di san Pietro e fingere di confessarvi. Dovrete salire i gradini della basilica e prostrarvi a papa Onorio III, inginocchiarvi ai suoi piedi…».
Federico colse dell’imbarazzo nella pausa dell’arcivescovo, riaprì gli occhi e lo pungolò con voce dura: «Cos’altro?».
«Dovrete baciarglieli…» Berardo scrollò le spalle. «È il protocollo.»
Una smorfia segnò il viso di Federico.
Le trattative che avevano segnato gli ultimi mesi e il suo ritorno in Italia, dopo i nove anni trascorsi in Germania, erano state estenuanti. In Germania aveva conquistato quel titolo di imperatore che però senza la consacrazione del papa non sarebbe mai stato considerato legittimo agli occhi del mondo. I patti sanciti erano sconvenienti: Federico avrebbe dovuto concedere privilegi e terreni agli ecclesiastici e condurre feroci battaglie contro gli eretici e i saraceni di Sicilia.
Aveva già giurato che non avrebbe mai unito la corona imperiale a quella di Sicilia, che le leggi siciliane e tedesche sarebbero state differenti, che il regno sarebbe stato un feudo fedele alla Santa Sede e soprattutto che molto presto avrebbe capeggiato un esercito di crociati alla conquista del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Quella corona, però, valeva tutti i sacrifici e i rituali umilianti che il papa gli avrebbe riservato.
Berardo da Castacca proseguì: «Elargirete un tributo, il papa vi benedirà cospargendovi d’olio consacrato il capo, dove poi deporrà la corona. Vi offrirà la spada e lo scettro e pronuncerà le formule sacre. Poi…».
Federico lo interruppe. «Basta, per favore, basta. Ora ricordatemi soltanto perché ne vale la pena.»
L’arcivescovo sfoderò un tono solenne. «Perché alla fine il papa dirà: Domino Friderico invictissimo Romanorum imperatori et semper Augusto, salus et victoria.»
Suonava bene. Il sovrano richiuse gli occhi e inspirò.
Francesco sorrise e pensò: sarà il padrone del mondo.
Federico si voltò e fissò sua moglie. Trattenne il cavallo e attese che lei lo raggiungesse. Francesco si fece da parte. Costanza si affiancò al marito e gli sfiorò una mano. Tra i suoi occhi, già velati di commozione, apparve un’increspatura.
L’imperatore capì il motivo del suo tormento: Costanza stava pensando a loro figlio, rimasto in Germania da re, ad appena nove anni.
«Andrà tutto bene, imperatrice» le disse lui. «Dovremo ricordare questo giorno con gioia e con orgoglio, anche se il piccolo Enrico non è qui con noi.»
Costanza annuì stringendo le spalle: «Ci proverò, e ricorderò per sempre la nostra incoronazione e questo giorno».
A Roma il clima era ancora mite quel ventidue novembre dell’anno del Signore 1220.
Un messo proveniente dalla Sicilia raggiunse la testa del gruppo e, come concordato con gli ambasciatori del regno, riferì le ultime novità a Francesco.
Federico lo chiamò appena il messo si fu allontanato. Erano ormai a poche centinaia di passi dalla basilica. Berardo e Costanza arretrarono a beneficio dello scudiero.
L’imperatore lo sollecitò: «Allora, quali notizie?».
«Non buone, mio signore. A Palermo c’è chi vi vuole morto.»
Federico scoppiò a ridere. «Non c’è posto al mondo dove qualcuno non desideri la mia morte. Questa non è una notizia!»
«Ma è una congiura, mio signore, e pare che sia stata ordita proprio all’interno della reggia.»
Federico abbassò il tono della voce: «Non insistere su questa cosa, ce ne occuperemo a Palermo. Dimmi invece se hai qualche informazione su di lei».
«Nulla, mio signore. Non sono ancora riusciti a trovarla».
L’imperatore gli afferrò un braccio e lo strinse. Trattenne l’intensità della voce stringendo i denti: «Com’è possibile? Cos’è, un fantasma?».
Francesco fu lesto a cambiare discorso: «Sono riuscito a corrompere un cardinale e ho saputo che oggi… oggi andrà tutto bene».
Federico stanò una lieve piega d’incertezza nella voce del suo scudiero e lo richiamò all’ordine con un tono fintamente spazientito, forse ricordando quando, nove anni prima, aveva ordinato proprio a lui, a quel suo coetaneo così entusiasta e brillante, di seguirlo in quell’assurda avventura che lo aveva già consegnato alla storia come stupor mundi.
«Una sciocchezza, mio signore, davvero nulla di importante…»
Il cardinale era stato pagato per svelare eventuali complotti ai danni dell’imperatore. Il porporato aveva arraffato le monete d’oro pattuite e confessato alcuni particolari relativi al papa.
«Nulla di importante; deve quindi trattarsi di una curiosità.»
«Una curiosità, sì, ecco, si tratta soltanto di una curiosità.»
«Sai bene quanto mi divertano le curiosità» lo incalzò Federico.
Francesco si morse le labbra.
«Va bene, mio signore. Si dice che il papa non ungerà la vostra testa, ma cospargerà d’olio sacro solo le vostre braccia e le vostre spalle.»
Federico rimase qualche istante in silenzio, poi sussurrò: «Ma certo! È il suo modo di sminuire la solennità della cerimonia». Poi alzò il braccio e accolse il falco sulla sua mano. «Ricordi il suono della vendetta, Francesco?»
«Certo che lo ricordo.»
«Al termine della funzione, Onorio III monterà il suo cavallo. Sarò io ad afferrare le briglie e ad accompagnarlo a piedi per un tratto di strada, fino alla chiesa di Santa Maria Transpadina. Per almeno cinquecento passi, io e il papa saremo soli…»
Francesco sussultò e poi strinse le redini, il suo cavallo arrestò il passo: «Ditemi che state scherzando, vi prego».
«Decidi tu, liberamente» sorrise Federico scalciando il suo corsiero per percorrere al galoppo gli ultimi metri che lo separavano dalla basilica.
Il falco, intanto, riprese il volo.
Era stato addestrato a colpire gli occhi della persona più vicina al sovrano nel caso in cui avesse udito il suono di un fischio che l’imperatore e Francesco avevano chiamato “vendetta”.
Il sovrano gli aveva davvero ordinato di far risuonare quel sibilo e istigare il rapace ad accecare il papa?
Federico amava giocare col dubbio e, ancora più spesso, con la morte.
Francesco ci rifletté seriamente: un suo segnale avrebbe potuto sfigurare il vicario di Cristo.
Ma, appunto, conosceva bene Federico. E non chiamò alcuna vendetta.
Non ancora.
Un messaggero esausto si accasciò al suolo davanti alla reggia di Palermo. Implorò un calice di vino annacquato e un tozzo di pane. Disse: «Sono qui per consegnare le lettere dell’imperatore».
Palermo era in fibrillazione. I cerimonieri si adoperavano da giorni per celebrare il ritorno di Federico. Furono stese pedane rosse e sistemati drappi e corone di fiori. I cuochi sfornavano prelibatezze elaborando nuove ricette. Musicisti e teatranti organizzavano spettacoli di intrattenimento, danzatrici saracene provavano nuovi passi e scenografie eccentriche mentre le soldataglie del regno sistemavano le dotazioni, le armature e gli stendardi per sfilare in armi.
Yusuf fu uno dei primi ad accorrere. Sorresse il cavaliere, lo accompagnò dentro il palazzo e si offrì di raccogliere la sua sacca per recapitare i messaggi che Federico, Costanza, l’arcivescovo Berardo da Castacca e il cancelliere Gualtiero di Palearia gli avevano consegnato.
Sfogliò le lettere ansimando. La maggior parte erano indirizzate ai chierici e ai cerimonieri. Ce n’era già una per l’astrologo Michele Scoto, che aveva raggiunto la corte da due giorni appena. Alla fine trovò quella destinata a lui. Sbrigò rapidamente le altre consegne e poi si chiuse nella sua stanza per leggerla.
La calligrafia di Federico era tondeggiante, i caratteri gonfi.
Yusuf,
quando leggerai questa lettera, sarò a pochi tramonti dal mio ritorno a casa.
Dopo l’incoronazione a Roma, ho deciso di visitare alcuni luoghi del mio regno. Sono già stato in parecchie città. Ho dei progetti, grandi progetti, soprattutto per Napoli. E le Puglie, Yusuf, le Puglie, che meraviglia! Ho avuto delle visioni, lì, delle visioni che sfiorano Dio e il cielo, ma te ne parlerò al mio ritorno.
Dopo nove anni, quello che tutti chiamavano “il figliolo” con intenti dileggianti o, nella migliore delle ipotesi, compassionevoli, varcherà i battenti della reggia da imperatore!
Nove anni! Quanto tempo! Chissà come sarai cambiato e chissà io, ai tuoi occhi!
La tua ultima missiva mi ha purtroppo confermato che non è stato ancora possibile rintracciare Esmeray. Inutile scriverti che ritrovarla sarebbe il dono più grande che potrei mai ricevere, e che varrebbe, per me, un’altra corona, la più ricca, la più scintillante. Ti prego, realizza anche questo mio desiderio: trovala! Rendi reale questo sogno!
Quanto ai miei doveri… il mio arrivo a Palermo coinciderà con una serie di incombenze e problematiche, ma confido nel loro buon esito. Entro pochi anni, nel nostro regno domineranno la pace e l’armonia. È una promessa che faccio oltre che a me stesso a te, Yusuf, che sei sempre stato un fratello, anche se il Dio che siamo obbligati a invocare ha nomi diversi.
Yusuf strinse la lettera, una lacrima gli rigò la guancia e si nascose nella barba che gli era cresciuta negli ultimi anni.
Ripensò a quando, dopo pochi mesi dal compimento della maggiore età, Federico aveva fatto in modo che lui, Kerim, Mahzum ed Esmeray potessero raggiungerlo nella reggia.
Solo lui aveva accettato. Kerim e Mahzum avevano considerato inammissibile la sottomissione di Federico alle politiche della Chiesa. Yusuf li aveva rimproverati: la decisione del loro amico era obbligata, dettata dalla politica. Era certo che Federico, pur avallandola formalmente, non avrebbe mai permesso una caccia serrata...