
- 504 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Senza famiglia
Informazioni su questo libro
Il suo padrone, Vitalis, è un vecchio musicista. La sua casa è la strada. I suoi amici sono tre cani e una scimmia. E lui si chiama Remì.
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Informazioni
Print ISBN
9788817071796eBook ISBN
9788858665299SECONDA PARTE
Avanti!
Avanti! Le strade del mondo erano mie, potevo scegliere, a capriccio, qualsiasi direzione, ero padrone di me stesso, nonostante la giovane età, ma l’idea non mi dava alcuna gioia.
Sono molti i ragazzi che sognano questa indipendenza, questa libertà… libertà di fare delle sciocchezze. Io, invece, sognavo di avere al mio fianco qualcuno che mi guidasse, mi consigliasse. Avevo sufficiente esperienza, maturata nelle sventure, per capire che avrei potuto rovinarmi, e questo mi spaventava. Ma, al tempo stesso, ero più prudente e avveduto di quanto non siano di solito i ragazzi della mia età. Un vantaggio pagato molto caro.
Così, prima di riprendere i miei vagabondaggi, volli andare a far visita a colui che, negli ultimi due anni, era stato come un padre, per me. Zia Catherine e i ragazzi avevano potuto vedere Acquin. Anche a me sarebbe stato permesso, pensavo. Anch’io ero stato suo figlio, lui mi aveva voluto bene!
Non osai attraversare Parigi con Capi alle calcagna. Che cosa avrei risposto alle guardie municipali, se mi avessero fermato? Di tutte le paure dettate dall’esperienza personale, quella della polizia era la più grande. Non avevo dimenticato Tolosa.
Legai una corda intorno al collo di Capi che dimostrò di non gradire affatto quella novità e tenendolo al guinzaglio mi diressi verso la prigione di Cliché. Prima di entrare, sostai per un momento davanti al portone come se avessi paura di varcarlo, paura di restarci intrappolato anch’io; pensavo che, se era difficile uscire da un carcere, più difficile ancora doveva essere entrarci. Ma non mi lasciai abbattere, non permisi che mi respingessero, supplicai e protestai e, finalmente, la spuntai.
Fui introdotto in un parlatorio, stranamente senza sbarre alle finestre, e poco dopo arrivò Acquin. Niente catene né manette, ai suoi polsi.
«Ti aspettavo, Rémi» mi disse. «Ho rimproverato Catherine per non averti portato qua con i miei figli.»
«Zia Catherine non me lo ha permesso» mormorai, rianimato un poco da quelle parole. «Né ha voluto prendermi con sé.»
«Era impossibile fare altrimenti, figliolo. Non sempre al mondo, si può fare quello che si vorrebbe. Sono certo che ti saresti guadagnato il tuo posto a tavola lavorando duramente, ma mio cognato non avrebbe avuto un lavoro adatto a te. Perciò… I ragazzi mi hanno detto che vuoi riprendere il tuo vecchio mestiere, cantare e suonare per le strade. Hai forse dimenticato che rischiasti di morire di fame e di freddo davanti alla nostra porta?»
«No, non l’ho dimenticato.»
«E non eri solo, allora, avevi un padrone che ti guidava. È una decisione pericolosa, Rémi, quella di riprendere, alla tua età, a vivere di nuovo sulle strade.»
«C’è Capi con me.»
Come sempre, nel sentire il suo nome, Capi abbaiò, quasi volesse ribadire la sua presenza e la sua disponibilità.
«Già, Capi è un buon cane, ma è solo un cane. Come ti guadagnerai da vivere?»
«Cantando e rappresentando qualche commedia.»
«Capi non può rappresentare una commedia da solo.»
«Allora gli insegnerò dei giochi di destrezza. Imparerai tutto quello che vorrò, eh, Capi?»
Il cane si portò una zampa al petto, con aria solenne.
«Se tu avessi giudizio, figliolo» riprese Acquin, «cercheresti un lavoro stabile. Hai delle buone doti di giardiniere, potresti sistemarti bene. Vagare per le strade, invece, è un mestiere da perdigiorno.»
«Non sono un perdigiorno e lei lo sa. Non mi ha mai sentito protestare per l’eccesso di lavoro. Mi sarei dedicato al giardinaggio con tutto me stesso e sarei rimasto per sempre con la sua famiglia, se le circostanze non me lo avessero impedito. Ma non voglio stare agli ordini di altre persone.»
Acquin per un istante mi guardò, in silenzio, poi disse: «Una volta ci hai raccontato che i modi signorili, un po’ alteri, di Vitalis, spesso ti meravigliavano. Sai? Li hai assorbiti. Non vuoi stare agli ordini di qualcuno? Fai come credi, figliolo, io ho parlato solo per il tuo bene e l’ho fatto perché lo ritenevo doveroso. Ma tu sei padrone della tua vita, non hai parenti e io non posso più fare le veci del padre che ti manca. Un disgraziato come me non ha diritto di comandare.»
Quel discorso di Acquin mi colpì profondamente.
Io sapevo che tornare a essere un vagabondo comportava dei gravi rischi. Non avevo dimenticato le tante esperienze negative, come quella della notte in cui i nostri cani erano stati divorati, come la fame e il freddo, compagni abituali; come l’umiliazione di essere cacciati via dai villaggi senza poter guadagnare un soldo. Non solo i giorni, ma anche le ore, i minuti nascondono pericoli e imprevisti per un vagabondo.
Ma, se rinunciavo a quella vita, non mi restava che diventare un qualsiasi operaio. E in questo caso, perdendo la libertà, avrei mancato alla promessa fatta ad Alexis, a Benjamin, a Etiennette e, soprattutto, a Lise. Lei non sapeva né leggere né scrivere, non avrebbe potuto tenersi in contatto con me. E questo significava l’isolamento, l’abbandono.
Che cosa avrebbe pensato di me, la piccola? Che non le volevo più bene, che non ricambiavo più i suoi sentimenti? No, impossibile.
Lo spiegai ad Acquin. Lui scosse la testa.
«I ragazzi mi hanno parlato dei tuoi progetti: sono lodevolissimi. La proposta di tenervi reciprocamente in contatto è generosa, ma io non pensavo né a me né a loro quando ti ho chiesto di riflettere, prima di tornare a fare il suonatore ambulante. Bisogna pensare prima agli altri che a se stessi, figliolo.»
«Giusto, papà Acquin. Lei stesso mi indica la strada da seguire: se rinunciassi all’impegno che ho preso a causa dei pericoli di cui lei mi parla, penserei a me e non agli altri.»
Il buon giardiniere mi fissò, a lungo. Poi, d’un tratto, mi tese le braccia.
«Viene qui, Rémi, dammi un bacio. Tu hai un cuore, sensibilità, sei più maturo e consapevole di un adulto. Fai ciò che credi giusto per te, e che Dio ti benedica.»
Per qualche istante restammo abbracciati, in silenzio. Poi Acquin si riscosse, si frugò in tasca e ne trasse un grosso orologio d’argento.
«Voglio lasciarti anch’io un mio ricordo, prima che ci separiamo. Questo orologio non ha un grande valore, altrimenti, capisci, lo avrei venduto. Non è neanche molto esatto e ogni tanto ha bisogno di una scrollatina; ma è tutto ciò che possiedo e te lo regalo di tutto cuore.»
E siccome mi schermivo, non volevo accettare, Acquin riprese, con voce triste: «In prigione, Rémi, è meglio non stare a contare le ore, diverrebbero anche più lunghe. Ora dammi un altro bacio, cerca di mantenerti sempre il bravo ragazzo che sei e lasciamoci.»
Mi ritrovai all’uscita senza sapere come, ero troppo turbato e commosso e feci qualche passo sulla strada. Da che parte andare? A destra, a sinistra? Il tempo passava e non sapevo decidermi. Poi, casualmente, infilai la mano in tasca e sotto le dita sentii un oggetto duro e rotondo, l’orologio. Il “mio” orologio!
D’un tratto dubbi e paure scomparvero. Lo tirai fuori dalla tasca e vidi che era mezzogiorno. Lo guardai a lungo, con affetto, direi. Era come avere un confidente con cui parlare, a cui chiedere consiglio.
Ero così assorto e soddisfatto da non accorgermi che Capi era contento quanto me. Mi tirava per i pantaloni, ogni tanto guaiva. Alla fine riuscì e destarmi dai miei sogni.
«Che vuoi, Capi?»
Mi guardò, poi si alzò sulle zampe posteriori e appoggiò una delle anteriori sulla tasca dove avevo di nuovo riposto l’orologio. Voleva sapere l’ora per poi “dirla all’onorevole pubblico” come faceva ai tempi di Vitalis.
Glielo mostrai. Lo fissò a lungo, come se cercasse di ricordare, poi dimenò la coda e abbaiò festosamente dodici volte. Non aveva dimenticato, e con quel gioco dell’orologio avremmo potuto guadagnare dei soldi. Era un gioco sul quale non avevo contato e che invece si rivelava divertente, appassionante, a giudicare da come ci guardavano alcuni passanti che avevano fatto cerchio intorno a noi.
Se ne avessi avuto il coraggio, avrei improvvisato una rappresentazione lì per lì. Fu la paura dei poliziotti a impedirmelo. E poi, era mezzogiorno, ora di rimettersi in cammino, dopo un’ultima occhiata alla tetra prigione dove il povero Acquin sarebbe rimasto chiuso a lungo.
Per viaggiare senza problemi, mi serviva una carta della Francia; sapevo che ne vendevano sulle bancarelle e mi avviai da quella parte. Non fu facile trovarne una proprio come la volevo, cioè incollata su tela, che si potesse ripiegare e, soprattutto, che non costasse più di un franco, una somma ragguardevole, per me. Finalmente ne vidi una, così ingiallita e consunta che il venditore si accontentò di settantacinque centesimi.
Ora potevo lasciare Parigi, il prima possibile.
Tra le varie strade tra cui scegliere, presi quella che portava a Fontainebleau. Mentre attraversavo un vicolo, lo riconobbi per quello dove abitava Garofoli e una quantità di ricordi mi riaffiorarono alla mente. Mattia, Riccardo, la marmitta con il coperchio chiuso da un catenaccio, la frusta di cuoio e anche Vitalis, il mio buon padrone che era morto per non aver voluto vendermi a Garofoli.
Sui gradini di una chiesa vicina, mi sembrò di riconoscere Mattia in un ragazzino seduto con aria sconfortata. La stessa testa sproporzionata, gli stessi occhi espressivi, la stessa aria dolce e rassegnata, lo stesso aspetto grottesco. Ma, strano, se era lui, non era cresciuto affatto.
Mi avvicinai per osservarlo meglio. Nessun dubbio, era proprio Mattia. Anche lui mi riconobbe e abbozzò un sorriso.
«Sei tu quel ragazzino che venne da Garofoli insieme con un vecchio con la barba bianca, prima che io entrassi in ospedale?» mi chiese. E aggiunse con una smorfia. «Come mi faceva male la testa, quel giorno.»
«Sono io. E tu lavori sempre per Garofoli?»
«Garofoli è in prigione: lo hanno arrestato perché ha tanto picchiato uno dei miei compagni al punto di ucciderlo.»
Quella notizia mi fece piacere e per la prima volta pensai che le carceri tanto odiate, in certi casi, erano utili, addirittura indispensabili.
«E gli altri ragazzi?»
«Non ne so niente. Ero in ospedale quando il padrone fu arrestato. Però quando uscii dall’ospedale, anche lui era uscito, chissà come, dalla prigione. E, visto che non poteva più picchiarmi per non mettermi del tutto fuori uso, preferì disfarsi di me e mi cedette, per due anni pagati in anticipo, al circo Gassot. Lo conosci? No, ecco, non è un circo vero e proprio, solo una specie di baraccone. Avevano bisogno di un ragazzo con un corpo deforme, snodabile come il mio. Sono rimasto là fino alla settimana scorsa, poi mi hanno mandato via perché la mia testa era troppo grossa per entrare in un certo foro e anche perché sono troppo sensibile. Così tornai da Garofoli ma non lo trovai. La casa era chiusa e un vicino mi disse che lui era di nuovo in prigione. Sono venuto qui perché non so dove andare, che fare. Ci sarebbe stato un altro circo disposto forse a prendermi, ma quando l’ho cercato i carrozzoni erano già partiti per Rouen. Non posso raggiungerlo. Sono stanchissimo e muoio di fame. Non ho mangiato niente da ieri a mezzogiorno.»
Per quanto povero anch’io, non lo ero al punto da lasciar morire di fame un essere umano.
«Aspettami qui» dissi a Mattia.
Corsi da un fornaio che aveva la bottega all’angolo della strada e comprai una pagnotta. Quando la detti a Matt...
Indice dei contenuti
- Cover
- Frontespizio
- Copyright
- Prima parte
- Seconda parte
- Il sapore della strada